La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 27 settembre 2015

Storia di Pietro. A che ora è il comunismo

di Leonardo Paggi
Nella sto­ria del comu­ni­smo ita­liano Ingrao si distin­gue incon­fon­di­bil­mente per l’enfasi che pone su due aspetti della via ita­liana al socialismo.
In primo luogo la con­sa­pe­vo­lezza che le sorti della demo­cra­zia sono sem­pre affi­date non alle pro­ce­dure ma ai rap­porti di forza. E’ que­sto il nucleo auten­ti­ca­mente machia­vel­lico del pen­siero di Togliatti che dall’andamento cata­stro­fico della prima metà del 900 ha rica­vato la con­vin­zione che nes­suna con­qui­sta del movi­mento ope­raio possa essere con­si­de­rata acqui­sita una volta per tutte. L’attenzione che Ingrao porta ai movi­menti sociali non è «movi­men­ti­smo» (come gli viene spesso rim­pro­ve­rato), ma con­sa­pe­vo­lezza che solo nel con­flitto sta la pos­si­bi­lità di accu­mu­lare nuove risorse poli­ti­che indi­spen­sa­bili per una stra­te­gia di lunga lena.
Nello stesso tempo, ancora una volta come nel Togliatti mem­bro della Costi­tuente, c’è una atten­zione costante ai pro­fili isti­tu­zio­nali della forma della rap­pre­sen­tanza e della forma di governo, ossia una grande con­sa­pe­vo­lezza del ruolo che la forma giu­ri­dica può svol­gere nell’esito del con­flitto sociale.
Credo tut­ta­via che se vogliamo ono­rare Ingrao, ossia andare ad una con­si­de­ra­zione non solo cele­bra­tiva e di maniera del suo pro­filo intel­let­tuale e poli­tico, sia giu­sto met­terlo a con­fronto con la grande dif­fi­cile sfida che si pro­fila alla metà degli anni Set­tanta, quando improv­vi­sa­mente si arre­sta il cir­colo vir­tuoso tra svi­luppo capi­ta­li­stico, cre­scita del movi­mento ope­raio e allar­ga­mento della demo­cra­zia, e la crisi di iden­tità del par­tito comu­ni­sta che ne deriva comin­cia a riflet­tersi spe­cu­lar­mente nella crisi di sta­bi­lità della repub­blica. Con il «com­pro­messo sto­rico» Ber­lin­guer ha evo­cato la pos­si­bi­lità di una avven­tura rea­zio­na­ria. Ma all’orizzonte si affac­cia qual­cosa di molto più radi­cale del tin­tin­nare delle scia­bole. Per usare il lin­guag­gio di Mon­tale, la sto­ria cam­bia ora di binario.
Non è facile rias­su­mere in breve quella cesura pro­fonda nella sto­ria del capi­ta­li­smo inter­na­zio­nale, che è anche in qual­che misura fine del lungo dopo­guerra. Per rima­nere ai ter­mini di una ana­lisi essen­zial­mente eco­no­mica, eppure den­sis­sima di impli­ca­zioni poli­ti­che, si può dire che l’obbiettivo sto­rico della piena occu­pa­zione viene retro­cesso rispetto a quello della lotta all’inflazione. Le gran­dezze mone­ta­rie comin­ciano a coman­dare gli anda­menti della eco­no­mia reale. Cosa vuol dire que­sto per il movi­mento ope­raio? Che le lotte riven­di­ca­tive che fino a ieri hanno frut­tuo­sa­mente spinto per un allar­ga­mento del mer­cato interno e per l’attuazione di riforme sociali che tar­di­va­mente hanno alli­neato l’Italia allo stan­dard euro­peo di stato sociale, sono improv­vi­sa­mente dichia­rate incon­gruenti e nocive. (…)
Fa la sua prima appa­ri­zione il vin­colo esterno come nuovo, cru­ciale pro­ta­go­ni­sta poli­tico, che deriva la sua forza dal pre­sen­tarsi come risul­tante di una pre­sunta asso­luta e indi­scu­ti­bile ogget­ti­vità eco­no­mica. (…)
Il lin­guag­gio del Pci è chia­mato a fare i conti con uno sce­na­rio radi­cal­mente mutato. Secondo Ingrao la fase in corso, è con­tras­se­gnata da «l’inceppo com­ples­sivo nei mec­ca­ni­smi con cui lo stato assi­sten­ziale tende a con­trol­lare e a gover­nare la vita delle masse». Si tratta di una crisi di ege­mo­nia, egli dice espres­sa­mente, che in quanto tale apri­rebbe la pos­si­bi­lità di equi­li­bri più avanzati.
