di Rino Genovese
È vero: il socialismo storico è rimasto in sostanza economicistico: questa una delle tesi condivisibili espresse da Axel Honneth nel suo L’idea di socialismo. Ma ciò dipende, come vuole Honneth, dal suo non avere avuto consapevolezza della differenziazione funzionale della società (segnalo ai non esperti che il riferimento è alla teoria sociologica circa gli ambiti differenziati in cui si svolge la vita sociale moderna: secondo cui, per esempio, la sfera del diritto non è la stessa della politica, e quella amorosa è diversa sia dall’una sia dall’altra), o non piuttosto dal fattore esattamente opposto: di avere dovuto affrontare, ai suoi inizi, la questione della miseria delle condizioni di lavoro del proletariato industriale dell’epoca, dell’intrusione pervasiva della sfera della produzione di merci in ogni settore della vita sociale, il tutto nel senso di un processo di segno contrario alla presunta differenziazione dispiegata delle funzioni sociali?
È sulla base di questa de-differenziazione a partire dal prepotere dell’economia – qualcosa che si combina maledettamente bene con il compromesso e la commistione con le tradizioni culturali più retrive: si pensi al connubio storico realizzato dal capitalismo, in particolare sul continente americano, con il modo di produzione schiavistico – che si misura lo sforzo del socialismo trascorso di proporre una de-differenziazione alternativa che, per forza di cose, non poteva non svolgersi sul terreno imposto dalle forze dominanti. Ne sono però scaturite grandi conquiste, che nel corso del tempo hanno contribuito a dissolvere i termini stessi della “questione sociale” di matrice ottocentesca. Si pensi all’invenzione dello Stato sociale – inizialmente bismarckiana, nata in chiave antisocialista, ma nelle sue successive realizzazioni socialdemocratiche ciò che ha tolto dalla tirannia del bisogno e dell’incertezza riguardo alla propria vita milioni di lavoratori. Da un punto di vista teorico generale, tuttavia, nient’altro che una forma di de-differenziazione in chiave politica della sfera economica liberale: un esempio di che cosa voglia dire, prendendo le mosse da un economicismo di fondo, arrivare a incidere nella politica “borghese” e statale.
È sulla base di questa de-differenziazione a partire dal prepotere dell’economia – qualcosa che si combina maledettamente bene con il compromesso e la commistione con le tradizioni culturali più retrive: si pensi al connubio storico realizzato dal capitalismo, in particolare sul continente americano, con il modo di produzione schiavistico – che si misura lo sforzo del socialismo trascorso di proporre una de-differenziazione alternativa che, per forza di cose, non poteva non svolgersi sul terreno imposto dalle forze dominanti. Ne sono però scaturite grandi conquiste, che nel corso del tempo hanno contribuito a dissolvere i termini stessi della “questione sociale” di matrice ottocentesca. Si pensi all’invenzione dello Stato sociale – inizialmente bismarckiana, nata in chiave antisocialista, ma nelle sue successive realizzazioni socialdemocratiche ciò che ha tolto dalla tirannia del bisogno e dell’incertezza riguardo alla propria vita milioni di lavoratori. Da un punto di vista teorico generale, tuttavia, nient’altro che una forma di de-differenziazione in chiave politica della sfera economica liberale: un esempio di che cosa voglia dire, prendendo le mosse da un economicismo di fondo, arrivare a incidere nella politica “borghese” e statale.
È anche vero che il socialismo, se in passato si trovò a farlo, oggi non potrebbe andare alla ricerca di un movimento o di una classe sociale specifici quali puntelli obiettivi per il suo messaggio – al cento per cento utopico. Utopia non è, in questo contesto, sinonimo d’impotenza e inadeguatezza alla realtà. Il socialismo – proprio come progetto di superamento del capitalismo e della sua de-differenziazione economico-finanziaria – implica un salto (“dal regno della necessità al regno della libertà”) che nessuna concezione puramente “normativa” (il termine è fin troppo centrale nelle strategie teoriche di Honneth e del suo maestro Habermas) potrebbe anticipare, per la semplice ragione che i valori e le norme, quando non s’identificano ipso facto con l’eredità culturale, appartengono a una sfera giuridico-politica che ciascuno si trova davanti storicamente depositata, riformabile a fatica mediante l’impegno e la discussione pubblica; laddove l’utopia esprime il senso di una rottura con ciò che è stato, perfino con quel passato che, direttamente o indirettamente, si è contribuito a formare. Il momento normativo non è un antecedente di ciò che sarà, la possibilità di una sua messa in gioco è qualcosa che appare successivamente: prima ci sono le norme, gli usi e i costumi precipitati, poi – da un sentimento d’ingiustizia, dall’intenzione di cambiare le cose, ossia da una rottura utopica –, sorge la richiesta normativa che, attraverso la discussione pubblica, può tradursi in un nuovo ordinamento legislativo. È quindi la democrazia, con il suo universalismo imperfetto, che fissa l’acquisizione dei diritti; l’utopia riapre il discorso intorno ai diritti, ripartendo da una particolare condizione determinata – quella del lavoratore, della donna, dell’immigrato, del precario, ecc. –, all’occorrenza orientandolo verso una liberazione della società nel suo complesso.
Nel libro di Honneth si trova la formula, del tutto condivisibile, di un diventare “sociale” della società. È l’angustia di una concezione puramente liberale della libertà a spingere verso quella che Honneth chiama libertà sociale. Peccato, tuttavia, che egli non vada al di là di una visione organicistica, improntata a Hegel e all’antica metafora della società come un organismo, nel delineare la concezione di una totalità bene ordinata e in se stessa armonicamente differenziata. Ma la società non è affatto un organismo, e soprattutto non lo è la società del socialismo, che non c’è ancora e ha lo statuto progettuale astratto di un’alterità. La sua “civiltà” implica infatti la messa in questione delle culture – non soltanto di quella occidentale moderna, ormai palesemente soltanto una cultura tra le altre, ma delle stesse culture “altre” nella misura in cui cancellano le istanze di libertà ed eguaglianza. Nessun olismo – a differenza di quanto supposto da Honneth – nell’individualismo sociale prospettato dal socialismo. Si tratta piuttosto di tenere insieme le pretese alla libertà individuale con i bisogni collettivi. Se quest’aspirazione, per un tratto, ha potuto identificarsi con il socialismo di Stato, con un’economia di piano centralizzata sia nella versione socialdemocratica sia in quella comunista, è dipeso da un insieme di circostanze storiche, che in quanto tali non sono però l’alfa e l’omega del socialismo.
La sperimentazione sociale – ancora una formula con cui si può concordare con Honneth, le cui proposizioni risultano tanto più interessanti quanto più sfuggono alla melassa filosofica in cui sono inserite – non dovrebbe ritenere di poter anticipare una reciprocità che non si dà bella e pronta nell’intersoggettività (di sicuro non nella dimensione dell’amore, da Honneth largamente sopravvalutata, come se non fosse essa stessa in molti casi mescolata con quella del potere), ma dovrebbe alludere ad essa utopicamente: il che accade, nello scarto anche piccolo dalle convenzioni correnti, quando scatta qualcosa, un momento di contestazione nei confronti dell’esistente, che lascia intravedere una realtà liberata.
Fonte: Il Ponte
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