La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 27 settembre 2015

Storia di Pietro. La questione del manifesto, comitato centrale del Pci 1969

di Pietro Ingrao
Con­cordo con le linee fon­da­men­tali della rela­zione pre­sen­tata dal com­pa­gno Natta e con le pro­po­ste che egli ci ha por­tato a nome della V Commissione.
Con­cordo sulla neces­sità di chie­dere alle nostre orga­niz­za­zioni un dibat­tito appro­fon­dito e una lotta poli­tica con­tro le posi­zioni sba­gliate ed i metodi seguiti dai com­pa­gni del Mani­fe­sto; dibat­tito e lotta poli­tica che fac­ciano com­piere un passo in avanti alla unità del par­tito attorno alla linea del XII Congresso.
Ritengo, infatti, che non siano ancora suf­fi­cien­te­mente chiare a tutti le ragioni e i con­te­nuti poli­tici del dis­senso e anche della rot­tura che si sta aprendo nel corpo del par­tito e che ci pre­oc­cupa e ci turba.
A mio giu­di­zio, la diver­genza con i com­pa­gni del Mani­fe­sto non verte tanto sulla valu­ta­zione delle novità pro­fonde della situa­zione che si pre­senta oggi al nostro par­tito, quanto sui modi e sui con­te­nuti con cui dob­biamo affron­tarla.
Voglio par­tire dalla que­stione che ieri la com­pa­gna Ros­sanda poneva come il punto cen­trale per ciò che riguarda le pro­spet­tive della lotta nel nostro paese: il ruolo dei nuovi organi di potere che stanno sor­gendo o deb­bono sor­gere nel pro­cesso produttivo.
È sulla impor­tanza e sulla atten­zione che occorre dare a que­sti organi il dis­senso vero tra di noi? Non mi pare.
I con­si­gli di fab­brica, «soviet» o stru­menti sindacali?
Que­sto tema è den­tro il nostro dibat­tito. Lo abbiamo visto l’altro ieri sera — fac­cio solo un esem­pio — quando con grande forza ed effi­ca­cia il com­pa­gno Pugno ha inve­stito il Comi­tato cen­trale di que­sto pro­blema.
E, del resto, tutto il dibat­tito, o grande parte del dibat­tito, che poi avemmo al con­gresso di Bolo­gna, fu for­te­mente con­cen­trato su que­sto punto. Tale tema non solo è nel dibat­tito nostro: è nell’azione del par­tito. Esso è una com­po­nente dell’azione nostra, non sol­tanto per­ché i comu­ni­sti par­te­ci­pano da pro­ta­go­ni­sti, come risulta da un esame delle lotte, alla costru­zione pra­tica di que­sti nuovi stru­menti di potere, ma per­ché que­sto sgor­gare di forme nuove di par­te­ci­pa­zione ope­raia è stret­ta­mente legato ad alcuni orien­ta­menti di fondo della nostra poli­tica; ad una deter­mi­nata con­ce­zione e prassi del sin­da­cato per cui noi ci siamo bat­tuti; allo sta­bi­lirsi di un rap­porto tra sin­da­cato e masse al quale, sia pure con difetti e seri ritardi, abbiamo dato un impor­tante con­tri­buto, a tutto il nostro discorso sui con­te­nuti e sulle forme di una demo­cra­zia ope­raia. Mi rife­ri­sco a quella nostra posi­zione sulla demo­cra­zia ope­raia che è stata una delle ragioni sostan­ziali e qua­li­fi­canti del nostro dis­senso sull’intervento mili­tare in Ceco­slo­vac­chia e dell’azione che abbiamo con­dotto su que­sto grande e deli­cato tema nella vita del movi­mento comu­ni­sta internazionale.
Voglio, insomma, sot­to­li­neare un ele­mento. Senza dub­bio la cre­scita di que­sti orga­ni­smi nel vivo della pro­du­zione apre pro­blemi nuovi che non abbiamo ancora affron­tato in modo ade­guato alla loro impor­tanza e deli­ca­tezza, come sot­to­li­neava nel suo inter­vento il com­pa­gno Pugno. E tut­ta­via tale pro­ble­ma­tica nuova, con cui siamo chia­mati a misu­rarci in modo urgente, si pre­senta a noi in seguito ad uno svi­luppo del movi­mento di lotta di cui è stato parte, ele­mento deci­sivo, il nostro par­tito. Quando ricordo ciò, non lo fac­cio per tran­quil­liz­zare noi stessi, o per indul­gere a trion­fa­li­smi. Anzi lo fac­cio per­ché sia pos­si­bile indi­vi­duare i punti reali del dibat­tito e — più ancora — quale è la vera, dif­fi­cile ricerca che noi dob­biamo com­piere attorno a que­sta tematica.
Ecco allora la domanda: che cosa sono, oggi, que­sti orga­ni­smi nuovi che stanno sor­gendo a livello della pro­du­zione? Che cosa ten­diamo a fare che siano?
