La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 27 settembre 2015

Storia di Pietro. Il paesaggio che annuncia l’altrove del comunismo

di Alberto Olivetti
La descri­zione del pae­sag­gio che intro­duce l’autobiografia Volevo la luna di Pie­tro Ingrao è con­dotta nel rispetto delle regole della perie­gesi antica ove si pro­fi­lano i con­torni d’un ter­ri­to­rio per­cor­ren­dolo secondo i tra­gitti che vi hanno trac­ciato gli acca­di­menti inter­corsi nel tempo, eventi con­ser­vati in una memo­ria tanto tenace da con­fe­rire ai luo­ghi un loro rico­no­sci­bile senso.
Pagina impron­tata, non per caso, al tempo imper­fetto a deno­tare una dimen­sione che per­mane costante e dura intatta tra pre­sente e pas­sato. Credo sia oppor­tuno tenere in par­ti­co­lare conto que­sta viva con­giun­zione tra inal­te­rato e mutante che il ricorso all’imperfetto con­sente di resti­tuire nella scan­sione di un non com­piuto che si atte­sta come un per sempre.
È pro­ba­bile che in Ingrao un ammae­stra­mento alla natura e ai luo­ghi sia stato pre­coce ed abbia ali­men­tato la sua edu­ca­zione al pae­sag­gio. Sta di fatto che, in una rac­colta di con­ver­sa­zioni con Ingrao che Maria Luisa Boc­cia e chi scrive ha rac­colto con il pro­po­sito di pub­bli­carla sotto il titolo Verso la Grotta di Tibe­rio, Ingrao ricorda: «Mia madre, Cele­ste Nota­r­janni, con­ser­vava, tra altre carte di fami­glia e scritti, il cele­brato Viag­gio per l’Ausonia. Ram­mento d’aver letto, ragazzo, quelle pagine dove Fran­ce­sco Anto­nio Nota­r­janni descrive, agli inizi dell’Ottocento, i luo­ghi e i paesi che si sten­dono fra il Liri, i Vol­sci e il mare e rin­trac­cia negli scrit­tori clas­sici, nei reperti e nelle iscri­zioni, la vicenda degli anti­chi Ausoni».
La rico­stru­zione sto­rica, atte­stata nel culto dei monu­menti, san­ci­sce l’identità d’un luogo. Quando è in grado di resti­tuir­gli un nome, la nomina, evo­can­dola dall’oblio seco­lare e, col nome, ne con­se­gna al pre­sente l’antica gran­dezza. Nota­r­janni, si avvale nei suoi scritti sulla for­miana regio, del pas­sato remoto e del pre­sente. Ingrao ricorre all’imperfetto. Perché?
Chie­dia­moci: che signi­fica paesaggio?
Una domanda tanto esi­gente sol­leva molte que­stioni. Per impo­stare una rifles­sione mi avvalgo della Pala della Annun­cia­zione, con i santi Ono­rato e Mauro di Cri­sto­foro Scacco, rea­liz­zata dall’artista pado­vano nel 1499 per la chiesa cat­te­drale di San Pie­tro a Fondi.
Nel com­parto di sini­stra della vene­rata tavola si con­tem­pla Sant’Onorato. Sostiene in palmo di mano il Castello baro­nale di Fondi. Ne rico­no­sciamo la invitta torre cilin­drica del maschio, eretto da pochi anni, quando Cri­sto­foro lo raf­fi­gura. Ed ecco, il santo pro­tet­tore lo eleva nello splen­dore dell’alto dei cieli, lo pre­serva nel tempo impe­ri­turo della glo­ria. Così la salma di Ono­rato aveva pre­ser­vato Fondi dal con­ta­gio di morte che incru­de­liva, nell’anno mille due­cento quin­dici di nostra sal­vezza. Ora custo­di­sce, intatto ed intan­gi­bile, il monu­mento epo­nimo della città. Una volta per sempre.
Simul­ta­nea­mente, qui, davanti a noi, nel castone d’un altro com­parto della Pala, por­tando noi lo sguardo tra le aeree quinte for­mate dai due corpi ange­lici, di là del pavi­mento della stanza di Maria, scor­giamo netti il Castello e il con­ti­guo Palazzo Cae­tani, deli­neati da Cri­sto­foro sur le motif, immersi nella dimen­sione dell’ora quo­ti­diana, pre­sente e viva. Ne sen­tiamo il suono. Ci giunge con le voci dei tre uomini appie­dati — il primo qual­che passo avanti — e del quarto, a cavallo, che, oltre­pas­sato l’arco get­tato a col­le­gare Palazzo e Castello — sotto il quale altri due vediamo indu­giare — pro­ce­dono ora lungo il muro donde ver­deg­giano al sole le fronde pri­ma­ve­rili di deli­cate piante, nel ven­ti­cin­que­simo giorno di marzo, a Fondi, poca gente in strada.
