La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 27 settembre 2015

Storia di Pietro. Quella rottura che ancora ci interroga

di Alfredo Reichlin
Comin­cio così col ricordo di quel grup­petto di gio­vani poco più che ven­tenni i quali costi­tui­vano la reda­zione dell’Unità che final­mente usciva alla luce del sole: estate del 1944, una Roma libe­rata dai fasci­sti, esul­tante di gioia , pul­lu­lante di idee e di spe­ranze ma popo­lata anche da “bor­sari neri” e “signo­rine”. In uno di quei giorni arrivò un gio­vane diri­gente con un curioso accento cio­ciaro. Era Pie­tro Ingrao. Fu per me come un vento nuovo rispetto ai “mostri sacri” che veni­vano da Mosca e dall’esilio.
(… ) Che tipo di comu­ni­sti erano quei gio­vani? Essi non veni­vano da Mosca. Si erano for­mati sui libri, sulle espe­rienze e le inquie­tu­dini di quell’Italia che già si muo­veva sotto la pelle del fasci­smo e che si rivelò di colpo dopo la libe­ra­zione con i film di Visconti e Ros­sel­lini, i qua­dri di Gut­tuso e di Mafai, le poe­sie di Mon­tale, i romanzi di Mora­via e la casa Einaudi. Quei gio­vani veni­vano da sto­rie molto diverse. Che cosa c’era alla base di una mobi­li­ta­zione etico-politica, così intensa e così radi­cale? C’entrava poco il mito sovie­tico, con­tava mol­tis­simo quello che scrisse Giaime Pin­tor nell’ultima let­tera al fra­tello e che anche Pie­tro ci ha detto tante volte: il dovere asso­luto di sal­vare l’Europa dalla bar­ba­rie hitle­riana. La nascita dell’antifascismo come grande cor­rente politico-ideale europea.
A cia­scuno di quei gio­vani Vit­to­rio Foa avrebbe potuto rivol­gere la domanda che in tempi più recenti pose anche a me. Ma voi cre­de­vate dav­vero nella rivo­lu­zione? In effetti di “rivo­lu­zione” tra i grandi Capi del Pci non si par­lava mai. Si par­lava molto però e con enorme pas­sione, della lotta per cam­biare il tes­suto pro­fondo, anche cul­tu­rale e morale, del paese.
(…) Que­sta fu la sua grande pas­sione. Immer­gersi nell’Italia vera, ade­rire a “tutte le pie­ghe della società”. Aprire una sezione comu­ni­sta accanto ad ogni cam­pa­nile. E que­sta pas­sione io non l’ho vista in nes­suno così assil­lante come in Pie­tro Ingrao. Il suo comin­ciare non per caso da capo-cronista. La cro­naca dell’Unità tra­sfor­mata in una spe­cie di labo­ra­to­rio per la sco­perta del mondo del sot­to­suolo e dei bas­si­fondi di Roma. Le grandi inchie­ste su Tibur­tino III, Pie­tra­lata, Val Mela­nia, auten­tici lager, informi barac­co­poli in cui il fasci­smo aveva rele­gato all’estrema peri­fe­ria la mano­va­lanza mise­ra­bile venuta a Roma per costruire i monu­menti del regime. Così io comin­ciai a capire che cosa doveva essere un gior­nale di sini­stra, il cui pro­blema non erano i retro­scena del “palazzo” ma la sco­perta dell’Italia vera, con le sue mise­rie, le sue tra­ge­die, le sue violenze.
Del resto sono cose come que­ste che spie­gano quello strano impa­sto che fu il Pci. Due milioni di iscritti, la mag­gio­ranza degli intel­let­tuali. Su che base si raduna que­sto popolo? Non credo che basti il mito del socia­li­smo, e nem­meno il ruolo che i comu­ni­sti ave­vano avuto nella guerra par­ti­giana. Penso che dob­biamo andare più indie­tro, al modo come si è andato for­mando lo Stato uni­ta­rio, alle sue basi ristrette, all’esclusione delle grandi masse povere, alla frat­tura pro­fonda fra popolo e intel­let­tuali. Per­ché è in que­sto più ampio qua­dro sto­rico che si trova la spie­ga­zione di quell’impasto sin­go­lare che fu la for­ma­zione del gruppo diri­gente del Pci. La con­vi­venza di per­so­na­lità così diverse tra loro: Ingrao e Amen­dola Sec­chia e Di Vit­to­rio, Ber­lin­guer e Napo­li­tano. Il modo come la pic­cola schiera così carica di glo­ria e di auto­rità poli­tica e morale che usciva dalle car­ceri e dai lun­ghi anni del Comin­tern si mischiò con l’altra schiera, quella dei gio­vani cre­sciuti sotto il fasci­smo e pas­sati attra­verso la Resi­stenza. Ciò che avvenne non era un sem­plice inne­sto del nuovo nel vec­chio tronco bol­sce­vico ma la rifon­da­zione di un nuovo partito.
