La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 18 aprile 2017

La guerra d’accerchiamento alla Cina

di Pasquale Cicalese e Filippo Violi
L’attacco americano alla base aerea di Shayrat, nel centro della Siria, rappresenta una svolta storica nelle relazioni internazionali tra massime potenze mondiali. Soprattutto alla vigilia di un vertice importante come quello avvenuto in Florida che avrebbe dovuto sancire accordi commerciali in funzione non belligerante tra la nuova amministrazione Usa guidata da Donald Trump, fautore di una linea protezionistica di difesa nazionale, e il Presidente della Repubblica popolare cinese, nonché capo della commissione militare centrale del partito comunista, Xi Jinping, fautore della linea “OBOR” aperta alle dinamiche internazionali. L’atto di forza che ha permesso a Trump di entrare a gamba tesa negli scenari di guerra mediorientali è servito a lanciare un monito ai nemici interni e ai rivali esterni, sia sul piano economico commerciale che nella contesa politico-militare.
Qualcuno potrebbe spingersi più in là dicendo che Trump è ormai divenuto ostaggio degli apparati burocratici, intelligence e Pentagono in testa, che condizionano fortemente la Casa Bianca. La cacciata di Steve Bannon dal Consiglio Nazionale per la Sicurezza, uomo di punta di Trump e fidato stratega, proprio alla vigilia dell’attacco in Siria, sembrerebbe far pensare che l’establishment neocon repubblicano stia vincendo la battaglia interna. E qualcosa lo farebbe credere soprattutto perché, in questi ambienti, da anni si vede la Cina come il vero competitore strategico che gli Usa devono affrontare, se non vogliono perdere il primato mondiale.
La dimostrazione di forza militare dell’amministrazione americana denota in realtà una grave debolezza economica, ossia il vortice di stagnazione secolare in cui è finita l’America, portandosi dietro tutto l’Occidente, che è di una gravità estrema tale da non poter rendere facile il compito di Trump, sbandierato per tutta la campagna elettorale, di diventare il presidente dell’America first, in netta controtendenza con gli otto anni dell’amministrazione precedente. L’idea era proprio quella di accantonare il keynesismo militare come fattore di distruzione del capitale in eccesso, e di ricreare una base produttiva nazionale in modo da poter dar fiato al popolo americano. Insomma, meno esportazioni di democrazia, meno << boots on the ground>>, meno trattative ai tavoli della diplomazia, più controllo, più dazi doganali, più sicurezza dentro il perimetro statunitense. Solo che questa chiusura a riccio ha avuto subito a che fare con una guerra di cui non si parla mai, strategicamente sottaciuta, proprio quella economica di cui Trump si è trovato a dover fare i conti nei suoi primi cento giorni di mandato. Basterebbe spulciare e interpretare i dati negli Stati Uniti, usciti proprio venerdì 7 aprile, giorno dell’attacco in Siria, per capire la drammaticità dell’economia statunitense, con la crescita nel primo trimestre che si assesta allo 0,6% rispetto alla previsione del 3,4 (Fed Atlanta), dove il settore tradizionale del commercio ha segnato -58.000 posti lavoro nel bimestre gennaio/febbraio (Blue Chip Indicators), dove l’indice ISM manifatturiero risulta in forte calo, oltre alle vendite in sofferenza nel comparto di case e auto, con un pompaggio da sub-prime pronto ad esplodere, e al sempre più crescente debito degli studenti che limita la capacità di spesa delle famiglie, per non pensare che c’erano tutte le premesse per sedersi al tavolo del vertice con il gigante asiatico e fare la voce grossa, senza elemosinare concessioni commerciali e magari doversi pure invischiare, sul piano militare, nell'operazione militare contro la Corea del Nord.
Ovviamente dopo l’attacco americano sul suolo siriano, il vertice in Florida è passato in secondo piano, fino quasi ad affievolirsi completamente senza lasciare alcuna traccia o quasi. Qualche cosa a dire il vero è trapelata dalla stampa, forse più interessata a catturare notizie di dichiarazioni e prese di posizioni dal Cremlino, che sembra aver giocato invece un ruolo intelligente e passivo, senza lasciarsi trascinare nel terreno di una guerra psicologica. Sicuramente c’è da dire che è mancata una dichiarazione congiunta tra i due leader mondiali che un vertice di tale portata avrebbe dovuto assicurare.
E comunque, una cosa è certa, se Russia e Cina sono state davvero informate dell'attacco, il bombardamento Usa alla base di Shayrat non rappresenta in sé un'escalation nella crisi siriana ma è solo stato fatto a scopo puramente dimostrativo per poter rientrare nella partita mediorientale e togliere la Russia da quel scenario, come stabilito da Kissinger. Due settimane fa Nikki Haley, ambasciatrice Usa presso le Nazioni Unite, aveva affermato che “per gli Usa la rimozione di Assad non era più la priorità”. A fare da eco alle sue parole ci aveva pensato anche Rex Tillerson, segretario di Stato Usa che, durante una visita ad Ankara il 30 marzo scorso, aveva detto che “il destino di Assad sarebbe stato scelto dai siriani”. Dichiarazioni in linea con la posizione del Cremlino che ha sempre ribadito il suo appoggio al governo di Damasco. E in linea con i Paesi del G7 che bocciano la proposta britannica di nuove sanzioni e sollecitano la Russia a lavorare per promuovere un <>.