Qui biso­gna uscire da un’ambiguità, che invece non è stata sciolta dai com­pa­gni del Mani­fe­sto, i quali pure si richia­mano con­ti­nua­mente ad un rigore di ana­lisi. Deb­bono essere — come a me sem­bra, come mi sem­bra pro­ponga il par­tito — nuovi organi di lotta con­tro lo sfrut­ta­mento e con­tro l’organizzazione capi­ta­li­stica del lavoro nella fab­brica. Oppure deb­bono ope­rare e svi­lup­parsi come «soviet», cioè come organi di classe che diven­gono o ten­dono a dive­nire, essi stessi, la strut­tura del nuovo potere statale?
Da una linea orien­tata verso que­sta seconda pro­spet­tiva, deri­vano tutta una serie di impli­ca­zioni e di con­se­guenze circa il sistema di alleanze della classe ope­raia ed il modo con cui que­sto sistema si forma e si svi­luppa. Ad esem­pio, subito sorge il pro­blema del rap­porto tra que­ste strut­ture sta­tali «sovie­ti­che» e le grandi masse con­ta­dine, viste non in astratto, e socio­lo­gi­ca­mente, ma cosi come sono venute aggre­gan­dosi ed orga­niz­zan­dosi nella sto­ria del nostro paese e nel con­creto svi­luppo della lotta di classe che si è avuto da noi.
Sorge, insomma, il pro­blema delle forme sta­tali (e cioè di orga­niz­za­zione del potere) attorno a cui rite­niamo pos­si­bile rea­liz­zare — nelle con­di­zioni di capi­ta­li­smo maturo e nel con­te­sto spe­ci­fico della nostra società nazio­nale — un blocco operai-contadini, che sia fon­dato su un’egemonia della classe ope­raia, cioè su un rap­porto di alleanza basato sul con­senso. Si pre­senta il pro­blema degli isti­tuti e delle forme poli­ti­che, mediante i quali spo­stare e spin­gere ad un incon­tro con la classe ope­raia deter­mi­nate forze di ceto medio pro­dut­tivo, che noi abbiamo affer­mato essere una com­po­nente impor­tante di un blocco sto­rico il quale sia capace, nelle nostre con­di­zioni, di fron­teg­giare e scon­fig­gere le «rea­zioni» del grande capitale.
È evi­dente che si pre­senta, qui, la que­stione del nostro atteg­gia­mento verso un suf­fra­gio uni­ver­sale, fon­dato su una plu­ra­lità di par­titi, in un paese for­te­mente «ideo­lo­giz­zato» com’è l’Italia: dove esi­stono, cioè, tenaci tra­di­zioni di più par­titi ope­rai legati al movi­mento di classe; dove il com­plesso di forze che usiamo chia­mare «movi­mento cat­to­lico» si è for­mato avendo come retro­terra, per circa un secolo, strut­ture mil­le­na­rie come la Chiesa; dove sem­pre così stretto è stato il rap­porto tra poli­tica e cul­tura. In un paese — aggiungo — in cui la stessa costru­zione di orga­ni­smi uni­tari sin­da­cali, che ci pre­mono cosi pro­fon­da­mente, è stata ed è legata al modo con cui affron­tiamo le que­stioni dello «Stato» cui accen­navo prima (e, difatti, i passi in avanti, com­piuti in Ita­lia nella costru­zione dell’unità sin­da­cale, sono stati legati anche al modo con cui la sini­stra ope­raia, in Ita­lia, ha impo­stato tutta la sua stra­te­gia per ciò che riguarda la que­stione del suf­fra­gio uni­ver­sale, del sistema dei par­titi, del modo con cui con­ce­pire un rin­no­va­mento della sovra­strut­tura statale).
Per que­sti motivi, assu­mere gli orga­ni­smi di potere, che stanno sor­gendo nella fab­brica, come base e germe di soviet, cam­bia il carat­tere delle nostre alleanze, richiede che si costrui­scano in tutt’altro modo i rap­porti della classe ope­raia con i con­ta­dini e con gruppi sociali inter­medi; e spo­sta pro­fon­da­mente le forme di avan­zata al socia­li­smo cosi come le siamo venute defi­nendo. Una tale scelta, soprat­tutto, rende pro­ble­ma­tica e dif­fi­cile, secondo me, la pro­spet­tiva, che è fon­da­men­tale nella nostra stra­te­gia, di riu­scire a mutare, in senso socia­li­sta, le strut­ture di fondo della società ita­liana, senza andare ad una linea «classe con­tro classe», senza essere costretti a cadute ver­ti­cali del sistema pro­dut­tivo, che por­te­reb­bero a forme coer­ci­tive pres­so­ché obbli­gate e fatali.
