di Francesco Bellusci
“Gli uomini sono nati per uccidere, ma portano il distintivo della pace in testa”, dice il soldato Joker in Full Metal Jacket di Kubrick, indicando icasticamente il duplice e paradossale ingrediente che sembra connotare la natura e la storia dell’umanità fino ad oggi: aggressività e solidarietà, violenza e tolleranza, civiltà e barbarie, guerra e pace. In nome della famosa “legge di Hume”, ovviamente, constatare per l’ennesima volta che sia così, non significa che debba essere così o che non possa non continuare ad essere così. Nulla ci autorizza a scivolare dal piano della descrizione a quello della previsione e addirittura della prescrizione, magari fornendo una giustificazione ad atteggiamenti fatalistici, cinici o pseudo-realistici. Può essere utile, invece, come ci aiuta a fare Giangiuseppe Pili, con il suo prezioso e corposo lavoro, appena dato alle stampe (G. Pili, Filosofia pura della guerra, Aracne, Roma 2015), reinquadrare, con un approccio filosofico, una serie di questioni che tornano ad assillarci: come definire la guerra?
La guerra è una possibilità, che quindi l’uomo può non scegliere, o è inevitabile? Cosa causa una guerra? Cosa fa aumentare le probabilità che accada? Nell’era della complessità e della globalizzazione, sono cambiate e come le forme del warfare, i teatri di guerra e la natura delle armi con cui si combatte? Il terrorismo globale è una forma di guerra e ha senso parlare di “guerra al terrorismo”? Cosa rende la guerra inaccettabile e deprecabile rispetto alla pace?
La delucidazione di tali questioni impone sicuramente di partire dalla definizione classica fornita da Carl von Clausewitz, nel 1832, secondo la quale «la guerra è la politica dello Stato proseguita con altri mezzi», per valutarne limiti e insufficienze a distanza di quasi due secoli. In effetti, la concezione della guerra come strumento politico di uno Stato finisce per relegare in una “terra di nessuno” varie forme di conflittualità armata o violenta, con contenuti politici più o meno evidenti, espliciti o realistici, come la guerra non-convenzionale, la guerra psicologica, il terrorismo, la strategia della tensione, difficilmente riconducibili a uno dei due termini, cioè difficilmente riconoscibili come politica o guerra in senso puro.
Il tentativo dichiarato di centrare una definizione più ampia e nello stesso tempo più precisa ha dato comunque fino adesso esiti insoddisfacenti: sia quando si sono ricondotte la politica e la guerra sotto la comune categoria generale di conflitto, come due facce di una stessa medaglia (Stefano Bernini, Filosofia della guerra, www.sintesidialettica.com, 2009) o si è capovolto addirittura l’assioma clausewitziano nella politica come guerra continuata con altri mezzi, ovvero nell’idea di un potere politico che, attraverso una specie di guerra silenziosa, cristallizza e perpetua rapporti di forze, come ha fatto Foucault in un celebre corso al Collège de France del 1976 (M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998 ); sia quando si estende il concetto di guerra a uno stato di conflitto organizzato e limitato nel tempo tra gruppi sociali, non necessariamente tra Stati (A. Moseley A. A philosophy of war, Algora, New York 2003). Nel primo caso, la pace non è più di fatto uno stato distinguibile dalla guerra e i due termini, politica e guerra, diventano vaghi e sinonimi, con un ridimensionamento del peso della discriminante dei mezzi. Nel secondo caso, se sono salvaguardate la discontinuità della guerra con lo stato di pace e la sua contingenza non necessaria, la definizione non discrimina la guerra da altri eventi di combattimento non bellici (rivolte, disordini, rivoluzioni etc.). Dal canto suo, Pili formula una definizione di guerra sufficientemente vaga e flessibile, tale da consentire applicazioni ampie o ristrette, soprattutto quando si misura con le tendenze attuali e gli scenari mutati dal secondo dopoguerra al post-guerra fredda. Innanzitutto, occorre che si diano due entità x e y capaci di manifestare ostilità o di assumere una disposizione ostile, cioè due soggetti dotati di intenzionalità (persone o gruppi di persone o Stati). La guerra nasce allora quando le due entità stanno in una relazione caratterizzata dal fatto che almeno una delle due usa la forza sull’altra, per imporle di seguire le sue intenzioni. Alla luce di questa definizione, ha un senso parlare di “guerra al terrorismo”, pur senza avere uno Stato di riferimento da definire “terrorista”. In questo modo, anche la definizione di pace, ottenuta per negazione di quella relativa alla guerra, ne risulta più puntuale ed efficace. La guerra così definita non è né una necessità naturale, radicata nella natura umana, né una necessità sociale. È questo un insegnamento che prima di tutto ricaviamo dalla storia, come ci ricorda Norberto Bobbio in un testo fondamentale sull’argomento (N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, 1979, ), in quanto molte guerre, che avrebbero potuto esserci, non ci sono state, perché evitate o scongiurate, e in quanto la dissipazione di energie e risorse che esse comportano, ne fanno un fenomeno sostenibile solo in modo limitato nel tempo o una soluzione non praticabile anche quando se ne dessero l’occasione o il pretesto. Ma, se esaminiamo attentamente le ragioni che possono determinare uno stato di guerra, non si tratta nemmeno di una necessità logica. Una guerra può nascere, infatti, o da una divergenza di interessi o dall’incompatibilità reciproca di “visioni del mondo”, come nel caso delle credenze religiose. Oppure dalla divergenza su come ottenere uno scopo comune, sicché estremizzando, sulla scorta di Aristotele, si potrebbe dire che la guerra nasce dal fatto che i contendenti hanno in mente due tipi di pace diversi. Per converso, sono altrettanto