di Citto Maselli
Nella mia lunga appartenenza al Partito Comunista Italiano, mi sono sempre riconosciuto nelle posizioni e nelle elaborazioni critiche e teoriche di Pietro Ingrao.
Tra gli ultimi ricordi che ho insieme a Ingrao, quello più vivo ed emozionante resta per me la sua venuta a Rifondazione Comunista il giorno in cui compiva novanta anni: a festeggiarlo c’era anche Mario Monicelli, anche lui appena novantenne. E tuttavia per i suoi cento anni sento più giusto parlare di una cosa meno nota: il peso che ebbe nella storia del cinema italiano.
È nel 1936 che rinasce il cinema italiano, ad opera di un gerarca sagace e dinamico che si chiamava Luigi Freddi. Ma nasce morto dal punto di vista artistico e culturale perché Freddi capisce subito che quella nuova e importante industria era un grande e utilissimo strumento di estensione di quel consenso generalizzato che il regime stava attentamente costruendosi. Dopo lo spettacolare e propagandistico «Scipione l’africano», infatti, Freddi comprese che il cinema italiano doveva puntare soprattutto su un genere più leggero — commedie per lo più — che da un lato distraesse il pubblico dai problemi reali che viveva ogni giorno, dall’altro rappresentasse un’Italia fondamentalmente benestante e moderna.
Da qui le abitazioni dei personaggi e delle famiglie costruite nell’appena nata Cinecittà, sempre ampie, gradevoli e ben arredate, con la perenne presenza di improbabili «mobili-bar» e degli apparecchi telefonici di colore bianco che la tedesca Siemens aveva da poco sfornato. Anche il vestiario degli italiani era signorile e ben tagliato per cui avveniva per esempio che un autista di taxi, quando si toglieva lo spolverino di servizio, ci appariva vestito come un gentleman, con tanto di cravatta e giacca di tweed.
Da qui le abitazioni dei personaggi e delle famiglie costruite nell’appena nata Cinecittà, sempre ampie, gradevoli e ben arredate, con la perenne presenza di improbabili «mobili-bar» e degli apparecchi telefonici di colore bianco che la tedesca Siemens aveva da poco sfornato. Anche il vestiario degli italiani era signorile e ben tagliato per cui avveniva per esempio che un autista di taxi, quando si toglieva lo spolverino di servizio, ci appariva vestito come un gentleman, con tanto di cravatta e giacca di tweed.
C’era anche una politica degli attori nel tentativo di imitare il cinema americano e il vicino e sfolgorante cinema francese che con grandi registi come Renoir e Carné, grandi attori come Gabin e scrittori del calibro di Prevert stava vincendo sul mercato europeo, trovando un pubblico appassionato anche in Italia.
Va detto infatti che con il recente avvento del sonoro, il mezzo cinematografico se da un lato aveva perso la sua strabiliante possibilità di diffusione internazionale (in quanto i dialoghi richiedevano operazioni di doppiaggio che all’epoca erano difficili e costose) dall’altro aveva acquistato una maggiore possibilità di raccontare realisticamente la società e i suoi conflitti, creando anche personaggi fortemente simbolici come il grande eroe proletario impersonato in Francia da Jean Gabin.
Tutto questo spiega sia il successo di pubblico del cinema francese, sia lo straordinario interesse per il cinema in generale e per quello francese in particolare da parte di un gruppo di giovani antifascisti alcuni dei quali avevano già aderito al partito comunista clandestino. Tra questi c’era Pietro Ingrao che in un primo tempo era addirittura entrato nei corsi di regia del Centro Sperimentale di Cinematografia, l’istituto inventato anch’esso da Freddi per formare i quadri professionali necessari alla nuova industria.
Ma qui va detto anche che nella seconda metà degli anni Trenta, e con buona pace di tutti quelli che oggi pretendono di dimostrare che durante il fascismo tutti gli intellettuali e gli artisti si erano di fatto venduti al regime, negli anni trenta — dicevo — l’antifascismo serpeggiava in tutti gli ambienti culturali italiani. Pure all’interno della controllatissima industria cinematografica del regime. Sono tentativi ancora incerti e timidi di rappresentare con qualche realismo e qualche drammaticità aspetti della società italiana: c’è «Fari nella nebbia» di Gianni Franciolini ad esempio, «I bambini ci guardano» di Zavattini e De Sica, «Sissignora» di Poggioli sulla vita delle cameriere dove troviamo tra gli scrittori della sceneggiatura nientedimeno che Emilio Cecchi e Anna Banti oltre al giovanissimo Lattuada.
Ma se questa è l’atmosfera generale, c’è in realtà solo un gruppo di critici cinematografici e di intellettuali che lavora concretamente, tenacemente e intelligentemente a creare le basi culturali per un cinema completamente rinnovato. E’ il gruppo che crea la rivista Cinema e di cui fanno parte inizialmente i fratelli Puccini e Giuseppe De Santis. Ma è proprio con l’arrivo di Pietro Ingrao, comunista e già poeta stimato da intellettuali super raffinati come Bontempelli, che questo nucleo diventa fattivo e anche politicamente maturo.
All’adesione di Ingrao fa riscontro quella di un giovane aristocratico che si chiama Luchino Visconti e che si è formato professionalmente e politicamente in Francia all’epoca del Fronte popolare lavorando con Jean Renoir, il grande regista comunista. Nel gruppo sono anche presenti Antonio Pietrangeli e il teorico Rudolf Arnheim, autore di un libro che ebbe grande importanza («Film als kunst») e le discussioni durano giornate e notti intere.
Ingrao è sempre presente e fervido. Assolutamente determinante, stando ai racconti e alle testimonianze, per la formazione di quell’humus culturale e politico da cui nascerà tra breve con la regia di Visconti «Ossessione», il grande film della nostra rinascita artistica e culturale.
Anche di questo dobbiamo essere eternamente grati a Pietro Ingrao.
Fonte: il manifesto
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