La que­stione è, cioè, sostan­ziale per­ché riguarda il carat­tere, le forme, l’ampiezza del sistema di alleanze della classe ope­raia ed il modo stesso — aggiungo — con cui costruire una unità della classe ope­raia, che resi­sta alla dif­fi­cile guerra di posi­zione neces­sa­ria in un paese di capi­ta­li­smo maturo. Ciò signi­fica che il nostro discorso su deter­mi­nate forme di demo­cra­zia poli­tica non è dovuto a «pru­denza» lega­li­ta­ria oppure a un demo­cra­ti­ci­smo sepa­rato dalla nostra stra­te­gia al socia­li­smo: è legato, invece, alla nostra stra­te­gia di avan­zata al socia­li­smo, al blocco di forze sociali che ci è neces­sa­rio per vin­cere in Occi­dente, a un’egemonia della classe ope­raia che sia fon­data sul con­senso. E d’altra parte, pro­prio se vogliamo affron­tare sul serio il discorso sugli orga­ni­smi ope­rai a livello del pro­cesso pro­dut­tivo, non pos­siamo elu­dere la que­stione del loro rap­porto col momento «gene­rale», nazio­nale e statale.
Se sono esatte que­ste valu­ta­zioni il vero com­pito non sta nel ripro­porre, astrat­ta­mente e mec­ca­ni­ca­mente, una tema­tica con­si­liare, ma nel costruire un tipo di potere nuovo, in cui la forza dei movi­menti di base, anche a livello della pro­du­zione, si intrecci alla for­ma­zione di un sin­da­cato uni­ta­rio di classe, pro­mo­tore e susci­ta­tore di una demo­cra­zia ope­raia nella fab­brica; si intrecci ad una rete di asso­cia­zioni nelle cam­pa­gne che supe­rino la disper­sione con­ta­dina e garan­ti­scano un più forte ed ori­gi­nale peso a que­sta grande forza sociale; si intrecci alla con­qui­sta di uno spa­zio demo­cra­tico della scuola, a un rap­porto nuovo tra cul­tura e masse sfrut­tate; e tutto ciò si col­le­ghi alla con­qui­sta di posi­zioni mag­gio­ri­ta­rie della classe ope­raia e dei suoi alleati negli orga­ni­smi poli­tici gene­rali, basati sul suf­fra­gio universale.
Que­sto tipo nuovo di potere delle masse sfrut­tate, non l’intendiamo come una assurda «som­ma­to­ria» di orga­ni­smi, l’uno affian­cato all’altro. Noi pen­siamo ad una inte­ra­zione tra i diversi momenti di potere. Ad esem­pio: noi pen­siamo che il sor­gere di forme di demo­cra­zia ope­raia nella fab­brica non can­celli il ruolo del sin­da­cato, ed anzi sia oggi la base per una «presa» nuova del sin­da­cato e — ancora più — per aprire pro­cessi, nuovi anche nella sovra­strut­tura poli­tica. Voglio dire che la con­qui­sta di poteri di inter­vento, a deter­mi­nati livelli del pro­cesso pro­dut­tivo e della vita sociale, spezza un sistema di rap­porti tra masse e par­titi bor­ghesi inter­clas­si­sti e quindi obbliga deter­mi­nate forze a tra­sfor­marsi, crea basi nuove, in que­sto modo, per­ché, nelle assem­blee elet­tive, i par­titi a base popo­lare fun­zio­nino come «corpi poli­tici» espo­sti alle spinte del paese e non come «mac­chine» obbe­dienti a gruppi di potere. E, d’altra parte, cer­chiamo di costruire — ed è un com­pito non sem­plice, lo stiamo spe­ri­men­tando, anche a livello del par­la­mento — un’azione nelle assem­blee elet­tive che non sia con­ce­pita come punto con­clu­sivo delle lotte ma, con le sue deci­sioni, attivi e favo­ri­sca la cre­scita di poteri dal basso e, più in gene­rale, l’organizzazione delle masse nella bat­ta­glia per la loro emancipazione.
Que­sta è la ricerca ori­gi­nale con cui noi ci dob­biamo misu­rare, se non vogliamo limi­tarci a rece­pire pas­si­va­mente gli sti­moli e la pro­ble­ma­tica che ci ven­gono dalla cre­scita dei movi­menti di base, ma vogliamo col­lo­care la matu­ra­zione di que­sti stru­menti di potere dal basso in una visione stra­te­gica, in un tipo di avan­zata al socialismo.
A me sem­bra che l’impostazione data dai com­pa­gni del Mani­fe­sto resti al di qua di que­sta che è la vera novità su cui occorre impe­gnarsi. Anzi, temo che la loro impo­sta­zione possa ribut­tare il par­tito verso false con­trap­po­si­zioni, che fini­scono per non affron­tare i nodi, le dif­fi­coltà, le discri­mi­nanti reali di una poli­tica nuova. Dico anche che al fondo del dibat­tito con i com­pa­gni del Mani­fe­sto c’è anche una que­stione, per cosi dire, teo­rica e che riguarda il nesso tra pro­cessi sociali e sovra­strut­tura poli­tica, il rap­porto tra que­sti due momenti. Secondo me, in una società a capi­ta­li­smo avan­zato, gli stessi «movi­menti» di base di cui tanto par­liamo non sono mai pura «imme­dia­tezza», non sono «spon­ta­neità» così come la si intende, ma nascono e si svi­lup­pano più che mai intrisi di poli­tica, con­di­zio­nati for­te­mente dalla sovra­strut­tura poli­tica. E guai se noi dimen­ti­chiamo che la crisi di certi par­titi, il sor­gere di nuovi «canali» di espe­rienza e lotta poli­tica, cam­biano sì i ter­mini, e tut­ta­via non can­cel­lano que­sto nesso — che invece diventa sem­pre più stretto — tra società civile e società poli­tica, tra strut­tura e sovra­strut­tura. Mi sem­bra che le diver­genze circa i rap­porti con la DC o con il PSI hanno la loro ori­gine su que­sto retro­terra più pro­fondo e non tanto in valu­ta­zioni diverse sulla situa­zione con­tin­gente di que­sti par­titi, in un mag­giore o minore «pessimismo».