logicamente concepibili situazioni in cui gli interessi e le visioni del mondo convergono o sono neutri gli uni rispetto agli altri e che, quindi, non generano pericoli di guerra. E se la guerra nasce da un preliminare stato di conflitto di interessi o valori, vi sono alcuni fattori che rendono più probabile la trasformazione di quel conflitto in un conflitto armato: la moltiplicazione della presenza di questi conflitti, originati da motivi diversi, razionali e non; il carattere permanente degli interessi in gioco, legati alla soddisfazione di bisogni strutturali e vitali per l’individuo o il gruppo sociale, come il bisogno di accesso a determinate risorse energetiche o di accesso ai sistemi informatici, bisogni sempre più implicati dalla complessità sociale e tecnologica; gli stati di interessi “fluttuanti”, legati a correnti culturali del momento, come furono ad esempio il militarismo e lo spirito nazionalista alla vigilia della prima guerra mondiale oppure, oggi, ad esempio, la reviviscenza di correnti letteraliste e jihadiste nell’area musulmana mediorientale; reti sociali disomogenee, che favoriscono disintegrazione, frustrazione, senso di marginalità di individui o gruppi, che trovano sbocco nella violenza come unico sistema per sopravvivere e far valere i propri interessi. Oggi, nello scenario della complessità e della globalizzazione, la guerra non ha cambiato volto, ma maschere. Maschere che si chiamano: guerra economica, network centric warfare, cyber warfare, guerre asimmetriche come quella del terrorismo globale. Nuove forme di guerre rispetto a quelle tradizionali, in via di esaurimento dalla fine del XX secolo, che, per quanto non impossibili, comunque, almeno nell’area occidentale del mondo, incontrano vincoli difficilmente aggirabili: il non dover innescare escalation nucleari o guerre totali; un’opinione pubblica suscettibile e immediatamente perplessa rispetto all’opzione militare; la difficoltà a trasformare la vittoria militare in vittoria politica per le potenze occidentali, soprattutto in guerre di tipo asimmetrico. È toccato a due strateghi cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui, in un testo pubblicato la prima volta nel 1999 (Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2001), presentato come la versione aggiornata de L’arte della guerra di Sun Tzu, individuare la variabile indipendente della metamorfosi recente delle guerre nell’estensione della natura delle armi, che, pur costituendo come mezzo l’elemento discriminante dell’attività bellica rispetto alle altre, ormai trascendono l’ambito militare. A caratterizzare le nuove guerre sono nuove armi, non convenzionali, che pure possono essere usate in operazioni di combattimento: embarghi e sanzioni, pirataggio informatico, manipolazione mediatica e di network telematici, azioni terroristiche, in ogni caso dirette al risultato di abbattere la capacità di combattimento del nemico o di sconfiggere la sua volontà di combattere. Se, da una parte, la definizione data precedentemente di guerra tiene di fronte a questa evoluzione, dall’altra parte, essa implica e include a questo punto il corollario di una definizione più ampia di arma, che non può essere intesa solo come un oggetto capace di uccidere o ferire una persona, bensì come qualunque catena causale pianificata e utilizzata intenzionalmente da un agente per avere effetti diretti e indiretti, che vincolino la volontà del nemico o la sua capacità di azione. Un “armamento senza limiti” finisce anche per dilatare variabilmente i teatri di guerra e per configurare “guerre senza confini”, nell’era della complessità e della mondializzazione, che, secondo Giangiuseppe Pili, potrebbero essere filosoficamente concettualizzate nella nuova categoria di “guerra epistemica”, con la quale intendere qualunque guerra il cui scopo intrinseco è il controllo di una certa regione di spazio in uno scenario globale per mezzo della conoscenza e per la conoscenza, mettendo in campo così forme più sottili di coercizione. Anche se in alcune circostanze potrebbe essere vantaggioso optare per la guerra per risolvere un conflitto di interessi, questa decisione oggi resta inibita dalle maggiori difficoltà a conteggiare le parti in causa, a calcolare, determinare e dimostrare questo vantaggio. Cionondimeno, a spingerci a stare in pace, non saranno mai sufficienti mere ragioni di utilità, che, come ad esempio quelle economiche (e geoeconomiche), possono sempre, in modo ambivalente, indurre ad una politica di potenza che non esclude l’opportunità del ricorso alla guerra stessa. La desiderabilità della pace, in alternativa alla guerra, non è legata a qualche tipo di vantaggiosità, ma resta sostanzialmente morale e culturale, ovvero si fonda sul principio e la pratica del rispetto reciproco della dignità come esseri umani, che non ammette la possibilità di eliminare o costringere con la violenza la controparte di una contesa, premesso che, comunque, uno stato di pace non esclude totalmente e a priori contese e conflittualità tra stati, gruppi sociali, uomini. I progressi della pace dipendono in ultima istanza dai progressi di un’etica planetaria della convivenza umana, coadiuvata sempre da strumenti, procedure e istituzioni condivise in grado di mediare conflitti e comporre interessi, che non possono non avere, almeno come “fuoco immaginario” cui tendere, il progetto cosmopolitico kantiano. Utopistico o meno, realistico o meno che sia, è il solo modo in cui possiamo sperare di poter porre fine alle guerre, tradizionali e nuove: dictis, non armis, «con le parole, non con le armi», come raccomandava Lucrezio, impegnandosi e perseverando, cioè, nella “guerra” gentile della filosofia contro la violenza, l’ira e il terrore.
Fonte: doppiozero.com
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