di Alessandro Bartoloni e Pasquale Vecchiarelli
In una recente pubblicità, una banca si vanta di investire sulla tecnologia più evoluta che esista: l’uomo. Al netto delle regole machiste del marketing, che impongono di usare il genere maschile anche quando esiste una comoda alternativa (i.e. l’essere umano), con questa affermazione i padroni ci ricordano che, pur nel pieno della quarta rivoluzione industriale (o industria 4.0), non si può prescindere dallo sfruttamento del lavoro umano.
Malgrado lo sviluppo di sistemi ciber-fisici - nei quali la macchina (o robot), appositamente programmata, è in grado di coniugare l’interazione con l’ambiente esterno (per mezzo di sensori e articolazioni di tipo fisico) con l’alta capacità di calcolo e la possibilità di connessione sia con altri sistemi cybernetici che con banche dati e malgrado molti di questi sistemi siano dotati anche di moduli per il c.d. “autoapprendimento” (machine learning), grazie ai quali questi sistemi cyber-fisici tendono ad acquisire capacità (pseudo) cognitive - la forza-lavoro rimane qualitativamente inimitabile.
Malgrado lo sviluppo di sistemi ciber-fisici - nei quali la macchina (o robot), appositamente programmata, è in grado di coniugare l’interazione con l’ambiente esterno (per mezzo di sensori e articolazioni di tipo fisico) con l’alta capacità di calcolo e la possibilità di connessione sia con altri sistemi cybernetici che con banche dati e malgrado molti di questi sistemi siano dotati anche di moduli per il c.d. “autoapprendimento” (machine learning), grazie ai quali questi sistemi cyber-fisici tendono ad acquisire capacità (pseudo) cognitive - la forza-lavoro rimane qualitativamente inimitabile.
Questo salto in avanti delle macchine, che rimane impressionante, tuttavia non realizza prodotti, fabbriche e apparecchiature realmente intelligenti (smart o intelligent che dir si voglia nel gergo imperialistico dominante). Quella a cui assistiamo, infatti, rimane una crescita quantitativa delle applicazioni delle nuove tecnologie basate sul salto qualitativo effettuato con l’automazione del controllo e coniugate con la crescente disponibilità di immagazzinare e utilizzare dati e informazioni. Un super-computer molto famoso chiamato Watson, ad esempio, da qualche mese sta digerendo miliardi di cartelle cliniche e altri dati sugli effetti delle cure somministrate in diversi casi clinici, che gli consentirebbero (il condizionale è d’obbligo) di fare diagnosi e proporre una cura con margini di errore di gran lunga inferiori a quelli di un essere umano. Oggi, infatti, per alcune malattie Watson ha margini di errori nella diagnosi inferiori del 10%, mentre un medico bravo si attesta sul 30%. Non più o non solo robot che eseguono poche operazioni in sequenza, dunque, ma macchine in grado di interagire con il mondo esterno ed adattare la propria risposta agli stimoli che ricevono.
Molte mansioni, dunque, anche ad elevata complessità, sono destinate ad essere progressivamente appannaggio delle macchine. Tuttavia, non si tratta in alcun modo dell’automazione della volontà, ossia della capacità delle macchine di scegliere a prescindere dalle impostazioni, dagli stimoli e dai comandi ricevuti. Questa capacità, per ora, rimane prerogativa dell’essere umano (ed in certe primitive forme, di altre specie). Anche le più moderne biotecnologie, infatti, attraverso la modifica del patrimonio genetico consentono di programmare batteri, piante ed in prospettiva esseri superiori affinché realizzino un fine predeterminato e precostituito. Che poi questo fine non venga più realizzato in modo meccanico ma in modo probabilistico è perfettamente coerente con le leggi che governano il mondo inanimato e che prevedono “la casualità come categoria oggettiva propria di ogni reale manifestazione di eventi possibili” [F. Engels, Dialettica della Natura]. Per questo motivo, molti degli sviluppi futuri possibili dell’intelligenza c.d. artificiale, oltre a non essere particolarmente originali, hanno natura mitologica, apologetica e fantascientifica. Essi, in comune, mirano a sostenere la completa sostituibilità dell'uomo da parte del robot e, quindi la fine del lavoro (umano).
