di Gian Maria Volpicelli
A molti inglesi sembra quasi un’immagine proveniente da una dimensione parallela, la foto che mostra Jeremy Corbyn e la sua pattuglia di deputati di sinistra seduti negli scranni del governo-ombra laburista. Eppure è proprio così: Corbyn il socialista, Corbyn il pacifista, Corbyn l’ambientalista ha trionfato col 59,5 per cento dei voti, vincendo le primarie Labour con la più ampia percentuale nella storia del partito. Dopo 32 anni passati ai margini, il deputato di Islington North, 66 anni, è capo dell’opposizione ai conservatori del premier David Cameron. Un altro vecchio leone socialista, John McDonnell, è stato nominato da Corbyn ministro-ombra dell’Economia; una deputata vegana, Kerry McCarthy, è ministro-ombra dell’agricoltura. Non è tutta così, la prima fila dell’opposizione: alcuni posti sono andati anche a parlamentari centristi e liberali, in nome dell’unità del partito. Ma basta guardare quella foto (dove Corbyn, amante del beige e del marron, sfoggia un completo blu scuro, regalo dei figli) per capire che la politica britannica è reduce da uno tsunami.
Conosco Jeremy Corbyn da tempo: per puro caso, mi trovo a vivere in una stanza di casa sua, in affitto. Quando ci sediamo per chiacchierare al Girasole, una caffetteria italiana a un passo da casa, ecco lo stesso uomo di sempre, uguale a quello della vita domestica: una tutona grigia con cui è appena tornato da una biciclettata a Finsbury Park, la barba che i suoi fan hanno elevato a bandiera, gli occhiali sul naso.
«Oggi sono esattamente sette giorni, centosessantotto ore», dice, sorseggiando un tè nero senza latte. «È stata la settimana più stancante e assurda di tutta la mia vita».
«Oggi sono esattamente sette giorni, centosessantotto ore», dice, sorseggiando un tè nero senza latte. «È stata la settimana più stancante e assurda di tutta la mia vita».
Subito dopo la proclamazione e il discorso pronunciato a braccio, il primo atto politico del neoleader è stato andare a un sit-in per i rifugiati, simile alle tante manifestazioni con cui Corbyn ha riempito i suoi weekend da un trentennio a questa parte. Il secondo, all’indomani della vittoria, è stato partecipare a un evento di raccolta fondi per un istituto d’igiene mentale a Islington, snobbando un’intervista con Andrew Marr, giornalista politico di punta della Bbc. Due giorni dopo, nel corso del question time con il primo ministro, Corbyn ha posto a Cameron tre domande scelte fra oltre 40 mila arrivategli da comuni cittadini via email.
«È un modo diverso di fare politica», dice Corbyn. «Non so se nelle prossime settimane sceglierò tutte le domande così: forse solo una o due, ma continuerò a chiedere ai cittadini di mandarmele». La trovata, che nel Regno Unito è sembrata quasi rivoluzionaria, provoca suggestioni pentastellate. Ma più che con Grillo, le affinità elettive di Corbyn sono con i greci di Syriza e col movimentoPodemos, in Spagna: il cui leader Pablo Iglesias ha scritto un editoriale sul “Guardian” per complimentarsi con Corbyn. Il premier ellenico Alexis Tsipras e il suo ex ministro dell’economia, Yanis Varoufakis, invece, gli hanno entrambi mandato un messaggio. «Nulla di che: solo congratulazioni», spiega lui.
Syriza, Podemos e anche il Movimento 5 Stelle, secondo Corbyn, descrivono un unico grande continuum, che adesso ha fatto capolino quassù nelle isole. «Sento che c’è una rinascita della sinistra inclusiva, della sinistra anti-austerità, in tutta Europa. E la nostra vittoria è parte di questa rinascita», dice. «Siamo una parrocchia piuttosto grande».
Sull’Europa la posizione di Corbyn è rimasta fino a poco fa stranamente ambigua, per un politico famoso per la sua chiarezza. Mentre il Paese si prepara al referendum sulla permanenza nell’Ue, Corbyn aveva lasciato intendere che avrebbe appoggiato l’uscita, nel caso in cui Cameron avesse rinegoziato i trattati europei in senso più liberista e riducendo i diritti dei lavoratori. Ciò aveva provocato ansie, rabbia e dimissioni nei ranghi laburisti, europeisti senza compromessi.
Poi invece il pensiero di Corbyn è cambiato e ora anche lui si dice pronto a difendere la permanenza in qualunque circostanza. «Se i Conservatori aboliranno i diritti dei lavoratori stabiliti dalle norme europee, nel 2020, quando andremo al governo, li ristabiliremo», spiega. «Ne ho parlato con John McDonnell e alla fine abbiamo concordato su questo. È la cosa giusta da fare, anche perché i fautori dell’uscita dall’Ue sono tipi come Nigel Farage o xenofobi vari. Anche se ovviamente ci sono anche brave persone a cui non piace l’Unione Europea». Il cambiamento potrebbe dare a Corbyn un po’ di tregua con quei parlamentari laburisti che non lo amano, giudicandolo troppo a sinistra e di conseguenza ineleggibile.
