di Filippo Elba
Negli ultimi tempi le pensioni sono state oggetto di provvedimenti piuttosto penalizzanti. Si ricordano, in particolare: il blocco delle perequazioni, avviato con il Governo Monti e solo in parte compensato a seguito della sentenza della Corte Costituzionale dello scorso aprile (sentenza n. 70/2015); la mancata erogazione del bonus 80 euro, con aumento delle disuguaglianze tra pensionati e dipendenti a sostanziale parità del reddito[1]. A parziale compensazione, a partire dal 2016, è prevista l’equiparazione della no tax area tra pensionati e lavoratori dipendenti. Tuttavia, la portata di questo intervento, è assolutamente insufficiente. La stessa Ragioneria dello Stato (2015), nella nota tecnica relativa alla Legge di Stabilità 2016, evidenzia come il costo della misura è pari ad “appena” 160 milioni di euro relativamente al solo anno in corso (anche per il 2017 e il 2018 il costo non si discosta di molto da questa cifra).
Ciò perché, ad essere equiparata è solo la no tax area dei pensionati over 75 anni, mentre, per i pensionati più giovani, la no tax area arriva a 7.750 euro (dai 7.500 del passato). Oltre a ciò, questo intervento prevede scarsissimi effetti nei confronti di chi percepisce un reddito complessivo fino a 15 mila euro, mentre non prevede alcuna differenze rispetto al passato al di sopra di questa soglia.
Ciò perché, ad essere equiparata è solo la no tax area dei pensionati over 75 anni, mentre, per i pensionati più giovani, la no tax area arriva a 7.750 euro (dai 7.500 del passato). Oltre a ciò, questo intervento prevede scarsissimi effetti nei confronti di chi percepisce un reddito complessivo fino a 15 mila euro, mentre non prevede alcuna differenze rispetto al passato al di sopra di questa soglia.
L’effetto di queste scelte assume una grossa rilevanza in un contesto come quello italiano. Nel nostro Paese, infatti, le pensioni, oltre che fonte di sostentamento per chi le riceve, costituiscono un canale attraverso cui, informalmente, si fornisce una protezione sociale più diffusa, mirata a supportare indirettamente anche chi, all’interno della famiglia del pensionato, abbia problemi di disoccupazione ma non solo.
In tal senso, interessanti sono gli studi che s’interessano al modello di Welfare State dei Paesi Mediterranei. In questi contesti, il ruolo che assume la famiglia nell’ambito delle politiche sociali è centrale, togliendo, invece, importanza all’individuo. In quest’ottica, per esempio, il cosiddetto modello “delle solidarietà familiari e parentali”, descritto dalla Naldini (2002), attribuisce ai genitori, e in particolare al maschio, un ruolo cruciale nell’ambito di questo tipo di interventi. Evitando per il momento di esprimere un giudizio su quale modello sia più giusto o preferibile, è comunque pacifico che nel modello mediterraneo le pensioni sono doppiamente importanti: nei confronti di chi ne ha maturato il diritto e nei confronti della sua famiglia. In questi contesti è prevista, per esempio, la reversibilità, ma è conseguenza di questa impostazione anche il fatto che l’importo degli assegni pensionistici sia più elevato di quanto non accada nei contesti “dual-erner”, più tipici del Nord Europa, in cui entrambi i genitori lavorano e la centralità della famiglia è, per così dire, “smorzata” da una maggior importanza attribuita all’individuo singolarmente preso.
Lo sbilanciamento delle politiche sociali che si ha nel contesto mediterraneo e, più in particolare, italiano è sottolineato anche da Corchia (2013), il quale, più recentemente, evidenzia come “il modello italiano è viziato da una concezione particolaristica che protegge anzitutto i pensionati e alcune categorie di lavoratori inseriti all’interno del mercato del lavoro regolare, a discapito delle generazioni più giovani, delle donne, dei precari …”.