Al contrario, la realtà ci dimostra che l’essere umano rimane ancora l’unico elemento attivo nella produzione. Se al crescere della divisione e specializzazione del lavoro, un numero crescente di mansioni può essere svolto da macchine e robot, il processo produttivo nella sua totalità – in quanto attività posta in essere per la riproduzione della società umana – non può prescindere dalla volontà, e dunque dall’intervento che ne è espressione, degli uomini e dalle donne. L'ape che costruisce l'alveare - ci ricorda Marx - non persegue coscientemente un fine proprio [1]. Opera istintivamente e non progetta prima l'alveare che costruisce dopo. Così anche il robot persegue un fine che non ha scelto. Solo quando sarà in grado di eseguire liberamente un programma che ha scritto autonomamente, il robot potrà imitare l’individuo; e solo quando saranno in grado di riprodurre la composizione qualitativa del lavoro sociale complessivo, i robot potranno imitare l’umanità [2]. Il sistema produttivo, dopo tutto, non è un fatto meramente quantitativo e individuale, ma anche qualitativo e sociale. Solo con macchine in grado di riprodurne la complessità potrebbe venir meno il legame tra surplus e lavoro umano, determinando come prima immediata conseguenza la trasformazione del modo di produzione. Il lavoro umano, infatti, non avrebbe più bisogno di essere mercificato in quanto i mezzi di sussistenza necessari verrebbero prodotti indipendentemente da esso e quindi redistribuiti sulla base di criteri che nulla hanno a che fare con la legge del valore. A sparire, tuttavia, non sarebbe solo il capitalismo ma anche la legge del valore quale legge della natura umana e quindi ad essere rivoluzionata risulterebbe essere l’umanità in quanto specie.
Fino ad oggi, infatti, e nel futuro così come è verosimile prevederlo date le condizioni odierne, la costante nella natura umana non è data solo dagli attributi biologici che le sono propri ma anche dal fatto che la nostra specie ha sempre dovuto modificare l’ambiente circostante lavorando in base a degli scopi e con l’ausilio di utensili, per riprodurre la propria esistenza. Da quando esiste, l’essere umano non crea i valori d’uso ma li compone e trasforma in modi diversi a seconda delle epoche e delle circostanze. Questi modi – i modi di produzione – sono tutti collegati da questo filo rosso che consiste nell’essere il lavoro umano l’unica fonte attiva di valore, a differenza delle macchine che usurandosi nell’impiego trasferiscono il proprio valore nel prodotto e nulla più. Nel modo particolare con cui gli esseri umani si riproducono oggigiorno, vale a dire nel capitalismo, la stragrande maggioranza degli esseri umani vanno liberamente alla ricerca di un padrone che li impieghi in cambio di un salario che in media è sufficiente a sopravvivere ma che contiene meno del lavoro effettivamente erogato (alias oggettivato). Per questo degli esseri umani si può parlare propriamente di sfruttamento e non per le macchine, che sono capaci di ridare solo quanto lavoro hanno ricevuto nel momento della loro costruzione e per la loro manutenzione. L’essere umano, invece, crea un surplus sotto forma di oggetti, servizi, ecc. Il problema, tanto per cambiare, è quale classe se ne appropria e per farne cosa.
Per tanto, quella in corso non è la fine del lavoro e neanche una vera e propria rivoluzione industriale. La ristrutturazione capitalistica in atto, tuttavia, se concettualmente non comporta nessuna novità di rilievo, non significa che sia priva di conseguenze. Nei prossimi articoli cominceremo ad analizzarne qualcuna.
[1] In questo senso risulta davvero pregnante la metafora di Marx nel capitolo V, sezione III, libro I de Il Capitale, dell’ape e dell’architetto in merito al processo lavorativo: “Il nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all'uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell'idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell'elemento naturale; egli realizza nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà"
[2] E non c'è nessuna certezza che non scriverebbero il programma che preveda la distruzione della nostra specie. Questo allarme venne lanciato per prima da N. Wiener, il padre della cibernetica.
Fonte: lacittafutura.it
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