La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 3 giugno 2016

Flessibilità UE, tiriamo a campare con i decimali

di Guido Iodice 
«Dear Pier Carlo…» scrivono i commissari europei Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici al ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, in una lettera del 20 maggio in cui, graziosamente, l’Europa ci ha concesso l’agognata “flessibilità”. Vediamo prima i numeri: la Commissione ci concede uno scostamento limitato, per quest’anno, allo 0,75% del PIL per gli investimenti (vale a dire il contributo al Fondo europeo per gli investimenti del Piano Juncker) e le riforme. Un’ulteriore minuscola dose di flessibilità, lo 0,10% del PIL, ci viene concessa per le spese legate alla crisi migratoria (0,04) e per la sicurezza (0,06). Si parla quindi di circa 13,6 miliardi che l’Italia potrà spendere in più rispetto a quanto dovrebbe secondo i piani. E qui sta il problema: perché in effetti, nonostante la flessibilità, in questo 2016 l’Italia deve comunque rientrare in un percorso di conso-idamento, tagliando il deficit al 2,3% rispetto all’anno scorso (2,6%). Ma non è finita. In cambio della flessibilità del 2016 dobbiamo essere “rigorosi” nel 2017 e portare il deficit all’1,8%.
Insomma, un’austerità al rallentatore, un po’ “francese” invece che la draconiana tagliola “tedesca” che ci avrebbe imposto di rispettare il fiscal compact e nel 2017 arrivare al pareggio di bilancio. «Alcune clausole di flessibilità – ha spiegato Moscovici a Sky – sono state pensate per poter essere usate una sola volta nel ciclo, e dunque è necessario che ad un certo punto si ritorni verso un percorso di bilancio normale».
Tradotto vuol dire che questa è l’ultima volta che Bruxelles ci fa sconti così grossi. Perché, va detto, per i Commissari questa è una concessione straordinaria: «Nessun paese ha avuto tanta flessibilità» dicono. Ma è una balla. La Spagna, ad esempio, ha potuto tranquillamente sforare tutte le regole possibili ed immaginabili fino ad oggi, arrivando a deficit stratosferici, pur di salvare le sue banche. Noi, invece, che non abbiamo dovuto intervenire sul sistema bancario se non marginalmente (per ora), dobbiamo stare alle regole che altri ignorano senza subire conseguenze.
Come se non bastasse, la Commissione ci detta anche le riforme da fare entro 12-18 mesi: accelerare le privatizzazioni, spostare il carico fiscale dai fattori produttivi ai consumi e alle proprietà, ridurre le detrazioni fiscali, completare la riforma del catasto, adottare misure contro l’evasione fiscale, mentre da parte sua il ministro Padoan si lancia in considerazioni opinabili secondo le quali la riduzione del debito pubblico è «una priorità e una condizione indispensabile per assicurare lo sviluppo del paese». Secondo Padoan, quindi, «l’Italia merita la flessibilità». Anche perché, spiega, l’Italia sta prendendo «le iniziative per favorire la crescita strutturale del prodotto interno».
Il fatto è che favorire la crescita del PIL “potenziale” al momento, non serve a nulla. Anzi può essere controproducente se lo si fa seguendo le linee della teoria economica dominante. Aumentare la flessibilità del mercato del lavoro, una delle ricette che abbiamo seguito proprio per applicare le teorie mainstream, ha l’effetto collaterale di produrre spinte deflazionistiche, costringendo i lavoratori ad accontentarsi di salari sempre più bassi. E quando i prezzi e i salari scendono, è più difficile rimborsare i debiti (il mutuo per la casa, il prestito per un’impresa, ecc.). E così si aggravano le sofferenze bancarie. E se si aggravano le sofferenze bancarie, che già sono altissime nel nostro paese, il credito si congela e la ripresa con esso. Insomma, con la pretesa di aumentare il PIL potenziale, che certo non aumenta solo perché il lavoro viene sfruttato di più, si rischia di fare disastri con quello corrente. Di ciò, in verità, è ben cosciente anche il ministro Padoan, che ha rimarcato la difficoltà di ridurre il debito pubblico in una situazione di in azione bassa o negativa. Ma allora non si capisce perché lo stesso ministro rivendichi le riforme deflazionistiche del governo.
Ancor meno fiducia si può riporre nelle privatizzazioni, viste come un mezzo per ridurre il debito pubblico. Certamente se il Tesoro vende le sue quote in Eni, Enel ed altre aziende partecipate può raggranellare qualche miliardo. Ma poi perdono i dividendi dati da queste partecipazioni. Senza contare che le, ormai poche, partecipazioni statali sarebbe molto meglio tenersele per poter fare un poco di politica industriale di cui l’Italia avrebbe disperato bisogno. Ma forse l’errore maggiore che caratterizza la politica economica del governo è l’impiego che sta facendo del deficit. Iniziative come gli 80 euro, ma anche gli sgravi fiscali per le assunzioni a tempo indeterminato, sono iniziative spot che non lasciano nulla o quasi.
Gli 80 euro ad esempio hanno, secondo alcune ricerche, prodotto sì un aumento dei consumi, ma questi si sono rivolti prioritariamente a prodotti importati. Sul lato degli sgravi per le assunzioni, subito dopo la loro riduzione le assunzioni si sono fermate. E considerando che nel frattempo in molti stanno usando i voucher a man bassa, il tasso di precarietà del lavoro nel nostro paese è in realtà aumentato, con le implicazioni a cui abbiamo già accennato.
Se poi non dovessimo riuscire a centrare gli obiettivi, infatti, scatteranno le “clausole di salvaguardia” (come quelle che ha dovuto accettare anche Tsipras insomma) che possono arrivare a ben 15 miliardi soprattutto attraverso l’aumento (ancora!) dell’IVA. Per ora il governo pare tranquillo, perché “a politiche invariate” l’Italia dovrebbe centrare un disavanzo dell’1,4% del PIL nel 2017 e non dell’1,8%. Lo spazio c’è. E però con il rallentamento della crescita degli Stati Uniti, le difficoltà degli emergenti e le sanzioni contro la Russia, l’unico significativo canale di domanda, le esportazioni, sta già mostrando la corda.
L’Italia quindi rischia di non centrare le previsioni di crescita e, se così, fosse, dovrebbe rifare i conti e dare al Bruxelles, se va bene, qualche altro decimale di deficit, rendendo ancor meno mite l’austerità che sta implementando.
Come si possa pensare che in una situazione del genere la “fata fiducia” ci porti la fine della crisi è qualcosa che è difficile immaginare.

Articolo pubblicato su Left il 28 maggio 2016. 
Fonte: Eunews Oneuro 

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