Dunque, in attesa di un cambiamento di impostazioni delle politiche di Welfare, che al momento non parrebbe ancora esserci, andare sistematicamente a colpire, o a non tutelare, le pensioni, significa indebolire le politiche sociali nel loro complesso.
La protezione sociale nei principali Paesi UE
Per quanto concerne il rapporto tra spesa per protezione sociale e Pil, l’Italia, rispetto ai principali Paesi UE, è ai primi posti. In realtà, il processo che porta l’Italia in vetta a questa classifica parte con la crisi, tra 2007 e 2008. Poi, mentre per i Membri più forti, la situazione si ricompone dopo il 2009, in Italia si assiste ad una stabilizzazione solo momentanea, con un’ulteriore crescita nel 2012 e nel 2013. È, però, interessante sottolineare come, fino alla crisi, l’Italia avesse un rapporto tra spesa per il Welfare e Pil agli stessi livelli di quella del Regno Unito e decisamente al di sotto degli altri Paesi UE continentali, Francia e Germania innanzitutto (la differenza rispetto a questi due Paesi era di circa il 4/5%). Poi, con la crisi, la situazione, come detto, si stravolge e l’Italia si ritrova ad essere uno dei Membri UE con il valore di questo rapporto più elevato (Fig. 1).
Fig. 1: spesa protezione sociale[2] in % Pil nei principali Paesi UE, periodo 2002-2013
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat (http://ec.europa.eu/eurostat/web/social-protection/data/main-tables).
Lo scenario appena descritto può dare, però, un’impressione distorta. Quanto visto non sta a significare che l’Italia abbia aumentato la spesa in protezione sociale durante la crisi, o meglio questo è vero solo in piccolissima parte. La quantità, e il costo, di certe prestazioni è certamente cresciuto (vedi il sostegno al reddito per i tanti disoccupati), ma s’è verificato soprattutto il calo del Pil, con riduzione del denominatore del rapporto percentuale visto in Fig. 1.
Che la spesa per protezione sociale non sia aumentata, se non fino al 2010, è evidente quando si va a considerare il livello della spesa procapite nei principali Paesi UE: non soltanto la spesa media dei principali partner europei si aggira attorno agli 8-9 mila euro (valori massimi in Svezia e Paesi Bassi) contro quella italiana, che si ferma attorno ai 7 mila, ma, mentre nei principali Paesi UE questo valore tende sempre a salire tra 2002 e 2013, in Italia, dopo il picco 2010 (7.125 euro di spesa procapite in protezione sociale), il valore inizia a calare. Una situazione simile la registra solo la Spagna, sebbene i valori della spesa procapite in questo Paese siano decisamente più bassi (Fig. 2).
Fig. 2: spesa protezione sociale procapite nei principali Paesi UE, periodo 2002-2013
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat (http://ec.europa.eu/eurostat/web/social-protection/data/main-tables).
Anche la Fig. 2, tuttavia, può essere ulteriormente migliorata. Innanzitutto essa rappresenta il costo procapite relativo a tutto il comparto protezione sociale, ciò significa che, una parte di questa spesa, viene dirottata in trasferimenti a favore dei soggetti aventi diritto, un’altra parte, viene impiegata per il funzionamento dagli Enti e dalle Amministrazioni competenti in materia (a tal proposito si guardi il contenuto della nota 2). In secondo luogo, questa rappresentazione non tiene conto delle differenze esistenti tra i Paesi UE in termini di potere d’acquisto.
È possibile esaminare più direttamente il livello di spesa procapite che si tramuta in trasferimenti nei confronti dei cittadini e che, dunque, sortisce effetti più immediati sulla platea dei beneficiari. Nel far questo, si procede tenendo anche conto del diverso costo della vita esistente nei contesti analizzati.
Guardando al livello di spesa procapite relativo a tutte le tipologie di trasferimenti per protezione sociale, a parità di potere d’acquisto, si evidenzia come l’Italia, se fino al 2010 registrava livelli di spesa procapite immediatamente al di sotto di quelli dei principali partner europei (la differenza è di circa un migliaio di euro), dal 2010 fronteggia un rallentamento che porta le differenze a 1.500/2.000 euro (uniche eccezioni il Regno Unito e la Spagna, che, per tutto il periodo analizzato, registra livelli di spesa procapite decisamente più bassi dei nostri) (Fig. 3).