Da qui la pro­po­sta di una terza via, oltre il fal­li­mento di comu­ni­smo e social­de­mo­cra­zia. L’indicazione non supe­rerà la soglia di una vaga sug­ge­stione, senza riu­scire a tra­dursi in con­cre­tezza pro­gram­ma­tica. Eppure, che le poli­ti­che key­ne­siane non siano più appli­ca­bili, che lo stato sociale diventi sem­pre più one­roso per i costi cre­scenti del debito, e così via, non è cosa che riguardi solo le social­de­mo­cra­zie. Frana anche il ter­reno su cui il Pci, e il sin­da­cato, hanno costruito il rap­porto tra riven­di­ca­zioni e riforme (…).
Insomma il par­tito comu­ni­sta, ad onta dei suoi col­le­ga­menti inter­na­zio­nali che ne hanno segnato la indub­bia diver­sità, ha avuto suc­cesso nella misura in cui ha saputo bene­fi­ciare delle stesse con­di­zioni che hanno favo­rito il movi­mento ope­raio euro­peo. Ed è esso stesso inve­stito dalla crisi nel momento in cui quelle con­di­zioni ven­gono meno. E’ quanto l’ipotesi della terza via sem­bra non volere accet­tare.
Mi spiego anche con la man­canza di un con­fronto rav­vi­ci­nato con i pro­blemi strin­genti insorti con lo shock degli anni Set­tanta il fatto che la sini­stra comu­ni­sta non rie­sca a con­tra­stare la cul­tura del post­co­mu­ni­smo che comin­cia ora a pren­dere piede all’interno del par­tito e del sindacato.
Con la voca­zione nazio­nale della classe ope­raia il post­co­mu­ni­smo giu­sti­fica l’accoglimento della poli­tica di mode­ra­zione sala­riale richie­sta, in nome del vin­colo esterno, dalla Con­fin­du­stria di Guido Carli. Natu­ral­mente le poli­ti­che dei red­diti sono parte inte­grante della espe­rienza social­de­mo­cra­tica, ma sem­pre nel più vasto qua­dro di accordi com­ples­sivi sull’andamento delle gran­dezze macroe­co­no­mi­che. Il tratto sin­go­lare di que­sta ver­sione post­co­mu­ni­sta della poli­tica dei red­diti sta nell’assenza di garan­zie o con­tro­par­tite di alcun tipo. C’è solo la pre­sun­zione azzar­data, priva di qual­siasi sup­porto teo­rico e poli­tico, che sia suf­fi­ciente ridare spa­zio al pro­fitto, a sca­pito del sala­rio, per avere più inve­sti­menti e quindi più occu­pa­zione(…)
Que­sta idea poli­ti­ca­mente sui­cida, oltre che priva di ogni fon­da­mento di teo­ria eco­no­mica, che il peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni con­trat­tuali e retri­bu­tive del lavoro sia un pas­sag­gio neces­sa­rio per la ripresa eco­no­mica arriva come è noto fino ad oggi.
Suc­ces­si­va­mente, negli anni Novanta, la cul­tura del post­co­mu­ni­smo si eser­ci­terà essen­zial­mente nel vei­co­lare una visione total­mente acri­tica del pro­cesso di uni­fi­ca­zione europea.
La filo­so­fia del Trat­tato di Maa­stri­cht, costruita attorno alla cen­tra­lità del mer­cato, è fron­tal­mente con­trap­po­sta alla filo­so­fia della nostra Costi­tu­zione, costruita attorno alla cen­tra­lità del lavoro. Ma tutti pre­fe­ri­scono fare finta di nulla.
Ancora Guido Carli, che firma il Trat­tato in qua­lità di Mini­stro del Tesoro, scrive nelle sue memo­rie: «Ancora una volta si è dovuto aggi­rare il Par­la­mento sovrano della Repub­blica, costruendo altrove ciò che non si riu­sciva a costruire in patria… ancora una volta dob­biamo ammet­tere che un cam­bia­mento strut­tu­rale avviene attra­verso l’imposizione di un vin­colo esterno» (…).
