La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 4 agosto 2016

I nuovi schiavi lavorano a voucher

di Fabrizio Gatti
Una volta c’erano l’operaio, la guardia notturna, l’autista, il postino, il cameriere, l’idraulico, l’insegnante, il professore universitario. La nostra identità dipendeva anche dal ruolo che il lavoro ci assegnava nella società. Oggi tutte queste professioni, e molte altre ancora, possono essere riassunte in un unico mestiere: il voucherista. Essersi fermati alla terza media, come Andrea P., 49 anni, o avere tre lauree come Marco Traversari, 52 anni, docente universitario, per il moderno datore di lavoro forgiato dalla crisi e dalla retorica della quarta rivoluzione industriale non fa nessuna differenza.
Sia Andrea, parcheggiatore notturno a chiamata, sia il professor Traversari valgono 7 euro e 50 centesimi di paga netta l’ora, più un euro e trenta di contributi pensionistici all’Inps, settanta centesimi di assicurazione antinfortunistica all’Inail e cinquanta centesimi di gestione del servizio. Fanno dieci euro tondi tondi: cioè, il costo orario lordo del lavoro nell’Italia che fa scappare i cervelli e tratta chi resta allo stesso modo, dal disoccupato a vita ai proletari della conoscenza.
È nata così una nuova classe sociale: il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro, degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola. Ma oggi esteso a tutti i settori. Un ulteriore contributo della legge all’aumento dei working-poor: i nuovi poveri che, nonostante lavorino, vivono appena sopra il limite di sussistenza, o addirittura al di sotto. Il voucherista non ha infatti diritto a riposi o a ferie pagate. E questo, nel clima di cinesizzazione sociale che stiamo vivendo, potrebbe essere visto come un inutile privilegio.
Ma non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità, a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli malati. Cioè a tutta quella serie di conquiste civili che finora hanno fatto la differenza tra un cittadino dell’Europa occidentale e un operaio-suddito dei regimi orientali. Perché al di fuori dei pochi centimetri quadrati del voucher e delle relative ore pagate, il rapporto di lavoro e lo stesso lavoratore cessano di esistere.
Pochi giorni fa l’Inps ha confermato il boom anche per il 2015: 115 milioni di buoni-lavoro staccati da gennaio a dicembre, contro i 69 milioni del 2014 e i 36 milioni del 2013. Un aumento nazionale del 67,5 per cento in dodici mesi con punte del 97,4 per cento in Sicilia, dell’85 in Liguria, dell’83 in Puglia e in Abruzzo, del 79 in Lombardia. La nuova classe sociale coinvolge già più di un milione e mezzo di lavoratori, due terzi dei quali al Nord. Metà uomini e metà donne. E l’età media è in continua diminuzione: 60 anni gli uomini e 56 le donne nel 2008, anno di introduzione dei buoni-lavoro; 44 e 36 anni nel 2011; 37 e 34 anni oggi.
Anche l’età conferma la trasformazione da rimedio estemporaneo per arrotondare la pensione o gli ultimi anni di attività, a retribuzione vera e propria. Nel 2015 i datori di lavoro (imprese, commercianti, famiglie) hanno acquistato voucher per un miliardo e centocinquanta milioni di euro, che hanno generato contributi per quasi 150 milioni all’Inps, per 80 milioni all’Inail e compensi ai lavoratori per 862 milioni e 500 mila euro, oltre a 57 milioni in commissioni burocratiche.
La crisi economica fa sicuramente la sua parte. Spinge gli imprenditori a tagliare i costi e a impiegare i dipendenti a ore o a giornata, soltanto quando servono. E mette anche a disposizione una massa di disoccupati, cassintegrati, esodati, mobilitati, licenziati costretti a svolgere più lavori saltuari per raccogliere qualcosa che assomigli alle briciole di una paga. È un po’ come il junk-food, il cibo spazzatura: si mangia quello che capita. Qui siamo al junk-job: si accetta quello che passa.