Fig. 3: spesa procapite (a parità di potere d’acquisto) per trasferimenti per protezione sociale, principali Paesi UE nel periodo 2003-2013
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat (http://ec.europa.eu/eurostat/web/social-protection/data/main-tables).
È possibile analizzare quello che accade alle singole voci che, aggregate tra loro, determinano la spesa per protezione sociale. Tra queste, sono qui analizzate le spese procapite per trasferimenti destinati a disabili, disoccupati e pensioni di anzianità o vecchiaia.
Prendendo in considerazioni la spesa procapite per trasferimenti relativi ad aiuti per la disabilità, l’Italia è ultima all’interno del gruppo dei principali Paesi Membri, con livelli anche inferiori rispetto a quelli della Spagna. La situazione non pare migliorare granché nel corso degli anni (Fig. 3).
Fig. 4: spesa procapite (a parità di potere d’acquisto) per trasferimenti per assistenza disabilità, principali Paesi UE nel periodo 2003-2013
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat (http://ec.europa.eu/eurostat/web/social-protection/data/main-tables).
L’importo procapite relativo ad aiuti durante la disoccupazione è in media con i principali Paesi UE, quantomeno negli ultimi anni. Un incremento forte lo si registra in corrispondenza dell’inizio del lungo periodo di recessione in cui il Paese è entrato nel 2007/2008: tutti i Paesi analizzati, chi più chi meno, vedono incrementare questo valore tra 2007 e 2008. Tuttavia, per l’Italia e per altri, tra cui la Spagna, l’incremento è consistente e continuo anche negli anni successivi. Ciò avviene a causa del protrarsi della crisi. Nel periodo pre crisi, invece, l’Italia risulta fanalino di coda. Ciò evidenzia come, in condizioni “normali”, il nostro Paese abbia un sistema di protezione dalla disoccupazione assolutamente inadeguato, equiparabile a quello esistente per la disabilità (Fig. 4).
Fig. 5: spesa procapite (a parità di potere d’acquisto) per trasferimenti contro la disoccupazione, principali Paesi UE nel periodo 2003-2013
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat (http://ec.europa.eu/eurostat/web/social-protection/data/main-tables).
Quando si passa all’analisi delle pensioni, invece, l’Italia risulta tra i Paesi più generosi, sebbene la tendenza negli ultimi anni stia cambiando. In questo caso, infatti, il nostro Paese si piazza ai primi posti sia nel periodo pre crisi, sia in quello di crisi vera e propria. Tuttavia, se tutti i principali Paesi UE vedono aumentare ininterrottamente il livello di spesa procapite per trasferimenti di questo tipo, ad eccezione del Regno Unito che, però, a partire dal 2012 sembra essersi ripreso, l’Italia, proprio dal 2012, pur registrando un aumento, segna un rallentamento rispetto agli anni precedenti. L’effetto è evidentemente dovuto al blocco delle perequazioni, iniziato proprio in quell’anno[3] (Fig. 5).
Fig. 6: trasferimenti procapite (a parità di potere d’acquisto) per pensioni anzianità e vecchiaia, principali Paesi UE nel periodo 2003-2013
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat (http://ec.europa.eu/eurostat/web/social-protection/data/main-tables).
Da quanto visto, è evidente come la situazione di emergenza innescata dalla crisi economico-finanziaria abbia spinto i Governi italiani, succedutisi negli anni, ad una generale stabilizzazione della spesa sociale, rispetto agli incrementi conosciuti negli altri Paesi UE (Fig. 2 e 3). È altresì vero che si è assistito ad un piccolo ridimensionamento del peso delle pensioni di anzianità e vecchiaia al fine di affrontare l’incremento dei costi relativi al sistema di ammortizzatori contro la disoccupazione il quale, tuttavia, risulta essere sì in media con quello dei principali Membri UE, ma pur sempre insufficiente: Stati, come per esempio la Spagna, che hanno subito conseguenze gravi a causa della crisi, come l’Italia, si sono dimostrati molto più generosi nei confronti dei propri disoccupati (Fig. 4).