Il con­fronto più rav­vi­ci­nato che Ingrao impe­gna con il post­co­mu­ni­smo si svi­luppa tut­ta­via nella let­tura della crisi del sistema poli­tico repub­bli­cano che esplode visto­sa­mente negli anni Ottanta. A que­sto pro­po­sito il suo scam­bio di let­tere con Nor­berto Bob­bio pub­bli­cato da Maria Luisa Boc­cia, Alberto Oli­vetti e Luigi Fer­ra­joli, costi­tui­sce un docu­mento di grande inte­resse storico.
Riletti oggi, gli inter­venti di Bob­bio col­pi­scono per una certa loro arro­ganza intel­let­tuale. L’intenzione è quella di azze­rare, desti­tuen­dole di ogni signi­fi­cato, le parole chiave di un intero les­sico poli­tico che è, sì , quello dei comu­ni­sti ita­liani, ma in misura non secon­da­ria anche quello della Costi­tu­zione, non a caso nata all’unisono con la cul­tura della stato sociale, domi­nante in Europa dopo la seconda guerra mondiale.
Affer­mare che l’unico lin­guag­gio dotato di signi­fi­cato con­creto è quello dello stato di diritto, per cui la libertà si defi­ni­sce solo in nega­tivo, signi­fica met­tere in mora l’articolo 3 della Carta. Bob­bio se la prende con il ter­mine «masse». Ma il tratto incon­fon­di­bile della demo­cra­zia euro­pea rinata con il 1945, dopo il fal­li­mento cla­mo­roso degli anni Venti e Trenta, è stato quello di rea­liz­zare la piena inte­gra­zione del movi­mento ope­raio, che è per l’appunto un movi­mento di massa. Il caso ita­liano pre­senta par­ti­co­la­rità solo per gli effetti di esclu­sione impo­sti dalla guerra fredda, ma non costi­tui­sce una ecce­zione rispetto a que­sto più com­ples­sivo per­corso storico.
Si denun­cia poi la poli­tica di unità come impos­si­bile alter­na­tiva al «modello West­min­ster» della alter­nanza. Ma nella sto­ria del comu­ni­smo ita­liano il tema nasce da una rifles­sione sui peri­coli poli­tici insiti in una stra­ti­fi­ca­zione eco­no­mica e sociale segnata da frat­ture e con­trad­di­zioni pro­fonde. Pro­ce­dendo su que­sta strada Bob­bio vuole met­tere nell’angolo, in puni­zione, anche Anto­nio Gram­sci. Per­ché ricor­rere al con­cetto fumoso di ege­mo­nia quando il dispo­si­tivo elet­to­rale basta a dirci chi ha il con­senso e chi no? A que­sto punto le rispo­ste di Ingrao si fanno di neces­sità dida­sca­li­che : il con­senso elet­to­rale della Dc non è facil­mente spie­ga­bile senza il ruolo della Chiesa, senza il con­trollo di tutte le isti­tu­zioni che fun­gono da volano dello svi­luppo, senza la gestione ad libi­tum del bilan­cio pubblico.(…)
Per­ché allora misu­rare i pro­blemi poli­tici di una società di capi­ta­li­smo maturo con il costi­tu­zio­na­li­smo di primo Otto­cento, con «la libertà dei moderni» di Ben­ja­min Con­stant? Siamo dinanzi ad una scelta tutta poli­tica. La gover­na­bi­lità, si pensa, può e deve essere garan­tita con la ridu­zione della com­ples­sità, con un espli­cito ritorno allo sta­tuto. Ma alleg­ge­rire così visto­sa­mente la respon­sa­bi­lità e vor­rei dire la com­plessa carica seman­tica del les­sico demo­cra­tico signi­fica inco­rag­giare la sepa­ra­zione della poli­tica dalla società civile, ossia spin­gere di fatto in dire­zione della casta. Non a caso al cen­tro della pro­po­sta di Bob­bio sta la riforma della legge elet­to­rale. Lo scopo è quello di fare arre­trare il potere dei par­titi con mec­ca­ni­smi di inge­gne­ria isti­tu­zio­nale, senza riflet­tere sulle ragioni di una crisi che si ori­gina nei mutati rap­porti con la società e con lo stato.