La com­pa­gna Ros­sanda, ieri sera, si richia­mava a Gram­sci. Ma Gram­sci e la lezione gram­sciana stanno nella tema­tica con­si­liare e poi in tutta la rifles­sione dei Qua­derni del car­cere. Gram­sci è la coscienza di que­sto rap­porto nuovo tra strut­tura e sovra­strut­tura, come si pone nei paesi di capi­ta­li­smo maturo; è la rifles­sione su que­sto nodo teo­rico e pra­tico come punto di par­tenza per capire le ragioni della scon­fitta radi­cale che subimmo nel primo dopo­guerra e per cer­care una nuova stra­te­gia di avan­zata al socia­li­smo. Pur­troppo que­sta ricerca è andata avanti assai fati­co­sa­mente. E dob­biamo riflet­tere sugli insuc­cessi a cui è andato il movi­mento comu­ni­sta inter­na­zio­nale, quando ha pen­sato troppo facil­mente di supe­rare altre cor­renti poli­ti­che ope­raie di lunga tra­di­zione, sia attra­verso «scis­sioni» a base set­ta­ria, sia sulla base di limi­tate con­ver­genze «fron­ti­ste». Dob­biamo essere con­sa­pe­voli del prezzo pesante che è stato pagato dalla III Inter­na­zio­nale, da tutta l’esperienza della III Inter­na­zio­nale, per non avere com­preso, in tempo e a suf­fi­cienza, la «durata» che, nelle società dell’Occidente capi­ta­li­stico, ave­vano orga­niz­za­zioni di classe, par­titi ope­rai e ideo­lo­gie ad essi legate (ad esem­pio la socialdemocrazia).
I par­titi comu­ni­sti e il «mag­gio» francese
Dob­biamo riflet­tere anche all’esperienza, così impor­tante e vicina, del «mag­gio» fran­cese. Essa, certo, ci mostra la matu­ra­zione di «canali» e di nuove forme di lotta, ma ci dice anche il disa­stro cui si va quando si pensa di can­cel­lare d’un sof­fio la sovra­strut­tura poli­tica in tutto il suo «spes­sore»: quando si smar­ri­sce e si dimen­tica che il gol­li­smo non è solo De Gaulle, e quando si pensa di ridurre, super­fi­cial­mente, la sto­ria — anche tor­men­tata, anche con limiti ed errori — del Par­tito comu­ni­sta fran­cese a quella di una pura setta di burocrati.
Qui sorge l’altro punto impor­tante di dis­senso. È il lavoro del nostro par­tito all’altezza di que­sti nuovi pro­blemi? È ade­guato al com­pito dif­fi­cile e ori­gi­nale di costru­zione di un nuovo potere delle masse? Credo che sia pro­fon­da­mente sba­gliata qual­siasi posi­zione che oscuri la pres­sante esi­genza di un ele­va­mento dell’azione del nostro par­tito e, più in gene­rale, della sini­stra ita­liana per por­tare avanti una rispo­sta reale a que­sta tema­tica nuova. E tut­ta­via, per indi­vi­duare le forme e le tappe di un rin­no­va­mento della sini­stra, anche in que­sto caso biso­gna scio­gliere un nodo.
Quando si parla — come ha fatto Ros­sanda — di una dia­let­tica tra movi­menti e par­titi, a che cosa ci rife­riamo? All’astratta cate­go­ria «par­tito» oppure a que­sto par­tito comu­ni­sta e a que­sti par­titi ope­rai, sorti nel con­creto svi­luppo dello scon­tro di classe? La rispo­sta può sem­brare ovvia. Eppure non lo è, per­ché se assu­miamo come sog­getto fon­da­men­tale di que­sta dia­let­tica e, io dico, di que­sta visione stra­te­gica, come forza essen­ziale, come nostra parte, come nostra mili­zia, que­sto par­tito — dando con ciò una valu­ta­zione poli­tica indi­spen­sa­bile per un ragio­na­mento rigo­roso — allora è chiaro che le pro­po­ste di ade­gua­mento, di svi­luppo, di rin­no­va­mento e anche di tra­sfor­ma­zione della avan­guar­dia rivo­lu­zio­na­ria deb­bono par­tire da que­sta con­creta realtà, da que­sto Par­tito comu­ni­sta ita­liano, che è, con tutti i suoi limiti, la nostra «carta» essen­ziale; che è la nostra parte; e quindi deb­bono par­tire dalla sua sto­ria, dalla sua dina­mica, dalle sue poten­zia­lità.