Non sempre, ovviamente, il giudizio è negativo. Per gli studenti superiori e universitari i buoni sono una risorsa contro il lavoro nero o l’apertura di costose partite Iva: permettono infatti di lavorare in regola in bar, ristoranti, negozi e uffici per mantenersi parte degli studi. Nella stessa categoria degli studenti, rientrano quanti arrotondano grazie ai voucher uno o più stipendi part-time. Il lavoro accessorio tra l’altro non va dichiarato al fisco. Ma sono gli unici a dirsi completamente soddisfatti.
La seconda categoria di voucheristi comprende quanti integrano in questo modo la magra pensione di anzianità. Oppure il salario di disoccupazione. E per le persone in mobilità sopra i quarantacinque anni la condizione di voucherista diventa una condanna permanente al sottoprecariato: perché l’istituzione dei buoni-lavoro offre ai datori la possibilità di non stabilizzare mai i loro dipendenti.
La terza categoria raccoglie gli ex contratti a progetto, ora in gran parte aboliti, e le finte partite Iva, settore crollato del dieci per cento nel 2015. E loro stanno addirittura peggio: è la situazione di migliaia di collaboratori, educatori, addetti di cooperative sociali e piccole società a responsabilità limitata che da qualche mese devono accettare stipendi in minima parte pagati con i buoni. Il resto in nero.
L’uso di voucher sta dando corpo anche a due categorie di datori di lavoro: quelli che rispettano la norma e trasformano il rapporto accessorio in contratto non appena l’impiego diventa stabile e quanti continuano a suddividere illegalmente l’impiego stabile in più rapporti accessori. Soltanto due limiti economici imposti dalla legge impediscono al momento una diffusione più massiccia dei voucheristi, auspicata da un’ampia scuola di giuslavoristi rappresentata anche dall’ex ministro nel governo Berlusconi, Maurizio Sacconi.
Sono la barriera di settemila euro netti del compenso complessivo annuo in buoni che un lavoratore non può superare e di 2.020 euro all’anno pagati da ogni singolo committente. La terza condizione, cioè il vincolo che si tratti di lavoro accessorio, viene già aggirata da tempo. Soprattutto dove i voucher hanno avuto successo nel coprire il lavoro nero.
UN ALIBI PER EVITARE GUAI
Ecco cosa accade in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, regioni in cui l’impiego di voucheristi ha registrato un aumento del 57,4 e del 40,1 per cento nell’ultimo anno. I buoni-lavoro hanno polverizzato i contratti part-time e stagionali nell’agricoltura. E oggi anche nelle campagne raccontate nel primo romanzo di Pier Paolo Pasolini “Il sogno di una cosa”, grazie ai voucher si ricorre largamente al lavoro nero. La raccolta della frutta e la vendemmia in Friuli durante l’estate e l’autunno 2015 hanno consolidato il rapporto tra la parte dello stipendio pagata in buoni e la parte illegale. È di uno a trenta: 37,50 euro al mese in voucher e 1.062,50 in contante per un massimo mensile di millecento euro. Ovviamente, soltanto per le settimane lavorate. Se piove o la raccolta termina, si va a casa senza paga. Fanno comunque più o meno 40 euro al giorno: un ottimo compenso rispetto ai 25-30 euro pagati, quando va bene, dai caporali in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania.
Ma che senso ha staccare 37 euro e 50 al mese in buoni-lavoro su un totale di millecento euro? Sono il valore netto di appena cinque voucher: «Certo», risponde Paolo F., 53 anni, ex operaio in un’impresa subappaltatrice di Fincantieri a Monfalcone e oggi bracciante a chiamata: «E sono l’alibi per evitare guai con l’ispettorato. È la prima informazione che ti danno sui campi: “Se viene un controllo, dite che è il primo giorno che fate qui”. Il voucher serve a questo: a coprire l’eventuale verifica o l’eventuale infortunio. Alla raccolta della frutta quest’anno eravamo in novanta.