Il dipinto di Cri­sto­foro Scacco crea un «pae­sag­gio», com­bi­nando eter­nità e quo­ti­dia­nità lo pro­duce, lo col­loca di fronte a noi e lo affida alla nostra rece­zione. Si atte­sta come pae­sag­gio indu­cendo lo stato d’animo che alterna effi­mero ed eterno.
Veri­fi­chiamo nelle coor­di­nate della Pala dell’Annunciazione il tempo immu­ta­bile della glo­ria e il tempo tran­seunte dell’esistenza nostra accolti nello spa­zio della nostra rico­no­sci­bile dimora.
Pae­sag­gio si con­verte in dimora. Il luogo natale anima una iden­tità inte­riore par­te­ci­pata con altri in ter­mini tali, cor­ri­spon­denti tanto, da con­no­tare una con­di­visa appartenenza.
Nella pala di Cri­sto­foro Scacco, l’annuncio del Verbo che si fa carne fio­ri­sce in Glo­ria. Sovra­sta per un verso e per un verso risiede, si accampa. Quell’accadimento epo­cale innalza al cielo il Castello nelle mani di sant’Onorato e si appog­gia, tocca terra nel Castello di Fondi e nel Palazzo Cae­tani, lungo il recinto del giar­dino chiuso, abbiam visto. Effi­mero e permanente.
«La durata intrin­seca e spe­ci­fica della città, la sua inten­sità – ha scritto Rosa­rio Assunto – il tempo che in essa rap­pre­senta se stesso nello spa­zio, anzi come spa­zio; la suc­ces­sione che nella città si capo­volge in simul­ta­neità. Il tempo della città, la durata della città, la sua suc­ces­sione, è il tempo della sto­ria, la suc­ces­sione e durata della sto­ria. Epo­che ed eventi, isti­tu­zioni, e cre­denze, e costumi, e cul­ture suc­ces­sive, che diven­tano simul­ta­nee nella imma­gine spa­ziale della città».
Chi sia nato a Fondi, ogni qual volta volga lo sguardo alla torre del Castello, sa di sof­fer­marsi là dove si sono pog­giati gli occhi dei suoi per anni e anni, i vivi e i morti: «vive insieme – dice Assunto – il pre­sente e il pas­sato: istanti nei quali l’oggi con le sue cure e i suoi inte­ressi e le sue attese è insieme se stesso e una età remota: quella delle costru­zioni che ci attor­niano, del trac­ciato che per­cor­riamo». Men­tre tra­scorre le ingial­lite pie­tre dell’imponente antica fab­brica, quel suo sguardo dise­gna un’architettura della mente, con­duce a un edi­fi­cio che egli trova costruito den­tro sé stesso, lo invita ad attra­ver­sare le vaste aule che in cia­scuno di noi si aprono secondo una suc­ces­sione di ambienti, una teo­ria di stanze quali Ago­stino per primo, forse, ci indusse a visi­tare: noi, esor­tati ad aggi­rarci par­te­cipi nei tran­siti della nostra memoria.
«Grande – dice Ago­stino — è que­sta potenza della memo­ria. Ammi­rare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le cor­renti amplis­sime dei fiumi, la cir­con­fe­renza dell’Oceano, le orbite degli astri den­tro di me, nella memo­ria tanto estesi come se li vedessi fuori di me».
Spe­cu­lare osser­vando, «ospi­tare nella mente», intus in memo­ria mea, con l’attitudine di chi voglia inten­dere il mondo in un con­tatto libero da ragioni stru­men­tali e mosso, invece, da pres­santi domande intorno a un suo arduo signi­fi­cato. È que­sto un sen­ti­mento che Ingrao cono­sce bene, costante in lui nel corso degli anni e più volte acco­stato in forma dilem­ma­tica alla dimen­sione ope­ra­tiva e tra­sfor­ma­trice che ha ani­mato il suo impe­gno poli­tico. Fino a dare un senso di inter­ro­ga­zione e pro­ble­ma­ti­cità ai medi­tati bilanci e alle intense rifles­sioni che Ingrao ha dedi­cato alle vicende del comu­ni­smo dopo il 1945. In una delle con­ver­sa­zioni, delle quali ho avuto modo di far cenno, Ingrao torna, sul filo della memo­ria, alla casa natale e ai luo­ghi della sua prima infan­zia, a Lenola.