Ogni discorso di rin­no­va­mento insomma, se vogliamo por­tarlo avanti seria­mente, dob­biamo anco­rarlo a ciò. In realtà, i com­pa­gni del Mani­fe­sto hanno aperto un discorso che è ben più ampio e deli­cato di quello di un rin­no­va­mento e di uno svi­luppo del par­tito. Hanno par­lato di «rivo­lu­zione cul­tu­rale», hanno par­lato di «riforma gene­rale» e di «rifon­da­zione». Non voglio adesso sot­to­li­neare la gra­vità della rot­tura delle regole del par­tito che — dob­biamo dirlo a noi stessi, a tutti — pos­siamo sì cam­biare, poi­ché sono regole sto­ri­che, e niente affatto «eterne», ma che pos­siamo solo cam­biare insieme.
Il Pci tra «rifon­da­zione» e «rinnovamento»
Non voglio sot­to­li­neare que­sto punto, su cui sono state dette con forza nella rela­zione del com­pa­gno Natta cose che io con­di­vido; voglio sot­to­li­neare che un pro­po­sito cosi grave e rischioso è stato avan­zato fuori da una valu­ta­zione dei pro­cessi reali in atto nel par­tito, sia delle sue tra­di­zioni e com­po­nenti sto­ri­che, sia del cam­mino, fati­coso e dif­fi­cile, ma visi­bile in cui noi siamo impe­gnati. Che con­cre­tezza ha par­lare di rin­no­va­mento, senza par­tire dal XII Con­gresso, ad esem­pio, da ciò che è stato il XII Con­gresso come sforzo e ricerca di nuove vie? E non solo per i discorsi che sono stati fatti a Bolo­gna, per la tenuta di quell’assise. E non solo per il fatto che, per la prima volta forse nella sto­ria del movi­mento comu­ni­sta inter­na­zio­nale dell’ultimo qua­ran­ten­nio, i dis­sen­zienti sono stati chia­mati a fare parte del Comi­tato cen­trale. Ma per un’altra ragione più di fondo, che è la vera novità del con­gresso di Bolo­gna; per l’impegno che già prima dell’assemblea di Bolo­gna, nei con­gressi pro­vin­ciali, nei dibat­titi di base, qua­dri e mili­tanti ave­vano posto nel col­le­gare il loro lavoro ad un dibat­tito sulla stra­te­gia; per l’azione che, prima del con­gresso e in rap­porto al con­gresso, noi ave­vamo con­dotto sul tema di un nuovo inter­na­zio­na­li­smo, di un modo nuovo di essere da parte nostra nel movi­mento comu­ni­sta inter­na­zio­nale; per il con­fronto, con le forze nuove di qua­dri e di gio­vani, che si era espresso anche nel tra­va­glio di tutta una serie di con­gressi pro­vin­ciali, e anche nel fatto che le file dei comi­tati fede­rali e di altri orga­ni­smi diri­genti erano state aperte a una nuova generazione.
Anche sta­volta, non ricordo que­ste cose per trion­fa­li­smo, ma per met­tere con i piedi per terra il discorso sullo svi­luppo e sul rin­no­va­mento del par­tito, per vedere come pos­siamo com­piere passi avanti reali, che coin­vol­gano forze effet­tive, le met­tano al lavoro, e spin­gano dav­vero ad un pro­cesso dure­vole di ele­va­mento del partito.
So che il ter­mine di «rivo­lu­zione cul­tu­rale» è un’analogia, e assai som­ma­ria, che a me, per dire la verità, non è pia­ciuta. Ma ana­lo­gia per ana­lo­gia, com­pa­gni, lascia­temi ricor­dare che la rivo­lu­zione cul­tu­rale cinese non è stata certo un’esplosione di spon­ta­neità. Si è trat­tato là di una con­sa­pe­vole ed orga­niz­zata mobi­li­ta­zione di forze che erano mas­sic­cia­mente pre­senti nel par­tito e nella società; e si è fatta agire for­te­mente anche la tra­di­zione, sotto la forma molto cor­posa dell’armata rossa. E tutti quanti sap­piamo che si è trat­tato di un rivol­gi­mento sì; ma di un rivol­gi­mento for­te­mente gui­dato dall’alto e con­cluso dall’alto.
Voglio dire che quando si parla di rivo­lu­zione cul­tu­rale o di riforma gene­rale del par­tito, anche qui, anche in que­sta occa­sione, biso­gna dire «come, con chi e per che cosa». E mi rife­ri­sco alla sto­ria del par­tito, alla strut­tu­ra­zione dei suoi qua­dri, al modo con cui si com­pie e può essere svi­lup­pato il rap­porto fra diri­genti e base, se è vero che la tra­sfor­ma­zione di un corpo poli­tico come il PCI non può essere affi­data solo ad un ver­ti­ci­stico con­fronto di «idee».