L’offensiva senza precedenti lanciata da Donald Trump, con la firma dei due decreti esecutivi, dando seguito alle dichiarazioni “siamo in guerra” del ministro del commercio Wiburg Ross, rappresenta una guerra commerciale senza esclusioni di colpi che l’America fin da subito ha dichiarato di voler combattere minacciando “superdazi” verso i paesi con avanzo commerciale, quali Germania, Giappone e Cina su tutte. Se per i primi due fare la voce grossa sarebbe potuto bastare, cosa ben diversa bisognava ottenere nel confronti del gigante asiatico. E qualcosa Trump sembrerebbe aver ottenuto: maggiore apertura al mercato per l’importazione di prodotti agricoli e beni high tech, abbattimento di dazi doganali su auto e, soprattutto, possibilità alle aziende Usa di detenere pacchetti di maggioranza in aziende assicurative e finanziarie. Minime concessioni che la Cina sarebbe stata disposta comunque a concedere, a prescindere dal pugno in faccia che volutamente l’amministrazione statunitense ha voluto imprimere al rivale asiatico prima del vertice di Florida, con il lancio dei 59 missili Tomahawk finiti sulla base siriana di Sharyat che, non trovando alcun minimo ostacolo nel sistema automatico di difesa antiaerea S-400, forse qualcuno opportunamente ha pensato di disattivare per non rispondere alla provocazione.
La Cina, forte dell’accordo del gas firmato a Shanghai con la Russia (affare da 400 miliardi, pagati in yuan e rubli e che escludono il dollaro), che entrerà in vigore tra due anni con il completamento dei due gasdotti (Power of Siberia e Altai), nel frattempo, concedendo qualcosa, cercherà di prendere tempo, concentrandosi soprattutto nella politica di rafforzamento della linea interna, attraverso le riforme radicali ( previdenza, assistenza e sanità aperta a tutti) che rappresentano un beneficio per la domanda interna, rivelatesi, da almeno un quinquennio, d’interesse superiore rispetto alle politiche di export-oriented. Sarebbe il caso di dire che l’America di Trump per ritornare a essere “first” e costruire quella base produttiva ad alta specializzazione industriale, distrutta con la feroce delocalizzazione avvenuta negli ultimi 40 anni, ha bisogno, senza poterlo però dire al mondo e quindi col ricatto, del sostegno cinese.
L’obiettivo strategico finale non dichiarato di entrambi è quello di vedere chi per prima imploda rispetto all’altro. L’amministrazione Statunitense continuerà il suo accerchiamento militare sicura che prima o poi assisterà al collasso del sistema bancario e, quindi, all’accaparramento del risparmio cinese. Pechino dal canto suo dorme su un detonatore di 1,5 trilioni di dollari di buoni del tesoro americano pronti ad essere convertiti in altra valuta e far esplodere il mercato americano. Nel frattempo cercherà di non farsi trascinare nel pantano coreano, rispondendo a minacce e provocazioni militari come l’avanzata delle navi da guerra americane verso Pyongyang o come il lancio in Afghanistan del MOAB (Mother of all bombs), l’ordigno non nucleare più potente dell’arsenale americano.
Se la minaccia militare nasconde un ricatto economico, la partita vera si gioca in questo campo e l’aggressività americana nasconde proprie debolezze. L’ 11 aprile, su Il sole 24 ore, l’ex ministro del Tesoro americano Lauwrence Summers riferiva che la Cina sta costruendo filiere transnazionali in ogni parte del mondo e che è il maggiore investitore in America Latina e Africa, a cui si deve sommare il programma di collegamento euroasiatico della Via della Seta. Sul piano degli investimenti e della creazione di colossi con grandi economie di scale, Summers è dell’idea che gli Usa stiano perdendo la sfida (Gli Usa stanno già perdendo la sfida cinese e il commercio non c’entra). America First è irrealizzabile perché in Usa manca forza lavoro qualificata, e ciò è causato dalla distruzione quarantennale del sistema scolastico. Al contrario di quel che succede in Cina, dove l’istruzione è oggetto di massicce spese.
Ciò che non si perdona a Xi è la sua presa di posizione nel 2013: quando si insediò disse chiaramente che i colossi bancari e manifatturieri pubblici non dovevano essere privatizzati, al massimo si attuava una politica di quotazione azionaria di blocchi di minoranza, previa fusione tra le aziende pubbliche, in controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto. Gli Usa, e con loro la City, vogliono mettere mani al risparmio cinese, 5 mila miliardi di dollari all’anno, che sommati agli ultimi dieci anni fanno una cifra sconvolgente. E’ probabile che parte di questo risparmio venga dato agli Usa e forse alla City, ma il grosso rimarrà all’interno per promuovere la domanda interna e per l’internazionalizzazione della moneta cinese. La guerra commerciale e la guerra guerreggiata convinceranno sempre più la dirigenza cinese a dipendere sempre meno dall’export e su questo il percorso sembra ben avviato, se solo si considera che dal 2007 al 2015 la quota di export sul pil è passata dal 35 al 19%, con un ulteriore diminuzione negli ultimi tempi, visto che l’export cade o cresce poco, mentre negli ultimi due mesi l’import è aumentato del 35%, divenendo la Cina la spugna mondiale. L’escalation militare è un’arma per accaparrarsi delle ricchezze costruite in 50 anni dal partito comunista cinese. Concederanno, guadagneranno tempo, ma alla lunga gliela faranno pagare.
Portare la guerra nel loro cortile non pare proprio una geniale idea.

Fonte: marx21.it 

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