di Emanuele Giordana
Con oltre 15,7 miliardi di paia di scarpe confezionate nel solo 2014, la Cina è il maggior produttore mondiale di calzature e l’Unione Europea è, a sua volta, il più grande mercato di sbocco dei prodotti in cuoio e calzaturieri del Celeste impero. Scarpe che vengono e che vanno: cuoio, suole, tomaie, cuciture, prodotti finiti e semilavorati. Loro là noi qua, ma le scarpe su cui camminiamo, le borsette o i giacconi di cuoio che indossiamo, hanno spesso una componente cinese anche se sono «Made in Italy». Chiedersi come e in che condizioni lavora il più grande mercato mondiale delle scarpe non è dunque peregrino. Lo abbiamo fatto con le magliette, i palloni, i tappeti, le tennis. Adesso un’alleanza internazionale di 18 organizzazioni, che ha lanciato la campagna Change Your Shoes, cerca di vedere oltre confine. Perché i lavoratori della filiera calzaturiera abbiano diritto a un salario dignitoso e a condizioni di lavoro sicure. E perché i consumatori sappiano su cosa camminano.
Non è la prima indagine della Campagna che ha già condotto ricerche in India, Indonesia, Europa dell’Est, Italia e Turchia. Questa volta un dossier – Tricky Footwork. The Struggle for Labour Rights in the Chinese Footwear Industry – punta i riflettori sulla Cina, sulla base di un’inchiesta realizzata a fine 2015 tra i lavoratori di tre fabbriche della provincia di Guangdong curata dall’organizzazione tedesca Südwind. Il rapporto denuncia una situazione allarmante dal punto di vista delle violazioni dei diritti umani per chi lavora nella grande fabbrica asiatica di scarpe.
L’indagine non è stata facile e si basa in gran parte su interviste che confermano come nell’industria cinese del cuoio e delle calzature le violazioni delle leggi sul lavoro siano diffuse. E così le punizioni: un verniciatore è stato licenziato dopo 5 anni di lavoro nei giorni seguenti a uno sciopero. «Mentre scioperavamo – racconta un altro – la polizia ci ha aizzato i cani contro, istigandoli a mordere». Gli intervistati, che lavorano in stabilimenti che producono per conto di noti marchi europei (come Adidas, Clarks, Ecco), segnalano retribuzioni basse (400 euro al mese circa) e orari faticosi (una media di oltre 10 ore al giorno) con straordinari obbligatori, sicurezza inadeguata, tutele insufficienti per i più giovani, maltrattamenti e divieto di riunirsi in assemblea, repressione degli scioperi, contributi previdenziali non versati, liquidazioni insufficienti.
Le donne poi sono un capitolo a parte: solo la metà degli intervistati ha riferito che alle donne è concessa l’aspettativa per maternità e per alcune di loro, nel periodo di assenza dal lavoro, lo stipendio è stato calcolato sul minimo anziché sulla media salariale come stabilisce per legge. Donne e uomini non sarebbero poi trattati allo stesso modo senza contare le denunce di abusi verbali.
Ma ciò che colpisce della situazione cinese – che raccontata così non differisce molto da quella di altri Paesi dell’area – è che le condizioni di lavoro degli operai del settore sono in contrasto con le leggi sul lavoro, in Cina molto avanzate. Soprattutto, nota il rapporto, se il confronto lo si fa a con quelle di altri Paesi produttori. Per legge infatti i lavoratori godono di molte tutele – anche se non della libertà di riunione e associazione – e inoltre quasi tutti i grandi marchi delle calzature hanno adottato codici di condotta per un maggior controllo dei fornitori.
Una spiegazione la dà Deborah Lucchetti, coordinatrice di Abiti Puliti che aderisce alla Campagna: «Il settore delle calzature è molto dinamico e la Cina gioca un ruolo fondamentale nella rete di fornitura globale che assegna ai veri Paesi funzioni produttive diverse. Questo porta a una competizione senza regole che sacrifica i diritti dei lavoratori e ostacola processi di emancipazione nelle fabbriche». Anche a discapito delle regole che evidentemente subiscono pochi controlli in nome del motto «arricchitevi» che in realtà non è ancora stato sostituito dal nuovo trend cinese la cui parola d’ordine sarebbe «armonia». Nelle fabbriche del Guangdong sembra ce ne sia pochina.
Per mettere assieme il dossier sono stati intervistati 47 lavoratori di tre calzaturifici del Guangdong, una delle aree più densamente industrializzate del Paese e centro della produzione di scarpe. Lo studio termina con una serie di raccomandazioni per favorire miglioramenti di natura sociale e ambientale nell’industria cinese di cuoio e calzature, settore che ha conosciuto una crescita record ma che ha anche ignorato alcuni standard internazionali di tutela come quelli indicati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Documenta però un dato positivo: una maggiore capacità di organizzazione dei lavoratori e di conseguenza conquiste ottenute attraverso diverse forme di lotta.
Fonte: il manifesto
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