Un po’ di tutto: padri di famiglia come me, cinquantenni in mobilità da anni, donne senza lavoro, qualche romeno. Tutti pagati 37 euro e 50 in voucher al mese e il resto cash. Fanno oltre novantamila euro al mese di nero che l’azienda tira fuori per pagare il personale. Per obbligarli a versare i contributi, basterebbe verificare il lavoro eseguito. Come è possibile raccogliere tonnellate di frutta per i supermercati lavorando soltanto le cinque ore al mese retribuite dai voucher? Inutile aggiungere che di controlli non ne abbiamo mai visti». Perché non vuole sia rivelato il suo cognome? «Perché devo lavorare. I voucher hanno cancellato le ultime tutele sindacali: se parli, come minimo non ti chiamano più».
Una norma, introdotta dopo l’inchiesta de “l’Espresso” sulcaporalato nella raccolta dei pomodori, impone che i contratti siano registrati un giorno prima del loro inizio. Con i voucher basta un minuto prima: magari lo stesso momento in cui avviene un incidente. «Sappiamo di imprenditori che una volta passato il nostro controllo hanno disattivato il voucher», rivelano i carabinieri delNucleo di tutela del lavoro in Lombardia: «Lo sappiamo in via confidenziale. L’Inps non ha nessuna banca dati sulle disattivazioni. Il trucco è attivare il voucher tutti i giorni per una sola ora. E magari disattivarlo a fine giornata. Per noi diventa impossibile contestare il lavoro nero. Dall’evasione totale dei contributi si passa all’elusione e le sanzioni si riducono. Dovremmo insomma impiegare uomini e risorse dello Stato per recuperare cifre irrisorie che non giustificano il costo».
EDUCATORE E FATTORINO
Basta il confronto con la cedola di una busta paga tradizionale per misurare la smaterializzazione del rapporto di lavoro che il voucher ha garantito. Questo è quanto riporta la busta: ragione sociale dell’azienda, nome e cognome del dipendente, data di nascita, data di assunzione, scatti di anzianità, luogo di lavoro, mansione, figli a carico, ferie, permessi, Tfr, versamenti Inps e Inail. E questo è quanto viene richiesto dal voucher: periodo prestazione, codice fiscale datore di lavoro, codice fiscale lavoratore, firma lavoratore. Fine.
Aldo Furini, 55 anni, gestisce con la sorella Silvia la trattoria “Il Santuario” a Rovello Porro, provincia di Como. Pranzo a prezzo fisso a dodici euro durante la settimana e pizzeria-birreria il venerdì e il sabato sera. Molte fabbriche svuotate dalla delocalizzazione. La concorrenza delle mense aziendali. «Tutta la settimana bastiamo noi», racconta Furini, «venerdì e sabato, se abbiamo prenotazioni o prevediamo movimento, chiamiamo i ragazzi. Sono tutti studenti. A volte qualcuno non può o è malato, allora si continua il giro di telefonate finché la necessità è coperta. Li paghiamo tutti con i voucher. Lo Stato ha la grande convenienza. Prende i soldi in anticipo all’acquisto dei buoni e si tiene il venticinque per cento. È un vantaggio anche per l’Inps, visto che per la crisi molte aziende non pagano più i contributi». Mai pensato di stabilizzare uno o due camerieri? «Vorremmo assumere un dipendente a contratto. Ma le spese sono insopportabili. Soltanto per tenere la contabilità della busta paga, la Camera di commercio ci chiede milleduecento euro all’anno per persona. Più di uno stipendio mensile. Noi non ci stiamo dentro».
Non per tutti la roulette gira così male. Simone Regio, 39 anni, è soddisfatto. Grazie ai voucher può arrotondare i milleseicento euro netti di due contratti part-time: educatore in un centro di riabilitazione psichiatrica e in un’associazione privata. Il terzo lavoro di voucherista è sui pedali: corriere porta a porta in bicicletta per la “Ubm - Urban bike messengers” di Milano, la più grande società del settore in Italia. Il suo collega, Simone Gambarin, dai buoni-lavoro è passato al contratto a tempo indeterminato sempre con “Ubm”. E a 36 anni può finalmente permettersi la sua prima casa in affitto. «Per noi i voucher sono stati una soluzione», spiega Gianni Fiammengo, proprietario di Ubm, «per tutte quelle persone che lavorano saltuariamente e che così sono pienamente coperte da contratto, assicurazione e Inps. Ora i voucher li utilizziamo poco perché gli sgravi fiscali ci hanno permesso di assumere quattordici corrieri full-time. I buoni li usiamo per i pochi part-time rimasti. Nel frattempo l’azienda si è ingrandita».
