La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 27 settembre 2015

Storia di Pietro. La sua passione per il grande cinema

di Citto Maselli
Nella mia lunga appar­te­nenza al Par­tito Comu­ni­sta Ita­liano, mi sono sem­pre rico­no­sciuto nelle posi­zioni e nelle ela­bo­ra­zioni cri­ti­che e teo­ri­che di Pie­tro Ingrao.
Tra gli ultimi ricordi che ho insieme a Ingrao, quello più vivo ed emo­zio­nante resta per me la sua venuta a Rifon­da­zione Comu­ni­sta il giorno in cui com­piva novanta anni: a festeg­giarlo c’era anche Mario Moni­celli, anche lui appena novan­tenne. E tut­ta­via per i suoi cento anni sento più giu­sto par­lare di una cosa meno nota: il peso che ebbe nella sto­ria del cinema italiano.
È nel 1936 che rina­sce il cinema ita­liano, ad opera di un gerarca sagace e dina­mico che si chia­mava Luigi Freddi. Ma nasce morto dal punto di vista arti­stico e cul­tu­rale per­ché Freddi capi­sce subito che quella nuova e impor­tante indu­stria era un grande e uti­lis­simo stru­mento di esten­sione di quel con­senso gene­ra­liz­zato che il regime stava atten­ta­mente costruen­dosi. Dopo lo spet­ta­co­lare e pro­pa­gan­di­stico «Sci­pione l’africano», infatti, Freddi com­prese che il cinema ita­liano doveva pun­tare soprat­tutto su un genere più leg­gero — com­me­die per lo più — che da un lato distraesse il pub­blico dai pro­blemi reali che viveva ogni giorno, dall’altro rap­pre­sen­tasse un’Italia fon­da­men­tal­mente bene­stante e moderna.
Da qui le abi­ta­zioni dei per­so­naggi e delle fami­glie costruite nell’appena nata Cine­città, sem­pre ampie, gra­de­voli e ben arre­date, con la perenne pre­senza di impro­ba­bili «mobili-bar» e degli appa­rec­chi tele­fo­nici di colore bianco che la tede­sca Sie­mens aveva da poco sfor­nato. Anche il vestia­rio degli ita­liani era signo­rile e ben tagliato per cui avve­niva per esem­pio che un auti­sta di taxi, quando si toglieva lo spol­ve­rino di ser­vi­zio, ci appa­riva vestito come un gen­tle­man, con tanto di cra­vatta e giacca di tweed.
C’era anche una poli­tica degli attori nel ten­ta­tivo di imi­tare il cinema ame­ri­cano e il vicino e sfol­go­rante cinema fran­cese che con grandi regi­sti come Renoir e Carné, grandi attori come Gabin e scrit­tori del cali­bro di Pre­vert stava vin­cendo sul mer­cato euro­peo, tro­vando un pub­blico appas­sio­nato anche in Italia.
Va detto infatti che con il recente avvento del sonoro, il mezzo cine­ma­to­gra­fico se da un lato aveva perso la sua stra­bi­liante pos­si­bi­lità di dif­fu­sione inter­na­zio­nale (in quanto i dia­lo­ghi richie­de­vano ope­ra­zioni di dop­piag­gio che all’epoca erano dif­fi­cili e costose) dall’altro aveva acqui­stato una mag­giore pos­si­bi­lità di rac­con­tare rea­li­sti­ca­mente la società e i suoi con­flitti, creando anche per­so­naggi for­te­mente sim­bo­lici come il grande eroe pro­le­ta­rio imper­so­nato in Fran­cia da Jean Gabin.
Tutto que­sto spiega sia il suc­cesso di pub­blico del cinema fran­cese, sia lo straor­di­na­rio inte­resse per il cinema in gene­rale e per quello fran­cese in par­ti­co­lare da parte di un gruppo di gio­vani anti­fa­sci­sti alcuni dei quali ave­vano già ade­rito al par­tito comu­ni­sta clan­de­stino. Tra que­sti c’era Pie­tro Ingrao che in un primo tempo era addi­rit­tura entrato nei corsi di regia del Cen­tro Spe­ri­men­tale di Cine­ma­to­gra­fia, l’istituto inven­tato anch’esso da Freddi per for­mare i qua­dri pro­fes­sio­nali neces­sari alla nuova industria.
Ma qui va detto anche che nella seconda metà degli anni Trenta, e con buona pace di tutti quelli che oggi pre­ten­dono di dimo­strare che durante il fasci­smo tutti gli intel­let­tuali e gli arti­sti si erano di fatto ven­duti al regime, negli anni trenta — dicevo — l’antifascismo ser­peg­giava in tutti gli ambienti cul­tu­rali ita­liani. Pure all’interno della con­trol­la­tis­sima indu­stria cine­ma­to­gra­fica del regime. Sono ten­ta­tivi ancora incerti e timidi di rap­pre­sen­tare con qual­che rea­li­smo e qual­che dram­ma­ti­cità aspetti della società ita­liana: c’è «Fari nella neb­bia» di Gianni Fran­cio­lini ad esem­pio, «I bam­bini ci guar­dano» di Zavat­tini e De Sica, «Sis­si­gnora» di Pog­gioli sulla vita delle came­riere dove tro­viamo tra gli scrit­tori della sce­neg­gia­tura nien­te­di­meno che Emi­lio Cec­chi e Anna Banti oltre al gio­va­nis­simo Lattuada.
Ma se que­sta è l’atmosfera gene­rale, c’è in realtà solo un gruppo di cri­tici cine­ma­to­gra­fici e di intel­let­tuali che lavora con­cre­ta­mente, tena­ce­mente e intel­li­gen­te­mente a creare le basi cul­tu­rali per un cinema com­ple­ta­mente rin­no­vato. E’ il gruppo che crea la rivi­sta Cinema e di cui fanno parte ini­zial­mente i fra­telli Puc­cini e Giu­seppe De San­tis. Ma è pro­prio con l’arrivo di Pie­tro Ingrao, comu­ni­sta e già poeta sti­mato da intel­let­tuali super raf­fi­nati come Bon­tem­pelli, che que­sto nucleo diventa fat­tivo e anche poli­ti­ca­mente maturo.
All’adesione di Ingrao fa riscon­tro quella di un gio­vane ari­sto­cra­tico che si chiama Luchino Visconti e che si è for­mato pro­fes­sio­nal­mente e poli­ti­ca­mente in Fran­cia all’epoca del Fronte popo­lare lavo­rando con Jean Renoir, il grande regi­sta comu­ni­sta. Nel gruppo sono anche pre­senti Anto­nio Pie­tran­geli e il teo­rico Rudolf Arn­heim, autore di un libro che ebbe grande impor­tanza («Film als kunst») e le discus­sioni durano gior­nate e notti intere.
Ingrao è sem­pre pre­sente e fer­vido. Asso­lu­ta­mente deter­mi­nante, stando ai rac­conti e alle testi­mo­nianze, per la for­ma­zione di quell’humus cul­tu­rale e poli­tico da cui nascerà tra breve con la regia di Visconti «Osses­sione», il grande film della nostra rina­scita arti­stica e culturale.
Anche di que­sto dob­biamo essere eter­na­mente grati a Pie­tro Ingrao.

Fonte: il manifesto 

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