Dico di più: una pro­po­sta di rivol­gi­mento interno così grave non può essere sepa­rata dalla valu­ta­zione della fase dello scon­tro di classe, in cui opera e si inse­ri­sce la vita reale del partito.
Tutti noi sap­piamo e sen­tiamo a quale acu­tezza sta giun­gendo que­sto scon­tro; dalle pagine del Mani­fe­sto sem­bra anzi venir fuori un dilemma: o si va rapi­da­mente ad una tran­si­zione al socia­li­smo o si va ad una rea­zione di tipo fasci­sta. Non con­di­vido que­sto dilemma e ritengo che tutta la nostra stra­te­gia stia nello sfug­gire a que­sto dilemma, nel non lasciarsi rin­chiu­dere in un «tutto o niente», che lasce­rebbe all’avversario la scelta del ter­reno e del momento dello scon­tro totale. Ma o quella pro­po­sta di «rivo­lu­zione cul­tu­rale» è una frase, oppure con quale sag­gezza si pensa ad una rot­tura così pro­fonda nel par­tito, in un momento di lotta sociale così teso e, per giunta, senza defi­nire nem­meno le basi, le tappe, e le pro­spet­tive della pro­po­sta «rifon­da­zione» del partito?
L’errore e l’infecondità del gruppo del «manifesto»
Sento non solo l’errore, ma l’infecondità di una pro­po­sta riguar­dante la vita interna del par­tito che si pre­senta così, dav­vero, come una pro­po­sta « esterna », intel­let­tua­li­stica, e non come ini­zia­tiva ed anche lotta poli­tica aspra, ma che si inne­sti nel vivo dell’esperienza che sta facendo il par­tito in que­sto momento, dei pro­blemi e degli spo­sta­menti che sor­gono in que­sta lotta, del pro­cesso reale che si compie.
Non per caso i com­pa­gni del Mani­fe­sto, al di là delle parole che ha detto ieri la com­pa­gna Ros­sanda, sono stati tra­sci­nati dalla logica stessa della loro visione ad un’azione che ha carat­teri fra­zio­ni­stici e, nella pra­tica, al di là delle loro stesse dichia­ra­zioni, fini­scono col pro­porre al par­tito un’organizzazione per gruppi.
Credo, com­pa­gni, che noi dob­biamo dis­sen­tire net­ta­mente e pro­fon­da­mente dal fra­zio­ni­smo, non solo per disci­plina, non solo per tra­di­zione, non solo per espe­rienze gravi che sono state fatte da altri par­titi, a comin­ciare dal par­tito socia­li­sta, ma per una ragione di fondo, che riguarda que­sta fase del movi­mento ope­raio inter­na­zio­nale, que­ste novità in cui siamo impe­gnati. Parlo della neces­sità di rom­pere l’illusione nefa­sta che ha tanto pesato nella vita della sini­stra ope­raia occi­den­tale e anche nella vita del nostro paese, di rin­no­vare «sepa­ran­dosi», di rin­no­vare creando sette; illu­sione pro­fon­da­mente dan­nosa, che ha ritar­dato pesan­te­mente il cam­mino verso l’unità poli­tica di uno schie­ra­mento di classe.
Credo che i com­pa­gni del Mani­fe­sto reste­ranno al di qua di una rispo­sta giu­sta agli inter­ro­ga­tivi ed ai pro­blemi che stanno dinanzi a noi, quanto più si sepa­re­ranno e si rin­chiu­de­ranno nel gruppo, per­ché cosi, sem­pre più, si verrà ad inde­bo­lire quel rap­porto tra ela­bo­ra­zione, azione e veri­fica nell’azione, che è per noi mar­xi­sti la chiave per costruire una rispo­sta scien­ti­fica alle que­stioni che lo scon­tro di classe ci pone.
Quando noi poniamo in rilievo che il dibat­tito ci è pro­fon­da­mente neces­sa­rio sì, ma nelle sedi comuni del par­tito, non inten­diamo get­tare un ana­tema pre­giu­di­ziale su un qual­siasi col­let­tivo. Inten­diamo affer­mare l’esigenza che il lavoro, sin­golo o col­let­tivo, si rifonda e si veri­fi­chi subito nella prassi dell’azione del par­tito, nelle sedi in cui poi il par­tito nella sua orga­ni­cità discute, ela­bora; decide.
Anche per que­sto non con­di­vido la sfi­du­cia che si legge nel Mani­fe­sto verso i momenti isti­tu­zio­nali che sono invece, secondo me, la con­di­zione per ela­bo­rare e per «durare», e quindi sono una forza e non un impo­ve­ri­mento come sostiene Sar­tre nel col­lo­quio ripor­tato dal Manifesto.