Questa breve rassegna è utile per sottolineare, quindi, come la politica di protezione sociale in Italia consista essenzialmente in spesa pensionistica. In mancanza di misure utili a ridistribuire il carico della spesa sociale anche tra altri ambiti di intervento, quali i trasferimenti a sostegno di disoccupazione o disabilità, intervenire sulle pensioni in senso restrittivo (come fatto negli ultimi tempi) significa, non soltanto penalizzare i percettori, ma andare a limitare quella sorta di “effetto di compensazione” tra i diversi canali della spesa sociale che lo Stato non è in grado di fare e che viene fatto, in una certa misura, dai privati.
I trasferimenti tra privati cittadini
Sulla base delle informazioni dell’Indagine sulle condizioni di vita (UDB IT SILC) Istat, anni 2014 e 2013, è possibile valutare l’effetto di parziale ridistribuzione delle risorse realizzato dai privati cittadini e, in particolare, dai percettori di redditi da pensione. Dal momento che, come visto, le pensioni italiane sono mediamente un po’ più generose rispetto alla media europea (sebbene ciò sia sempre meno vero a partire dal 2012) e, al contempo, i trasferimenti per affrontare altri problemi di natura sociale sono, invece, scarsi e insufficienti, spesso i pensionati vestono i panni di “ridistributori” delle risorse.
Grazie alle informazioni Istat è possibile quantificare il totale degli importi che i diversi soggetti, tra cui anche i pensionati, trasferiscono a soggetti esterni alla “famiglia anagrafica”[4] di appartenenza. I trasferimenti considerati sono quelli che avvengono in maniera regolare[5], sono perciò escluse le somme erogate occasionalmente (regali, donazioni etc.)[6].
Cominciamo da una suddivisione della popolazione in base al reddito prevalente percepito. Per quanto riguarda l’anno d’imposta 2013, l’Indagine Istat evidenzia come, dei circa 51,5 milioni di soggetti con età maggiore di 15 anni (tutti i potenziali percettori di un reddito), il 29,2% (15 milioni circa) sia rappresentato da soggetti con un reddito prevalente da pensione. La categoria più numerosa risulta, però, quella dei lavoratori dipendenti, pari al 37,6% del totale (19,4 milioni) (Fig. 6).
Fig. 7: composizione della popolazione dei maggiori di 15 anni in base al reddito prevalente percepito, redditi 2013[7]
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (UDB IT SILC) – 2014.
Per quanto riguarda la maniera con cui il reddito disponibile netto[8] complessivo si distribuisce tra queste categorie (pari, per il 2014, a 754,6 miliardi), si evidenzia come poco più del 50% di questo è posseduto da chi percepisce un reddito prevalente da lavoro dipendente. Il 31,4%, invece, è nelle mani dei percettori di reddito prevalente da pensione. Minoritaria la quota delle altre categorie (Fig. 7).
Fig. 8: composizione del reddito disponibile netto complessivo in base al reddito prevalente percepito, redditi 2013
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (UDB IT SILC) – 2014.
Quando si va a considerare il monte complessivo dei trasferimenti che i contribuenti italiani hanno erogato regolarmente a conoscenti o parenti al di fuori della famiglia anagrafica di appartenenza (come già evidenziato, non sono presi in considerazioni regali o donazioni occasionali), pari a 1,64 miliardi di euro, sono i pensionati i più “generosi”, dal momento che ben il 44% del totale di questo importo proviene dalle loro tasche (Fig. 8).
Fig. 9: composizione del totale complessivo delle somme erogate a soggetti al di fuori della famiglia anagrafica per reddito prevalente percepito, redditi 2013
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (UDB IT SILC) – 2014.