Marco Traversari è docente nel laboratorio di Antropologia e lavoro del corso di laurea magistrale in Antropologia dell’Università di Milano Bicocca. Insegna anche Antropologia culturale in un liceo di Brescia. È laureato in scienze politiche, antropologia e filosofia ed è autore di libri e manuali scolastici. I due contratti part-time da docente coprono solo il settanta per cento del suo fabbisogno per vivere. Per il rimanente trenta per cento, Traversari deve impegnarsi in consulenze culturali, corsi di formazione, partecipazione a conferenze. E in tutto questo è pagato in voucher. «Nel 2015 i buoni-lavoro hanno spazzato via tutto quello che esisteva: contratti, cococo, cocopro, finte partite Iva, ritenute d’acconto. Dove la pubblica amministrazione ha appaltato i servizi», spiega, «lì le cooperative ora pagano solo in voucher».
Ma il cambiamento va oltre l’eliminazione del contratto. I voucher sono la cifra della trasformazione culturale che stiamo vivendo. In gioco c’è il ruolo sociale di ciascuno: in sociologia, il ruolo è costituito dalle aspettative che gli altri hanno del tuo status sociale. Nel voucher il ruolo èindifferenziato. In questo il voucher è l’emblema del postfordismo: è l’espressione della smaterializzazione del lavoro come costruzione della propria identità stabile.
Freud però ci insegna che l’identità psicologica stabile deriva dall’equilibrio tra eros e lavoro. Nel momento in cui il lavoro diventa instabile, flessibile, smaterializzato anche l’identità psicologica diventa fluida, instabile». Dove porta tutto questo? «Al problema di non sapere chi sei.Allora diventa potente la necessità di un’identità nazionalistica o religiosa. E lo vediamo in quello che sta succedendo in Europa. Gli studenti comunque vogliono i voucher: chi fa lavori di pochi mesi, trova giusto essere pagato in voucher. La flessibilità è parola che loro mettono in pratica».
L’identità di Andrea P.,parcheggiatore notturno a Milano, è flessibile da quando ha perso il lavoro di carrozziere. E poi il contratto di autista. Lui ha cercato di nascondere il dramma alla moglie e ai due figli. Per portarli in vacanza, ha speso i duemila euro di risparmio dei ragazzi. Ma quando la moglie lo ha scoperto, l’ha cacciato di casa. Ora Andrea, a quasi cinquant’anni, è tornato a vivere con la mamma, vedova e pensionata. La madre, immigrata pugliese nella Milano del boom economico, non sa che il figlio è un voucherista: 400-500 euro al mese in buoni da marzo a settembre nella stagione dei concerti.
Sorveglia le auto del pubblico oppure controlla i biglietti ai tornelli quando a San Siro e nelle discoteche arrivano i grandi nomi della musica italiana e mondiale. Ma di tutto lo spettacolo, Andrea prende soltanto le briciole: «Da settembre a marzo faccio la fame», confessa, «non ho però il coraggio di dirlo a mia madre. Allora mi alzo la mattina alle 6,30, mi lavo e mi vesto. E fingo di andare a lavorare». Il nascondiglio, l’ultimo rifugio stabile sono i tre metri per uno e mezzo della cantina, un finto tappeto di nylon sul cemento, un piumone bianco per scaldarsi, lo scaffale vuoto alla parete, due maglie in cashmere della vita che fu appese a un angolo. Andrea ascolta la radio, dorme, pensa. Fino alle due del pomeriggio, quando esce dal sotterraneo e finge di tornare dal lavoro. La prima volta che l’hanno pagato in voucher, l’hanno perfino fregato. L’impresario di quel periodo gli ha dato buoni per 400 euro. Ma quando il parcheggiatore è andato a riscuoterli dal tabaccaio e poi all’Inps, gli hanno detto che erano stati disattivati. Andrea sorride amaro: «Ho scoperto così che anche il buono non era buono».

Fonte: L'Espresso 

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