Qui viene il punto più grave e deli­cato, sul quale non sono ammis­si­bili tran­sa­zioni; non è ammis­si­bile l’indifferenza ed anzi l’estraneità rispetto alla con­clu­sione cui giunge la discus­sione negli organi cen­trali del par­tito. Una tale posi­zione di estra­neità e di indif­fe­renza vuoi dire dav­vero una sepa­ra­zione radicale.
Dob­biamo dir­celo con chia­rezza, com­pa­gni. Si può essere con­vinti che la con­clu­sione a cui giun­gono gli organi del par­tito è sba­gliata e dirlo; que­sto può capi­tare, è capi­tato a tanti di noi, e noi dob­biamo anche riu­scire a tro­vare metodi migliori per ren­dere sem­plice, «nor­male», e quindi più feconda que­sta espres­sione del dis­senso. Si può pen­sare che il dibat­tito è stato con­dotto male (io non ritengo che que­sto sia il caso) e cri­ti­care e com­bat­tere que­sta con­dotta. Si può rite­nere anche che vi sia stata coer­ci­zione, e bat­tersi con­tro que­sta coer­ci­zione con fer­mezza e intran­si­genza, sino all’ultimo. Ma si deve tener conto delle con­clu­sioni a cui giun­gono gli organi del par­tito: per una ragione poli­tica. Non è un fatto di disci­plina for­male, este­riore, che pure conta: è la prova che si vuole tro­vare la solu­zione giu­sta con gli altri com­pa­gni del par­tito, e non in un astratto par­tito, ma nel con­creto par­tito, nella vita reale del par­tito come noi la viviamo. È la con­vin­zione che l’insieme dei com­pa­gni, anche di quelli che sono più lon­tani dalle nostre posi­zioni, ci è neces­sa­rio per la rispo­sta giu­sta, per la lotta nostra. Ci è neces­sa­rio, se vogliamo por­tare avanti una posi­zione che sì è con­vin­zione del sin­golo, ma che per essere una posi­zione giu­sta, per acqui­stare forza sto­rica, per inci­dere nella lotta di classe e non restare vel­leità o puro pro­getto intel­let­tuale, deve misu­rarsi in que­sto tra­va­glio col­let­tivo. In caso con­tra­rio, infatti, o esi­ste ormai la sfi­du­cia radi­cale di cui par­lava Natta e cioè si pensa ad un altro stru­mento poli­tico (che può essere una deci­sione molto grave, che non mi auguro), ma allora è giu­sto dirlo ed e neces­sa­rio indi­care anche quest’altro stru­mento poli­tico, oppure, se non è que­sto, è visione illu­mi­ni­stica, intel­let­tua­li­stica dello scon­tro sociale.
Il dis­senso non può riguar­dare il partito
In tal caso, com­pa­gni, il dis­senso torna ad essere poli­tico, su un punto deci­sivo: per­ché allora il dis­senso riguarda il sog­getto stesso, il pro­ta­go­ni­sta della bat­ta­glia per la rivo­lu­zione; la forza poli­tica fon­da­men­tale su cui si punta, quali che siano le dif­fi­coltà ed i suoi limiti, che per noi resta, deve restare que­sto par­tito, con la sua grande sto­ria, con il suo patri­mo­nio, con i suoi passi in avanti ed anche con i suoi grossi pro­blemi e le sue difficoltà.
La rispo­sta alla richie­sta che la V Com­mis­sione rivolge ai com­pa­gni è per­ciò un fatto poli­tico, prima ancora che disci­pli­nare; riguarda il modo di col­lo­carsi nel par­tito, riguarda la scelta del sog­getto fon­da­men­tale. Per­ciò noi dob­biamo chie­dere ai com­pa­gni del Mani­fe­sto di riflet­tere, non in un modo for­male, non per vin­colo di disci­plina, ma per­ché qui c’è dav­vero qual­cosa che riguarda un punto deci­sivo per la nostra bat­ta­glia e per il cam­mino di tutta la sini­stra italiana.
Que­sto è il senso vero del cen­tra­li­smo demo­cra­tico (come stru­mento per una ricerca comune, per una lotta comune) che noi dob­biamo affer­mare. Cen­tra­li­smo demo­cra­tico che è sì — lo dob­biamo dire con fran­chezza — anche con­di­zio­na­mento per ognuno di noi, con­di­zio­na­mento anche dif­fi­cile e duro, ma con­di­zio­na­mento neces­sa­rio per ela­bo­rare insieme una via di lotta, per tra­sfor­mare noi stessi insieme con gli altri e gli altri con noi stessi.
Siamo for­te­mente con­sa­pe­voli che ci sono state defor­ma­zioni gravi del cen­tra­li­smo demo­cra­tico e che — più in gene­rale — abbiamo nella nostra sto­ria e nel nostro cam­mino una dura tra­di­zione di mono­li­ti­smo che ha avuto sì una fun­zione nella lotta prima con­tro la disgre­ga­zione social­de­mo­cra­tica e poi con­tro la dit­ta­tura fasci­sta, ma che ha anche lasciato a noi ere­dità nega­tive e costumi che non è sem­plice superare.