Riguardo ai signi­fi­cati rac­chiusi negli sti­lemi del pae­sag­gio ai quali Ingrao, con par­ti­co­lare pre­di­le­zione, anche in que­sta pagina ricorre, uno, e di rile­vanza spe­ciale, pare con­den­sato in frasi come «si for­mu­lava per me la par­venza dell’isola come un da rag­giun­gere. Un da rag­giun­gere che emer­geva e sva­niva sul filo dell’orizzonte».
Le cose impos­si­bili, titolo d’uno dei libri di Ingrao sono le «cose» che tra­ve­diamo, che tra­guar­diamo come oltre. L’oltre, una costru­zione della mente che finge inter­mi­nati spazi e, poi­ché dispone lo spa­zio effet­tuale ad una deter­mi­nata com­po­si­zione pro­spet­tica, fa, del luogo sen­tito come aper­tura a un da rag­giun­gere, un paesaggio.
Mobili nell’indurre, nel con­fi­gu­rare un oltre i per­si­stenti fon­dali auso­nii di Ingrao. Come nella antica pala d’altare di Cri­sto­foro Scacco, il pae­sag­gio nella pagina di Ingrao si apre ad acco­gliere, nella descri­zione di un luogo deter­mi­nato, una posi­zione dell’animo e della mente, della cono­scenza e della emo­ti­vità, cioè dello spirito.
Una natura allu­siva dun­que, nelle sue parole, quella del pae­sag­gio natale. Allude alla com­bi­na­zione di pre­sente e di pas­sato. Quo­ti­diano e memo­ria. Il qui e l’oltre.
V’è per certo un para­digma che mostra con per­fetta evi­denza i nessi tra pre­sente attuale e pre­sente inat­tuale, tra atto della Glo­ria e attuo­sità della deter­mi­na­zione quo­ti­diana, nel giorno per giorno della vita di ciascuno.
Tale para­digma, raf­fi­na­tosi lungo i secoli nell’ordine teo­lo­gico, ha for­nito un para­me­tro costante di valenza poli­tica alle istanze di libe­ra­zione intese ad affer­mare l’integrale dignità di cia­scuno e di tutti.
Si dice che tali ragio­na­menti por­tano inu­til­mente lon­tano, che ci allon­ta­nano dalla effet­tiva, con­creta con­di­zione del nostro esi­stere. Dovremmo, invece, credo, e al con­tra­rio, con­ve­nire che que­sti ragio­na­menti ci man­ten­gono vicini a noi stessi.
Si dice «pae­sag­gio», e, con pae­sag­gio, troppo di fre­quente, si intende una mera con­for­ma­zione della natura, un sito. Ma il pae­sag­gio sito non è. Pae­sag­gio è dimora. E dimora è una deter­mi­na­zione dello spi­rito. Ogni vio­lenza cieca che alla dimora, al pae­sag­gio, sia recata, come con­sta­tiamo ogni giorno, sfi­gura e viola e, infine, è noi che uccide. Noi, il pae­sag­gio inte­riore, quella cogni­zione dei tempi che con­fe­ri­sce senso ai luo­ghi, la stessa che si dà in figura di luogo alla nostra con­sa­pe­vo­lezza. La dimora, ove con­ver­gono e si custo­di­scono per­ma­nenza di memo­ria ed esi­stenza, ovvero cor­ri­spon­denza di affetti e costrutti di senso.
Pie­tro Ingrao è un uomo che si con­fronta con cru­deli acca­di­menti nel corso della sua lunga vita, mosso da una deter­mi­na­zione attiva, da una par­te­ci­pa­zione appas­sio­nata ai casi del suo tempo.
Nella fedeltà al pae­sag­gio, l’ager for­mia­nus, la dimora che con tanta inten­sità sente sua, Ingrao, se la let­tura che abbiamo qui svolta non è errata, richiama alla respon­sa­bi­lità che la dimora con­ser­vata entro di noi comporta.
In essa è un lie­vito che ali­menta lo spi­rito di libertà al quale Ingrao impronta la sua vita.

Fonte: il manifesto

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.