di Marta Fana
Lo scontro sulla Loi El Khomri o Loi Travail, tra il governo francese e l’opposizione sociale nel Paese, sembra inasprirsi con il passare delle settimane. La nuova legge si colloca nel solco delle cosiddette “riforme strutturali”, caposaldo dell’agenda europea, tese a eliminare le “rigidità” del mercato del lavoro – la contrattazione collettiva, i vincoli al licenziamento e alla compressione dei salari – accusata di ostacolare la competitività delle imprese e con essa la ripresa dell’economia e dell’occupazione. L’articolo 2 della legge ribalta la gerarchia delle norme che regolano i tempi di lavoro, i congedi e gli straordinari, sancendo il primato degli accordi stipulati a livello aziendale su quelli di categoria, espressione della contrattazione collettiva finora giuridicamente superiore ai primi. È l’articolo più discusso e contestato, perché andrebbe a modificare i rapporti di forza tra lavoratori e imprese, a favore delle seconde.
Il ribaltamento è confermato in una nota della commissione Affari sociali del Senato del 17 maggio, secondo cui la Loi Travail garantirebbe il “primato dell’accordo aziendale su quello di categoria anche nel caso in cui questo preveda condizioni peggiorative per il lavoratori”. Un esempio riguardale retribuzioni degli straordinari, che secondo la riforma potrebbero essere pagati con una maggiorazione del 10% sulla paga oraria di base piuttosto che almeno il 25% previsto dall’attuale normativa.
Lo stesso vale per la durata dell’orario lavorativo settimanale, il cui limite legale delle 35 ore potrà essere aggirato da un accordo di impresa senza il parere del sindacato di categoria necessario nell’attuale normativa. E questo fino a una media di 46 ore settimanali (ad oggi fissata in 44 ore) per un massimo di dodici settimane. Il limite massimo giornaliero passa poi dalle dieci alle dodici ore nei casi di riorganizzazione aziendale.
Per comprendere appieno la portata della legge in termini di rapporti di forza tra lavoratori e imprese basta guardare alle disposizioni relative alla “conservazione o sviluppo dell’occupazione” in seno all’impresa. In questi casi l’azienda, indipendentemente dalle condizioni economiche in cui si trova, può proporre ai lavoratori una modifica del tempo di lavoro e delle retribuzioni, in deroga all’accordo di categoria, fatta eccezione per il valore complessivo del salario mensile. Una novità dirompente. Di fatto, l’impresa potrà mantenere il salario mensile intatto aumentando però l’orario di lavoro e riducendoil compenso orario. Il lavoratore che rifiuta l’accordo è allora licenziabile per ragioni “serie e reali”, ma non per ragioni economiche, e potrà consolarsi con un programma di ricollocamento presso il centro per l’impiego.
Inoltre, l’ultima versione della Loi Travail, recependo gli emendamenti della commissione Affari sociali, stabilisce i casi in cui è possibile giustificare i licenziamenti economici, definendoli in base alla riduzione del volume di affari o commesse per un determinato periodo. In particolare, le imprese con meno di 11 dipendenti potranno invocare la questione economica per i licenziamenti nel caso in cui il volume d’affari si riduca durante un intero trimestre, mentre per le imprese con più di 300 dipendenti il calo dovrà riguardare quattro trimestri consecutivi. Nel momento in cui le imprese soddisfano tali requisiti, il giudice non potrà più intervenire nelle dispute, neppure se il calo coinvolge solo l’impresa e non anche l’intero settore.
Un’ulteriore modifica al ribasso per i lavoratori riguarda i risarcimenti in caso di licenziamento illegittimo. La Loi Travail, infatti, introduce un tetto massimo al risarcimento che va da un minimo di 3 mensilità per un’anzianità inferiore ai due anni, fino a un massimo di 15 mensilità per i lavoratori con oltre 20 anni di anzianità. Finora, la legge non prevedeva alcun tetto massimo ma soltanto un plafond minimo di risarcimento.
Alla luce dei punti salienti della riforma del lavoro francese appare chiaro il perché di una mobilitazione così massiccia per boicottarla. Per l’opposizione politica, sindacale e sociale, dietro alla retorica della modernità, l’impianto della legge nasconde l’obiettivo ultimo delle riforme strutturali del mercato del lavoro: il regresso sociale.
Con la Francia si conclude, dopo le riforme in Spagna, Portogallo, Grecia e Italia, la richiesta europea di scaricare sul costo del lavoro i processi di aggiustamento dei singoli Paesi al fine di garantire piena agibilità alle imprese, spesso de-responsabilizzandole per i mancati investimenti. Il caso francese è però emblematico, e solo nelle sue linee di fondo la riforma può essere accomunata al jobs act italiano. Il mercato del lavoro francese è molto più rigido del nostro e ha vissuto una rivendicazione politica radicalmente diversa nel corso degli ultimi decenni. Basti pensare che la legge sulle 35 ore fu introdotta come antidoto alla disoccupazione (“lavorare meno, lavorare tutti”), a cavallo degli anni Duemila, quando in Italia, per far fronte agli stessi obiettivi, venivano via via introdotti il “Pacchetto Treu”, la “Legge Sacconi” (2001) e la “Legge Biagi”.
Non solo. Nei decenni scorsi, la Francia è rimasta sostanzialmente immune alla retorica del lavoro autonomo che in Italia ha portato alla deriva dell’occupazione parasubordinata e delle finte partite Iva. Queste forme di precariato tutte italiane hanno avuto l’effetto, non sgradito alle imprese, di disinnescare la capacità di azione collettiva dei lavoratori. Non è un caso che l’opposizione alla Loi Travail si muova compatta mentre quella al Jobs Act non è riuscita a intercettare, all’interno di un’opposizione comune, le diverse forme di precariato.
Fonte: Il Fatto Quotidiano
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