Que­sti pro­blemi però, ed anche i ritardi che dob­biamo ancora regi­strare, potranno essere supe­rati assu­mendo, e non igno­rando, le esi­genze di orga­niz­za­zione, di durata, di col­le­ga­mento nazio­nale ed inter­na­zio­nale, che sono indi­spen­sa­bili ad una grande avan­guar­dia rivo­lu­zio­na­ria, — oggi, alla data del 1969, — per fron­teg­giare e bat­tere il tipo di avver­sa­rio di classe che noi abbiamo di fronte. E anche per pesare real­mente nella dia­let­tica di un movi­mento comu­ni­sta che non si pre­senta più con le carat­te­ri­sti­che della fine del secolo dician­no­ve­simo, o anche del ’14 e del ’15, ma con la fisio­no­mia di un movi­mento rigi­da­mente orga­niz­zato, in cui — dicia­mo­celo chia­ra­mente — le alter­na­tive stra­te­gi­che si espri­mono oggi in Stati, in poli­ti­che sta­tali, e addi­rit­tura in bloc­chi di Stati.
Una «mobi­li­ta­zione reale» con­tro i «gravi errori»
Quando chia­miamo per­ciò ad una lotta poli­tica con­tro i gravi errori dei com­pa­gni del Mani­fe­sto chie­diamo una mobi­li­ta­zione reale, di sostanza e di impe­gno, e il modo stesso con cui il nostro par­tito affron­terà e scon­fig­gerà in que­sto caso le posi­zioni sba­gliate è impor­tante — dob­biamo averlo pre­sente — per tutta la matu­ra­zione del nostro par­tito: non solo cioè per l’azione neces­sa­ria tesa a recu­pe­rare su una giu­sta posi­zione tutti i com­pa­gni, ma anche per il discorso che noi dob­biamo rivol­gere alle forze poli­ti­che, per il modo con cui noi dob­biamo pre­sen­tare il nostro par­tito ed il senso pro­fondo del cen­tra­li­smo democratico.
Certo, la stampa bor­ghese — ed ho finito, com­pa­gni — spera di affo­garci nel dilemma: o tol­le­ranza verso la rot­tura o repres­sione. Noi dob­biamo uscire da que­sto dilemma con la con­qui­sta poli­tica alle posi­zioni giu­ste, alla neces­sità della disci­plina, alle ragioni pro­fonde del cen­tra­li­smo demo­cra­tico come stru­mento di demo­cra­zia e di cre­scita della democrazia.
Que­sto vuoi dire anche che noi ci fac­ciamo carico non solo di dire con chia­rezza ciò che va con­dan­nato, ma di spie­gare anche le ragioni di una cri­tica di fondo, di moti­vare la ragione per cui con­si­de­riamo sba­gliato tutto ciò e, soprat­tutto, di svi­lup­pare nel con­creto gli stru­menti della ricerca, le sedi del con­fronto ed i modi con cui noi vogliamo con­qui­stare forze nuove alla vita del nostro par­tito e col­le­garci alle avan­guar­die che matu­rano nella società.
Il nostro par­tito, forte delle con­qui­ste che abbiamo rea­liz­zato in que­sti anni, forte dei passi in avanti che abbiamo com­piuto al XII Con­gresso e attorno al XII Con­gresso, deve avere fidu­cia nella sua capa­cità di affron­tare posi­ti­va­mente le que­stioni su cui è chia­mato a dibat­tere ed a pronunciarsi.
Certo, so bene — voglio rispon­dere al com­pa­gno Donini — che die­tro que­ste posi­zioni del Mani­fe­sto ci sono dei fatti ogget­tivi e che in qual­che modo anche tali posi­zioni sba­gliate sono il riflesso dei pro­blemi che ci si pre­sen­tano e che noi non abbiamo affron­tato a suf­fi­cienza. Chi non sente tutto que­sto? Non vogliamo nascon­derci tutto ciò, ma non pos­siamo limi­tarci a regi­strare le «spinte» del paese. Dob­biamo lavo­rare per far matu­rare, nel vivo di que­sta prova, non solo una più forte unità del par­tito, ma anche una con­qui­sta, una capa­cità migliore e più forte di con­durre avanti la stra­te­gia di avan­zata al socia­li­smo, che è stata al cen­tro del XII Con­gresso e che, più lon­ta­na­mente, è al cen­tro di tutta la ricerca che dai tempi di Gram­sci noi veniamo compiendo.

Nota reda­zio­nale: cor­sivi dell’autore e sot­to­ti­toli nostri. Testo tratto dall’archivio di Pie­tro Ingrao su www​.pie​troin​grao​.it.
Il 27 novem­bre 1969 Aldo Natoli, Ros­sana Ros­sanda, Luigi Pin­tor e Lucio Magri ven­gono radiati dal Pci. Con­tro la radia­zione si espres­sero Cesare Lupo­rini, Lucio Lom­bardo Radice e Fabio Mussi. Tre gli aste­nuti: Chia­rante, Gara­vini e Badaloni.

Fonte: il manifesto 

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