Di qui l’assillo togliat­tiano di col­ti­vare il rap­porto con i gio­vani vis­suti in Ita­lia, sotto il fasci­smo. Ingrao ne sa qual­cosa e anch’io ne sono testi­mone. Cro­ni­sta par­la­men­tare, appena ven­tenne, la sera, dopo la seduta della Costi­tuente, mi capi­tava di essere invi­tato da Togliatti a man­giare insieme a lui e a pochi altri come Ingrao i filetti di bac­calà in qual­che oste­ria intorno a Mon­te­ci­to­rio. Era curioso di tutto. Ci som­mer­geva di domande, cer­cava di rivi­vere quella vita quo­ti­diana dell’Italia che da venti anni gli era sco­no­sciuta. Lo dico per­ché a me pare che la scelta di Pie­tro Ingrao come diret­tore dell’Unità non fu una deci­sione come tante altre. Su di lui Togliatti fece affi­da­mento per una ope­ra­zione poli­tica e cul­tu­rale molto inno­va­tiva: fare dell’organo del Pci un grande gior­nale popo­lare moderno sia nel senso della dif­fu­sione di massa che della capa­cità di dare conto di tutti gli aspetti della vita sociale: dalla poli­tica alla cul­tura, dalle cro­na­che cit­ta­dine, com­presa la cro­naca nera, lo sport, le cor­ri­spon­denze inter­na­zio­nali. Il modello a cui dovete guar­dare –ci diceva– è il Cor­riere della Sera, non è la Pra­vda né l’Avanti delle vignette di Sca­la­rini con­tro i padroni. Noi non abbiamo biso­gno di un bol­let­tino di par­tito né di uno stru­mento solo di agi­ta­zione. Noi vogliamo far cre­scere una nuova classe diri­gente e que­sta non si forma se non cono­sce il mondo per quello che è.
E lì che si saldò con Ingrao un rap­porto par­ti­co­lare e ne sco­prii la com­ples­sità, il miscu­glio che è in lui di idee e di pas­sioni. La lunga vita di que­sto caro amico. Una vita ricca di svolte e di con­trad­di­zioni. Era un rigido custode delle regole di Par­tito ma poi in realtà emer­geva in lui il movi­men­ti­sta, la fac­cia popu­li­sta. Era un clas­sico fun­zio­na­rio di par­tito ma al tempo stesso ha cre­duto come pochi al ruolo delle isti­tu­zioni e il modo esem­plare come fece il Pre­si­dente della Camera lo atte­sta. Aveva dubbi su tutto ma come pochi era un grande tra­sci­na­tore di folle e ora­tore di piazze.
(…) Accadde così che colui che le dice­rie con­si­de­ra­vano il del­fino di Togliatti è lo stesso che comin­cia a sen­tire l’insufficienza della grande let­tura togliat­tiana dell’Italia come paese arre­trato in cui il com­pito sto­rico dei comu­ni­sti era risol­vere le grandi “que­stioni” sto­ri­che: il Mez­zo­giorno, la que­stione agra­ria, il rap­porto col Vati­cano. Que­sta let­tura, nell’insieme, non riu­sciva più a dare conto delle tra­sfor­ma­zioni che comin­cia­vano a cam­biare radi­cal­mente il volto dell’Italia: il pas­sag­gio da paese agri­colo a paese indu­striale, una biblica emi­gra­zione che svuo­tava le cam­pa­gne del Sud, l’avvento dei con­sumi di massa, la rivo­lu­zione dei costumi. Si dica quello che si vuole, ma que­sta fu per me la sostanza del cosid­detto “ingrai­smo”. E tale memo­ria io la con­servo non avendo vis­suto né con­di­viso altre sue vicende. Ridotto all’osso quell’ingraismo fu l’assillo di spin­gere il Pci a misu­rarsi con la grande tra­sfor­ma­zione dell’Italia alla fine degli anni ’50.
Di qui l’idea di un nuovo “modello di svi­luppo” che impe­gnò Ingrao e i suoi amici. Un dibat­tito molto intenso oggi impen­sa­bile che coin­volse le nuove cor­renti sin­da­cali ani­mate da Bruno Tren­tin e si con­frontò con tutto ciò che si muo­veva sin nelle file cat­to­li­che (i dia­lo­ghi con Gal­loni, De Mita, i “pro­fes­so­rini”) e sia nel mondo intel­let­tuale che guar­dava a La Malfa della “nota aggiun­tiva”. E’ in que­sta tem­pe­rie che comin­cia il dis­senso che esplo­derà all’XI Congresso.
Con il diritto a mani­fe­stare pub­bli­ca­mente il dis­senso pro­cla­mato da Ingrao davanti ai dele­gati egli rompe quel vin­colo quasi sacrale in base al quale il ver­tice ristretto del par­tito si pre­senta unito all’esterno anche se al suo interno il con­fronto è a viso aperto, ma la regola è tale per cui nes­suno, nem­meno il lea­der, può sca­val­care la volontà di quel col­let­tivo: il mitico gruppo diri­gente comu­ni­sta. Poi c’è l’Ingrao della riforma delle isti­tu­zioni e delle rifles­sioni sulle nuove forme del potere e quindi del rap­porto con le masse e la crisi della demo­cra­zia. Si tratta di grandi squarci di pre­veg­genza. E poi via via il suo distacco accom­pa­gnato dalla fre­quen­ta­zione di un set­tore radi­cale dell’intellettualità di sini­stra. Poi la rot­tura con la svolta di Occhetto.
Il pro­blema che mi sono posto molte volte è capire fino a che punto la rot­tura del rap­porto di Ingrao col gruppo diri­gente comu­ni­sta, un rap­porto che fu stret­tis­simo e anche molto affet­tuoso con Togliatti costi­tui­sce un pro­blema che ci inter­roga. E ciò nel senso di capire il peso che ha avuto la sua scon­fitta nella vicenda del Pci. Ma su que­sto inter­ro­ga­tivo io mi fermo. (…)

Fonte: il manifesto 

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