Ma a stressare il leader dell’opposizione, ora come ora, non sono i ribelli interni al partito (variamente soprannominati “Resistance” e “Maquis”). Più probabilmente, Corbyn ricorderà questi primi sette giorni come una sfiancante battaglia con i media: cameraman e paparazzi dei tabloid hanno iniziato a fare la posta sulla porta di casa a lui - e alla sua terza moglie Laura Alvarez - già molti giorni prima della vittoria, quando la Corbynmania e i sondaggi lasciavano intravedere il risultato. Una foto particolarmente buffa di Corbyn che esce da casa con indosso pantaloni corti e una maglia a righe tipo Charlie Brown è finita sulle prime pagine di quasi tutti i quotidiani inglesi. Jeremy Corbyn detesta ogni invasione della sua privacy - pensa che la politica debba riguardare idee, non persone, e non sopporta che gli si estorcano interviste quando cammina per strada - e ha duramente criticato l’invasività dei media; ma non poteva davvero sperare che le cose andassero diversamente. «Casa mia è sotto assedio, e mi dispiace per la mia famiglia», dice il leader laburista.
Intanto i giornali hanno iniziato a prenderlo di mira con regolarità anche per questioni più politiche. La prima questione di una certa rilevanza è stata la nomina del governo-ombra, criticato come maschilista perché (sebbene contenga più donne che uomini) nessuna delle tre posizioni considerate di punta (Interni, Esteri ed Economia) è stata affidata a una persona di sesso femminile.
Poi la stampa (i conservatori “Daily Mail” e “Daily Telegraph”in testa) è insorta quando Corbyn non ha cantato l’inno nazionale durante una commemorazione della Seconda Guerra Mondiale. Il silenzio è stato considerato poco patriottico e qualcuno ha ipotizzato che Corbyn avesse rifiutato di cantare in quanto ateo e anti-monarchico (l’inno recita “Dio Salvi la Regina”). Corbyn prima ha spiegato che il suo era un «rispettoso silenzio» per le vittime del conflitto poi ha promesso che lo avrebbe cantato in futuro. «Abbiamo un inno nazionale che non è realmente un inno nazionale, ma un qualcosa che parla della famiglia reale», mi dice. «Comunque l’inno è questo, e dovrò cantarlo». Però non ha ancora deciso se accetterà di entrare nel Consiglio Privato della Regina: la cerimonia d’ingresso prevede un baciamano alla monarca, dopo aver giurato sulla Bibbia.
Poi ci sono attacchi più di principio come quelli del progressista “Guardian” o articoli come quello del tabloid “Daily Express” (vicino ai reazionari dell’Ukip), che se l’è presa con Corbyn perché un suo quadrisavolo fu poco accorto nel gestire una fabbrica, in era Vittoriana. Per Corbyn non c’è molta differenza fra le due testate, entrambe espressioni di un establishment politico-editoriale che gliel’ha giurata: «Siamo sempre a un livello d’insulto», dice. «Neanche provano a parlare delle mie posizioni politiche. Sono vecchi, fuori dal mondo. E mi sembra che tutti i giornali siano solo una variante della stessa cosa. Anche il “Guardian”, sì».
La strategia di risposta di Corbyn è sempre quella, collaudata in campagna elettorale, di affidarsi il più possibile ai social media per bypassare stampa e tv per parlare direttamente agli elettori. Accanto a questo, tanto attivismo e incontri di persona: «D’ora in poi, tre giorni a settimana, comincerò ad andare in giro per il Paese, a parlare con la gente», dice. «So che è difficile conciliare questo con la politica parlamentare. Ma dobbiamo farlo, perché credo che le opinioni politiche si possano cambiare».
Per il resto, Corbyn cercherà di restare Corbyn. Non metterà da parte la sua amata bici, anche se si lamenta che i paparazzi a volte gli finiscono fra le ruote. Né rinuncerà all’orto, dove coltiva frutta e verdura insieme ad altri amici dal pollice verde: il giorno dopo la vittoria, “quelli dell’orto” gli hanno recapitato a casa una zucchina lunga e spessa quanto un paracarro, la parola “Congratulations” incisa sulla scorza. «È la miglior zucchina che siamo riusciti a far crescere da anni a questa parte», dice Corbyn. «Era chiaramente un segno propizio». Chissà se gli porterà bene anche domenica prossima, quando parlerà da leader al congresso del partito a Brighton. I temi che toccherà sono quelli che l’hanno catapultato al trionfo delle primarie: uguaglianza economica e di opportunità, ambiente, lotta alla povertà.
I bookmaker prevedono che durerà al massimo un anno e mezzo al timone del Labour, ma sono gli stessi che davano le sue chance di vittoria 200 a 1, e dopo la sua incoronazione hanno dovuto pagare agli scommettitori un milione di sterline. Così Jeremy “Jez we Can” Corbyn già pensa a Downing Street. «Certamente, nel 2020 correrò come candidato premier», dice sorridendo. «Ma potrei farlo anche prima, se il governo di Cameron cade. Ed è una possibilità che esiste».
Fonte: L'Espresso
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