Il 2016 é l’anno di importanti ricorrenze e commemorazioni. Sono passati esattamente 60 anni dalla tragedia della miniera di Marcinelle, in Belgio, dove perirono 262 lavoratori di cui 162 italiani e tra questi 60 abruzzesi, e 70 anni dagli accordi “Uomo-carbone” che prevedevano, in cambio dell’invio di migliaia di lavoratori italiani nelle miniere del Belgio, carbone per la rinascente industria italiana del secondo dopoguerra.
Giusto e fondamentale è ricordare quello che è stato: morti sul lavoro, vedove e orfani, invalidi, spesso neanche considerati come invalidi per cause di lavoro, le lotte coraggiose dei nascenti patronati italiani all’estero – in primis l’INCA CGIL – per il riconoscimento delle malattie professionali e per un’ uguaglianza dei diritti tra i lavoratori emigrati e quelli autoctoni. Di tutto questo dobbiamo tramandare il ricordo e continuare nella lotta per far si che non accada mai più.
Giusto e fondamentale è ricordare quello che è stato: morti sul lavoro, vedove e orfani, invalidi, spesso neanche considerati come invalidi per cause di lavoro, le lotte coraggiose dei nascenti patronati italiani all’estero – in primis l’INCA CGIL – per il riconoscimento delle malattie professionali e per un’ uguaglianza dei diritti tra i lavoratori emigrati e quelli autoctoni. Di tutto questo dobbiamo tramandare il ricordo e continuare nella lotta per far si che non accada mai più.
Però bisogna anche legare a tutto questo una riflessione sui motivi che portarono a quelle emigrazioni di massa, con uno sguardo insistente anche quelle che hanno innescato la nuova ondata di emigrazione, portando dai centomila ai trecentomila cittadini italiani a lasciare ogni anno il proprio paese alla ricerca di una vita migliore.
Ai tempi in cui maturarono i fatti di Marcinelle, l’Italia usciva distrutta dalla seconda guerra mondiale. I militari e i Partigiani tornavano alle loro famiglie, ritrovandosi senza un lavoro e spesso senza una casa o un terreno da coltivare. Nel tentativo di diminuire il malcontento sociale che montava inesorabile, il governo italiano decise di favorire l’emigrazione all’estero, sopratutto nelle nazioni dove la richiesta di braccia a buon mercato era più forte: Francia, Gran Bretagna, Svizzera, Belgio, solo dopo la Germania.
Non di rado, si favoriva l’emigrazione dei lavoratori più politicizzati, nel frattempo vittime di licenziamenti politici avvenuti durante la normalizzazione delle fabbriche, avvallando una delle condizioni poste dal governo americano per accedere ai fondi del piano Marshall.
Quindi il governo italiano dell’epoca usa l’emigrazione come una valvola di sfogo per abbassare la tensione sociale, coprendo le sue incapacità -addirittura il governo americano si lamentava a proposito dell’incapacità dello stato italiano di utilizzare in modo proficuo le risorse del piano Marshall- con l’effetto positivo non trascurabile per le casse e il bilancio dello Stato della valuta estera che arrivavano alle famiglie degli emigrati per il loro sostentamento. Punto che andrebbe ricordatato ai nuovisti che ogni tanto riprovano a tagliare sia le già esigue pensioni versate agli italiani all’estero che i servizi erogati dai consolati.
Ovviamente nulla delle responsabilità dei vari governi italiani e europei del tempo sono apparse nei fiumi di parole delle commemorazioni ufficiali di questi giorni, come se quegli incidenti e quelle migrazioni fosse accadute solo per responsabilità del destino cinico e baro.
Oggi sarebbe piuttosto difficile favorire un’emigrazione di massa ufficiale come ai tempi di Marcinelle, ma il governo italiano fa poco o nulla per fermare l’emorragia che sta spopolando nuovamente il nostro paese. Non solo dal sud Italia, ma sempre più dalle regioni del nord, colpite da una imponente deindustrializzaizone.
Al netto dei profili molto qualificati che emigrano perché sicuri di migliorare la loro posizione lavorativa, spesso partendo con un nuovo contratto di lavoro già in tasca, buona parte di chi emigra lo fa per necessità. I pochi studi disponibili, confermati dall’esperienza quotidiana di chi vive tra la nuova emigrazione, ci dicono che una gran parte dei nuovi emigrati una qualche forma di “occupazione” l’aveva in Italia.
Purtroppo però o era in nero o rientrava in una delle decine di forme di lavoro flessibile inventate da solerti politici italici per aumentarne i profitti delle imprese sulla pelle dei lavoratori. Si emigra, quindi, per trovare un lavoro “buono e stabile” e un sistema di welfare efficiente che aiuti i cittadini quando ne avranno bisogno.
Decidere di emigrare o restare in Italia sono entrambe delle decisioni molto difficili, e entrambe meritano rispetto. Crediamo pero’ che l’apporto di idee e di energie degli emigrati italiani all’estero, sia di fondamentale importanza per fermare il declino dell’Italia e contribuire a gettare le basi di una sua rinascita economica, culturale e sociale.
Partito della Rifondazione Comunista
Federazione Europea
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