La tesi di Bob­bio sarà lar­ga­mente vin­cente. In un clima di attacco sem­pre più gene­ra­liz­zato al par­tito di massa, le con­di­zioni dell’alternanza sono, con il cam­bia­mento del nome, il tema che più di ogni altro carat­te­rizza lo scio­gli­mento del Pci.
Il tema della riforma elet­to­rale, di cui stiamo vivendo ora una pre­oc­cu­pante rie­di­zione, è insomma nel Dna di que­sto par­tito, che fin dalla sua costi­tu­zione punta deci­sa­mente ad una modi­fi­ca­zione di tratti fon­da­tivi della repub­blica par­la­men­tare.
Credo sia giu­sto ricor­dare che Ingrao è l’unico mem­bro del gruppo diri­gente comu­ni­sta che fin dagli anni Set­tanta con­tra­sta aper­ta­mente l’offensiva di Bob­bio su Gram­sci e sul pro­blema isti­tu­zio­nale. Altri l’accolgono come libe­ra­to­ria, por­ta­trice di lai­cità e moder­nità, sti­molo utile per eman­ci­parsi dalle vec­chie iden­tità del passato.
La rispo­sta di Ingrao sta nella difesa a oltranza della cen­tra­lità del par­la­mento. Fer­ra­joli ha già messo in evi­denza quanto forti siano nelle sue ana­lisi di allora le pre­mo­ni­zioni della crisi in cui versa oggi la nostra demo­cra­zia. La sua debo­lezza, invece, mi sem­bra con­si­stere nel fatto che la ripro­po­si­zione di quel tema non si fa carico di un fatto nuovo. Ossia la crisi della forma par­tito su cui invece insi­ste con toni sem­pre più aper­ta­mente liqui­da­tori la cul­tura del libe­ra­li­smo ristretto ora ricor­data.
E’ que­sta la vera chiave per leg­gere il dibat­tito isti­tu­zio­nale degli anni Ottanta. In effetti la cen­tra­lità del par­la­mento voluta dal costi­tuente implica come corol­la­rio neces­sa­rio l’esistenza di par­titi che pur nascendo nelle pie­ghe della società civile siano capaci di tra­scen­derla, supe­rando il con­di­zio­na­mento degli inte­ressi sezio­nali. Se nel modello libe­rale, che allora viene ripro­po­sto in toto, il par­tito è fonte di disgre­ga­zione, nel modello demo­cra­tico è risorsa essen­ziale per la for­ma­zione dell’indirizzo di governo. Solo con par­titi capaci di svol­gere la fun­zione di sin­tesi il par­la­mento può dive­nire il luogo in cui prende corpo un pro­cesso legi­sla­tivo spe­dito ed efficace.
Ingrao pro­pone l’abolizione del Senato come rispo­sta alla cre­scente insi­dia cor­po­ra­tiva, ma non si misura a suf­fi­cienza con que­sto più grave tema sottostante (…).
Certo il 1989 rap­pre­sentò un pas­sag­gio arduo, anche sul piano inter­na­zio­nale. Emma­nuel Levi­nas disse nel 1992: «Il dramma è che la fine del comu­ni­smo è la ten­ta­zione di un tempo che non è più orien­tato. Noi siamo abi­tuati da sem­pre a con­si­de­rare che il tempo va da qual­che parte… ed ecco che oggi si ha l’impressione che il tempo non vada più da nes­suna parte». Oggi è più facile vedere come la pro­spet­tiva di un futuro pos­si­bile, entro cui for­mu­lare la domanda «che ora è ?», può essere arti­co­lata poli­ti­ca­mente, lai­ca­mente, senza il sup­porto del mito, ma sulla base di un pro­gramma dotato di una forte coe­renza intel­let­tuale e politica.
Quanto pub­bli­cato sono alcuni pas­saggi, a nostro avviso i più signi­fi­ca­tivi, del testo scritto da Leo­nardo Paggi in occa­sione della cele­bra­zione che si svolge oggi alla Camera dei Deputati.

Fonte: il manifesto

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