di Alfredo Marsala
Oggi arriva Mattarella a Lampedusa. E di colpo ’scompaiono’ i migranti. Nemmeno dieci giorni fa nell’hotspot dell’isola delle Pelagie c’erano 517 persone. Tutti ammassati nella struttura dove i migranti vengono divisi tra profughi e migranti economici, sfregiata dall’incendio che qualche tempo fa mandò in fumo il «padiglione Uno» dopo una rissa tra tunisini e subsahariani. In gran fretta ne sono stati trasferiti più della metà, non si sa bene dove. In contrada Imbriacola ne sono rimasti 220. Il capo dello Stato troverà una situazione tranquilla, ben governata. Decoro, è la parola d’ordine. Ci sono abituati i lampedusani, ogni qualvolta nella loro terra sbarcano le istituzioni tutto deve funzionare alla perfezione. Questione d’immagine. Lampedusa è il primo hotspot creato in Sicilia, anzi imposto dall’Ue, mentre in Europa si alzavano i primi muri, si installavano le reti metalliche ai confini dei Paesi più a est. Poi ne sono stati istituiti altri due, a Pozzallo (Rg) e a Trapani.
Il quarto si trova a Taranto. Non basta. Bruxelles ne vuole altri due. Sempre in Sicilia. A Messina e a Mineo (Ct), l’indicazione del Viminale.
Il quarto si trova a Taranto. Non basta. Bruxelles ne vuole altri due. Sempre in Sicilia. A Messina e a Mineo (Ct), l’indicazione del Viminale.
La Sicilia, insomma, per l’Ue, con l’avallo del governo italiano, deve diventare un maxi-hotspot. Di più. Un avamposto, una sorta di hotspot galleggiante, non foss’altro perché siamo già su un’isola. Un progetto che fa tornare indietro le lancette dell’orologio a un paio d’anni fa. Quando l’unico approdo per chi fugge da guerre e miserie erano le coste siciliane. Prima che l’Europa si accorgesse che non c’era solo un’emergenza da gestire ma un esodo biblico di proporzioni enormi che l’Occidente dimostra di non sapere e volere gestire.
A Messina, il sindaco Renato Accorinti non ne vuole sapere: «Non lo voglio l’hotspot». «Dal ministero nessuno s’è preso la briga di informarmi, serve rispetto istituzionale. Comunque – aggiunge – siamo assolutamente contrari, significherebbe creare un enorme lager nella mia città. E non lo posso consentire». A Messina in questo momento sono ospitati 355 minori non accompagnati. «Sono in strutture ben adeguate, assistiti, facciamo il possibile per dare loro una vita migliore – spiega il sindaco – Per noi l’accoglienza è questa, no stipare migliaia di migranti, già disperati, in strutture-lager».
Una di queste è il PalaNebiolo, il palazzetto dove vengono portati parte dei migranti che sbarcano nella Sicilia orientale. «E’ un posto offensivo per la dignità di qualunque essere umano», attacca Accorinti. Il sindaco dice di non sapere quale sia il piano del Viminale, né la location che dovrebbe essere trasformata nell’hotspot. In agenda ha un incontro col prefetto Mario Morcone, a capo delle politiche per l’immigrazione del ministero degli Interni. «Gli dirò che non vogliamo il lager – chiarisce – e gli presenterò altri progetti per l’accoglienza dei migranti, che a Messina frequentano corsi e già qualcuno ha imparato il mestiere del pizzaiolo o è diventato cuoco». Pare che il ministero abbia individuato la caserma dismessa dell’esercito nel quartiere Camaro, una delle zone più degradate della città, quartiere popolare. Si vedrà.
C’è attesa anche a Mineo, nel catanese. Il Cara è di nuovo al collasso. Quasi come due anni fa. Dopo il clamore per l’omicidio della coppia di anziani a Palagonia, il ministro Alfano fu costretto a “svuotare” il centro che conteneva oltre 4mila persone e al centro di inchieste da parte delle procure di Roma, Catania e Caltagirone. Calato il silenzio, Mineo è tornato a esplodere. Sono oltre 3mila i migranti chiusi nella struttura, che diventerà un hotspot, secondo i piani di Roma-Bruxelles. Chi lavora per il Cara ipotizza che il numero possa addirittura arrivare a 7mila presenze, ben oltre i 5mila residenti di Mineo. In questo momento sul Cara operano, con tre turni di lavoro, 170 uomini delle forze dell’ordine, tra poliziotti, carabinieri e finanzieri. Gli operatori sono circa 270, quasi tutti con contratti a tempo determinato, pochi i full-time. Un aumento sconsiderato delle presenze metterebbe in discussione l’intero sistema. Anche se c’è chi sarebbe pronto a sfruttare il nuovo “business”.
«Trasformare Mineo in un hotspot significa far finta di non capire che quella struttura non ha niente a che vedere con l’accoglienza, ma col business che vi sta dietro», attacca Erasmo Palazzotto, deputato di Sinistra italiana e segretario della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza.
Non va meglio a Pozzallo, dove l’hotspot c’è già. I migranti dovrebbero rimanere 72 ore, invece si arriva anche ad attese di un mese. Sono chiusi in un capannone in cemento alla fine del porto commerciale in mezzo al nulla: 300 persone, 150 delle quali non hanno neanche 18 anni. Cinque bagni in totale, uno ogni 60 persone. Tutt’attorno, all’interno e all’esterno della recinzione, non c’è un albero, una macchia di verde. Solo cemento che s’arroventa d’estate e si riempie di pozze quando piove.
Fonte: il manifesto
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