Se, invece, si considera il monte complessivo dei trasferimenti che i contribuenti italiani percepiscono regolarmente da soggetti esterni alla famiglia anagrafica (anche in questo caso sono esclusi regali e doni occasionali), il cui ammontare complessivo è pari a 1,67 miliardi di euro[9], i pensionati sono una delle categorie che ne beneficia meno, il 14,71% del totale, nonostante la loro numerosità (Fig. 9).
Fig. 10: composizione del totale complessivo delle somme ricevute da soggetti al di fuori della famiglia anagrafica per reddito prevalente percepito, redditi 2013
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (UDB IT SILC) – 2014.
In valori assoluti, i pensionati registrano un saldo negativo, pari a circa mezzo miliardo, tra quanto ricevuto e quanto erogato regolarmente da e verso soggetti esterni alla famiglia anagrafica. Tra le altre categorie, solo i dipendenti sono in passivo (-175 milioni di euro), mentre le altre ricevono più di quanto non diano (Fig. 10)[10].
Fig. 11: totale delle somme erogate e ricevute per trasferimenti tra soggetti privati per reddito prevalente percepito, redditi 2013
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (UDB IT SILC) – 2014.
Conclusioni
Come in parte emerso da questa analisi empirica, le carenze che il sistema di protezione sociale presenta in Italia finiscono con l’essere scaricate, in parte, sulla famiglia. È per questo che, come emerge dai dati, è centrale il ruolo che, innanzitutto i pensionati, svolgono nel trasferire risorse dalle proprie tasche a quelle di soggetti che vivono al di fuori della propria famiglia anagrafica, presumibilmente figli e nipoti[11].
In assenza di una riforma strutturale degli strumenti che l’ordinamento italiano prevede nei confronti di determinati rischi, primo fra tutto quello legato alla disoccupazione, le pensioni finiscono, indirettamente, con assumersi l’onere di riparare a queste mancanze, con tutto ciò che ne deriva in termini di distorsione del sistema. Si pensi al fatto che non tutti i genitori con pensione sono o sarebbero in grado di aiutare figli e nipoti in difficoltà, a differenza dello Stato che, evidentemente, sarebbe in grado di aiutare tutti coloro che si trovano in una certa situazione socio-economica, a prescindere dalla famiglia di origine. Diventa prioritario un intervento deciso in questo settore.
Nell’attesa di questa riforma, tuttavia, l’atteggiamento di ostilità che, in alcuni frangenti, sembra esserci nei confronti delle pensioni, finisce inevitabilmente con il ripercuotersi negativamente anche su questa sorta di azione “redistributrice”. Tenendo conto di ciò, importante sarebbe avere maggior attenzione nei confronti delle pensioni dal momento che, a trarne vantaggio, non sarebbero i soli pensionati ma, “a cascata”, anche tutti quegli altri soggetti che attualmente sono tagliati fuori, o sono solo marginalmente toccati, dagli strumenti di sostegno al reddito previsti dal nostro Welfare.
Bibliografia
Burgalassi M. (2007), Il welfare dei servizi alla persona in Italia, Franco Angeli, Milano.
Corchia L. (2013), Dall’espansione alla crisi del Welfare State. Una ricostruzione dei fattori critici nel modello italiano, in Toscano M. A., Cirillo A., Sulla razionalità occidentale. Processi, problemi, dialettiche, Franco Angeli, Milano, pp. 319-332.
DpR 223/1989, Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente.
Elba F. e Patrizii V. (2015), Un fisco per la crescita ma con poca equità, Caf Cisl.
Eurostat (2016), Social Protections Statistics, (http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Social_protection_statistics#Database)
Istat (2016), Indagine sulle condizioni di vita (UDB IT SILC) – 2014.
Istat (2015), Indagine sulle condizioni di vita (UDB IT SILC) – 2013.
Naldini M. (2002), Le politiche sociali e la famiglia nei Paesi mediterranei. Prospettive di analisi comparata, Stato e mercato, 22(1), pp. 73-100.
