di Alfonso Gianni
Lo scandalo Volkswagen ha molte sfaccettature e si presta a diverse considerazioni. Per cui è giusto che si continui a parlarne e che anzi qualcuno possa indagare sulla materia investito di poteri giudiziari. Ma questa volta non c’è un giudice a Berlino. Né purtroppo altrove. Vincenzo Comito in un articolo sul Manifesto di qualche giorno fa ha titolato mozartianamente “Così fan tutte”. È vero e questa è forse la prima lezione che si può trarre dall’affaire di Wolsburg. Un tempo si parlava della finanza come di un ambientaccio, frequentato da lupi di varia taglia e dimensione, pronti ad imbrogliarti sul Libor, come sul mercato dei cambi. Bertolt Brecht, citatissimo anche in tempi recenti, si domandava se era più criminale rapinare una banca o fondarla. Ora avviene che non solo l’economia di carta si è mangiata quella reale, ma ha travasato in essa i suoi vizi congeniti. L’imbroglio e il virtuale prevalgono sulla qualità e sul reale. Anche per ciò che concerne la quotatissima manifattura tedesca.
Certo. Un capitalista integralmente onesto sta solo nelle utopie calviniste e in qualche rarissima eccezione che appunto conferma una regola generale fatta di piccole e grandi miserie morali. Questo avviene ora con maggiore intensità perché il mercato dell’auto è da tempo un mercato sostitutivo più che accrescitivo.
Vi sono limiti ambientali e sociali che inibiscono il dilagare dell’uso dell’automobile e quindi della sua commercializzazione nel mondo intero. Se i primi possono essere aggirati truccando i dati – come è avvenuto in questo caso e continua ad avvenire in tanti altri con la complicità generale – i secondi sono strutturali. Né in Africa, né in tante amplissime zone del mondo le persone hanno un reddito che neppure lontanamente può fare loro sperare di diventare possessori di un’automobile. Né il capitalismo globalizzato accenna minimamente ad assottigliare le diseguaglianze. Anzi le dilata in continuazione, come, da ultimo, ci ha ben spiegato e documentato Thomas Piketty.
Vi sono limiti ambientali e sociali che inibiscono il dilagare dell’uso dell’automobile e quindi della sua commercializzazione nel mondo intero. Se i primi possono essere aggirati truccando i dati – come è avvenuto in questo caso e continua ad avvenire in tanti altri con la complicità generale – i secondi sono strutturali. Né in Africa, né in tante amplissime zone del mondo le persone hanno un reddito che neppure lontanamente può fare loro sperare di diventare possessori di un’automobile. Né il capitalismo globalizzato accenna minimamente ad assottigliare le diseguaglianze. Anzi le dilata in continuazione, come, da ultimo, ci ha ben spiegato e documentato Thomas Piketty.
Quindi la lotta della competitività nel campo dell’automotive avviene su un terreno relativamente ristretto. Appena un paese emergente apre i propri mercati ci si buttano a pesce. Quindi da un lato si cerca di sfondare laddove il mercato è già saturo con modelli innovativi (è il caso del motore a diesel negli Usa), dall’altro diventa feroce la competizione sui nuovi lembi di mercato che emergono. Non è forse un caso che la vicenda Volkswagen sia stata disvelata dall’Epa, l’agenzia statunitense incaricata dei controlli ambientali. Anche se qualche dietrologo punta di più sulla faida infinita tra i membri della famiglia Porsche – l’inventore del Maggiolino – e l’attuale management Volkswagen. Probabilmente gli Usa hanno voluto avvertire la Germania che non intendono assistere inerti al suo tentativo di affrontare da sola – asservendo l’Europa a questo disegno – le sfide della globalizzazione. La stessa ragione per cui, probabilmente, la Merkel come i suoi alleati, sapevano e tacevano.
Ma lo scandalo solleva un altro problema ancora più grosso, sia perché avviene alla vigilia del nuovo incontro internazionale di Parigi Cop21, dedicato all’abbassamento delle emissioni per diminuire il riscaldamento globale; sia perché sono in corso le trattative, peraltro segrete, per concludere un accordo di “libero scambio” fra le due sponde dell’Atlantico, il famoso Ttip. Serve agli Usa distruggere l’immagine di un’Europa virtuosa in materia ambientale, contrapposta ad un’America dalla manica più che larga e renitente a ogni forma di stringente accordo in questo campo.
Ma soprattutto, e questo riguarda in particolare il Ttip, lo scandalo Volkswagen ci dimostra ancora una volta – ce ne fosse bisogno – che il moderno capitalismo nel suo complesso, con accelerazioni e responsabilità dirette che dipendono dalle circostanze e dai momenti, non sopporta leggi e norme, né quelle dei singoli paesi in cui opera, né quelle contenute negli stessi trattati che firma. È proprio il caso della Germania in surplus esportativo da più di sei anni in barba ai vincoli del Trattato di Maastricht che invece viene fatto valere solo per chi sgarra sul debito. Nel trattato di libero scambio transatlantico si prevede che se la legislazione di un paese o di un ente locale entra in contraddizione con le esigenze esortative di una multinazionale, questa può fare ricorso e un minicomitato di “saggi” definito a livello internazionale può condannare l’istituzione elettiva a rivedere la propria normativa sulla materia. È la morte del diritto. È la legalizzazione dell’imbroglio, che fin qui è avvenuto per via pratica.
Ma le organizzazioni sindacali non hanno nulla da dire? Questo è il punto più delicato che la vicenda Volkswagen solleva. Infatti nell’industria tedesca, o meglio in parte di essa e certamente nella impresa di Wolsburg, vige la cosiddetta mitbestimmung, ossia la codeterminazione in virtù della quale i rappresentanti dei lavoratori siedono in un comitato di sorveglianza. La mitbestimmung è stata uno dei motivi di vanto dell’esperienza della socialdemocrazia tedesca, oggi peggio che opaca, proprio perché si basa non sull’assunzione del lavoro dentro la logica stretta dell’impresa – che è invece l’essenza del “marchionnismo” – ma sul riconoscimento di una dualità tra capitale e lavoro, dando però a quest’ultimo un ambito nel quale fare valere le sue ragioni anche sugli indirizzi e sulle scelte produttive. È lecito chiedersi e indagare su come è stata esercitata e se è stata esercitata, la sorveglianza in questo caso. Quello che è chiaro è che anche la mitbestimmung mostra la corda rispetto all'impresa, sia a fronte delle dimensioni multinazionali sia a fronte della costruzione di spazi extrasindacali ed extragiudiziali internazionali. Per queste ragioni lo scandalo Volkswagen pone interrogativi seri al movimento sindacale nel suo complesso, ma a quello tedesco ed europeo in particolare.
Fonte: Huffingtonpost.it
Originale: http://www.huffingtonpost.it/alfonso-gianni/volkswagen-uno-scandalo-che-non-stupisce_b_8202920.html
Originale: http://www.huffingtonpost.it/alfonso-gianni/volkswagen-uno-scandalo-che-non-stupisce_b_8202920.html
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