di Francesco Postorino
Beatificata dalla stragrande maggioranza e respinta dai nostalgici egalitari, la meritocrazia subisce un rimprovero pedagogico nell’ultima fatica di Giuseppe Tognon, La democrazia del merito (Salerno Editrice, pp. 112, euro 8,90). Qui si prendono le distanze dal mercato e dalla retorica delle «pari opportunità» in nome di una nuova antropologia del merito fondata sull’ideale democratico. L’obiettivo è denunciare quella «tentazione meritocratica» che cancella le fragilità e perde di vista i segni specifici di ogni essere umano. Non tutto può diventare merce. La ricerca di senso sfugge alle «curve sul profitto» e secondo l’autore riattiva quei luoghi della condivisione illuminati dal dono e dal ruolo trascendentale dell’incontro.
Il merito, nel suo autentico significato, rinnega l’utilitarismo spregiudicato e difende i talenti dell’umanità. La meritocrazia liberale si occupa al contrario di alcuni talenti e introduce una gara senza sosta dove invidiosi protagonisti rinforzano il carattere poco nobile dell’apartheid. Si tratta di uno schiaffo agli ultimi, ai «falliti», a chi consegue nella vita di tutti i giorni il «premio» della sobrietà.
Rinunziare a questa ideologia, continua il pedagogista, significherebbe non soltanto annullare la triste equazione merito/successo, ma più in generale ricostruire le fondamenta dell’umanità a scapito del vuoto, di un estrinseco sempre più legato ai processi di mercificazione. Le «fabbriche di eccellenza» ospitano rigidi criteri di valutazione che si rivolgono ad un automa assuefatto alle mode consumistiche. Egli non sa più quel che vuole e rincorre l’eccesso. Vive l’istante come unico orizzonte temporale e si dimentica della speranza, del futuro, dei fini di lungo periodo. Il cittadino sui iuris si traduce in imprenditore o in cliente, uomo-massa o manager. Ironizza sull’emotività, sui gesti creativi dell’arte e adopera ad oltranza il linguaggio operativo dell’informatica. L’università di Harvard e le scuole economiche trionfano sul sapere umanistico e feriscono le molteplici attese rifiutate da un sistema non immune dal pericolo totalitario.
In questo libro si ammonisce quel riformismo di sinistra, rilanciato dalla Third Way di Tony Blair, che non si discosta dal terreno delle discriminazioni e garantisce il primato dell’efficienza attraverso regole quasi identiche al modello reazionario delle destre. Al mito della libertà meritocratica, lo studioso contrappone giustamente il mito della libertà democratica incarnato nella figura di don Milani: Lettera a una professoressa è il simbolo di una verità sofferta. La «sufficienza» al disagio, voluta dal sacerdote fiorentino e offesa dai fanatici della competizione, non preannuncia un gretto livellamento, ma la riscoperta di un’alternativa, di un sentimento profondo che suggerisce la vittoria di chi adesso non può, di chi balbetta la sua vocazione e rivendica a pieno titolo uno spazio. Il merito deve attingere al registro democratico e riflettere con un nuovo approccio relazionale le sfumature di chiunque. La scuola della vita espelle così i toni arroganti dell’arrivismo e promuove le vie infinite che alimentano la giustizia.
Fonte: il manifesto
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