Ragioneria dello Stato (2015), Nota tecnico – illustrativa alla Legge di Stabilità 2016, Mef (http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Legge_di_stabilit/2016/Nota_tecnico-illustrativa/Legge_di_stabilita-Nota_tecnico_illustrativa.pdf).
Note
[1] Elba F. e Patrizii V. (2015), Un fisco per la crescita ma con poca equità, Caf Cisl, pagg. 29-30.
[1] Elba F. e Patrizii V. (2015), Un fisco per la crescita ma con poca equità, Caf Cisl, pagg. 29-30.
[2] Costituita da: benefit sociali, ossia trasferimenti, in denaro o natura, a famiglie e individui, per alleggerire il peso di determinati rischi o bisogni; costi amministrativi per la gestione e amministrazione di questo tipo di aiuti; altre spese, che consistono, per esempio, in esenzioni fiscali. L’ammontare è calcolato a prezzi correnti.
[3] Dalla Fig. 5 è piuttosto evidente anche l’effetto prodotto del blocco delle perequazioni avvenuto tra 2008 e 2009.
[4] “Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi la dimora abituale nello stesso comune. Una famiglia può essere costituita da una sola persona” (DPR 223 del 1989).
[5] L’elemento della “regolarità” con cui avverrebbero questi trasferimenti li può, in qualche misura, equiparare ai trasferimenti che lo Stato prevede in caso di disoccupazione o difficoltà in genere.
[6] Dall’analisi che segue è, dunque, esclusa tutta la casistica relativa agli aiuti che i pensionati erogano a vantaggio di soggetti “interni” alla famiglia anagrafica.
[7] Nella categoria “Altri” ci sono tutti i percettori di redditi non da lavoro (rendite finanziarie e immobiliari, borse di studio, sussidi vari, etc.). Nella categoria “Senza Reddito” ci sono tutti i maggiori di 15 anni che non percepiscono alcun tipo di reddito (casalinghe, studenti, disoccupati senza sussidio, etc.).
[8] Si intende la somma dei redditi da lavoro, pensione, rendite finanziarie e immobiliari, nonché borse e sussidi vari percepiti dall’individuo. Sono esclusi i trasferimenti in denaro da e verso privati.
[9] La differenza tra totale delle somme erogate e totale delle somme ricevute, seppur minima, è imputabile a versamenti da e verso l’estero (si pensi, per esempio, ai residenti di origine straniera).
[10] Guardando a ritroso al 2012, la situazione non cambia di molto: i soggetti che percepiscono un reddito prevalente da pensione rappresentano il 29,13% del totale dei maggiori di 15 anni (Fig. 11); detengono il 31,09% del reddito disponibile netto complessivo (pari a 753,2 miliardi di euro) (Fig. 12); erogano il 37,28% del totale dei trasferimenti a privati all’esterno della famiglia anagrafica (il totale è di 1,47 miliardi di euro) (Fig. 13); percepiscono il 13,77% dei trasferimenti da privati cittadini (il totale è di 1,65 miliardi di euro) (Fig. 14); hanno un saldo negativo, tra quanto ricevuto e quanto erogato, di 320 milioni di euro (Fig. 15).
Al momento le informazioni sui trasferimenti tra privati al di fuori della famiglia anagrafica sono credibili per i soli anni 2013 e 2012. Per gli anni precedenti è necessario stimare questi valori. Infatti, per il 2011 e il 2010 il monte complessivo dei trasferimenti ricevuti è decisamente più elevato di quello dei trasferimenti erogati (probabile origine da lavoro nero?), mentre per gli anni precedenti al 2010 l’indagine non distingue tra versamenti obbligatori legati ad assegni di mantenimento e versamenti volontari regolari, che sono quelli qui analizzati per il 2013 ed il 2012.
[11] A tal riguardo, i dati dell’Indagine non forniscono particolari dettagli sulle caratteristiche dei soggetti da cui o a cui gli intervistati, a seconda dei casi, ricevono o erogano parte del proprio reddito netto disponibile.
Fonte: Economia e Politica
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