di Marco Sferini
Mi capita sovente di stare su Facebook, un po’ per spirito di militanza politica che si esprime anche nell’ormai inflazionato e abusato uso delle reti sociali, un po’ per gioco e un po’ anche per noia. In questo girovagare per la rete, su Facebook, molto meno su Twitter che mi impedisce con soli 140 caratteri di mettere in pratica la mia personale vena polemica, leggo commenti di aderenti al Partito democratico che lamentano le critiche che ricevono in merito all’identità del loro soggetto politico, rispetto alle politiche che mette in essere ogni giorno, rispetto ai piani distinti tra ambito nazionale e ambito locale. La polemica di partenza è, quasi sempre, quella dell’identità dalla quale ne discendono le linee guida delle espressioni pratiche della politica del PD. Insomma, cos’è questo Partito democratico? E’ di sinistra? E’ di centro? E’ di centrosinistra? Oppure si avvia ad essere etichettato come forza conservatrice di destra liberaleggiante-liberista?
La risposta merita una riflessione seria e non una critica aprioristica. Merita l’osservazione compiuta di ciò che il Partito democratico ha fatto dalla sua nascita ad oggi.
Intanto va detto che il PD nasce dalla fusione di due culture politiche un tempo distinte ma reciprocamente collaborative in molte esperienze di governo: socialdemocrazia e cattolicesimo liberale e sociale, in pratica ciò che rimase del PDS dopo la mutazione in Democratici di Sinistra e ciò che rimase della Democrazia Cristiana dopo la mutazione in Partito Popolare Italiano (di donsturziana memoria almeno nominalmente) e successivamente in “La Margherita” che comprendeva anime differenti ma unite sotto il comune scopo dichiarato di fondare un “partito democratico”.
Qualcuno ricorderà il simpaticissimo simbolo de “I democratici” di Arturo Parisi che faceva sgambettare il fumetto di un asinello sorridente piuttosto che quello stilizzato di stile americano. Ma l’orientamento era comunque quello: la ricerca di un partito riformista, moderato, di centrosinistra che mettesse da parte le particolarità d’un tempo e aprisse una stagione politica diversa per i settori ancora vicini al socialismo democratico e al cattolicesimo democratico.
Nel nome della “democrazia”, dunque, il partito che è nato dalla fusione di DS e La Margherita ha scompaginato la scena politica tanto quanto avevano fatto prima Forza Italia e dopo il Movimento 5 Stelle.
Lo scopo era quello di offrire alla classe imprenditoriale italiana un punto di riferimento saldo che le consentisse di superare il berlusconismo e di farlo evolvere in una versione accettabile anche dal punto di vista mediatico, visto l’ormai palese screditamento creatosi attorno al vecchio Popolo delle Libertà dopo gli scandali di varia natura che avevano colpito Berlusconi stesso e molta parte del suo gruppo dirigente.
In questo senso, il Partito democratico ha rappresentato dapprima questo tentativo con una matrice di tipo sociale incarnata da Pierluigi Bersani e, dopo la sconfitta elettorale del 2013 (o della “non-vittoria”), la parte meno vicina alle vecchie tradizioni socialiste e comuniste ha segnato il passo ed è stata travolta dal rampantismo crescente di Matteo Renzi che ha creato attorno a sé un vero e proprio nuovo gruppo dirigente coltivato pazientemente nelle assemblee della Leopolda per quanto riguardava il vertice futuro del nuovo assetto del PD e con il mantra della rottamazione per quanto riguardava invece l’operazione-convincimento della base e degli elettori.
C’è riuscito. Renzi ha portato a termine questa operazione e ha tenuto comunque unito un partito internamente lacerato: ha relegato la minoranza di Bersani, Cuperlo e dei fuoriusciti Civati e Fassina ad una presenza tribunizia, ad un diritto di parola senza colpo ferire e ha imposto uno spostamento a destra delle alleanze.
Se Bersani non avrebbe mai preso in considerazione una politica comune con Alfano e Verdini, Renzi invece la abbraccia e la giustifica, ovviamente, con la necessità del governo del Paese, del miglioramento delle condizioni generali di vita, delle riforme costituzionali per snellire burocrazia e processi legislativi, e così via…
Naturalmente si tratta di una ristrutturazione politica di un partito che ha divorato i suoi padri e che ha aperto la strada a dei figli che ne hanno fatto il “partito della nazione”, quindi qualcosa di unitario al di là delle idee e degli ideali, un soggetto che vuole far stare inseme ex-forzitalioti ed ex comunisti.
Non siamo nemmeno alla riproposizione di un centrosinistra di piccole dimensioni, perché mancano proprio i confini politici che lo possano classificare come tale.
Allora cos’è il PD in termini geopolitici, come si colloca nella storia politica del Paese?
C’è chi crede che sia un partito di sinistra perché proviene dal lento logorio della caduta dei pezzi di un domino che da rosso è diventato rosa e poi celeste e si tinge quasi di nero a volte.
C’è chi crede che sia un partito di centrosinistra perché ha le “potenzialità” per ricreare esperienze come l’Ulivo (per la verità queste credenze le hanno fuoriusciti come D’Attorre che danno vita a “Sinistra Italiana”).
C’è chi crede che sia un partito di centro che fa politiche di destra e, a dire il vero, questa è la descrizione migliore che mi sento di condividere e sostenere.
E’ un partito che con Matteo Renzi si è fatto partito-governo e ha favorito la destrutturazione delle garanzie sociali del lavoro e dei lavoratori: ha messo da parte l’articolo 18, ha creato contratti che vanno oltre la collaborazione e che costringono oggi migliaia e migliaia di giovani e meno giovani ad essere schiavizzati con il pagamento in voucher; ha colpito le pensioni e ogni altro settore dello stato-sociale rimanente, favorendo le politiche monetarie europee di tutela dei privilegi finanziari, provando a contrastare una crisi tutta capitalistica dove i più poveri sono stati inseriti come vittime sacrificali.
Il Partito democratico va giudicato per le sue azioni e non per le etichette che si dà e che gli vengono date.
E’ un partito funzionale alla classe imprenditoriale e ne fa le veci dagli scranni di Palazzo Chigi. Ha, dunque, una buona ragione per esistere, una ragione pienamente logica: una logica di sistema.
Fonte: La sinistra quotidiana
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