di Claudio Bazzocchi
Nell’orazione funebre per Pietro Ingrao, Alfredo Reichlin si è chiesto il perchè il gruppo dirigente postcomunista non abbia fatto il dovuto per preservare la storia dei comunisti italiani e oggi Emanuele Macaluso stigmatizza l’intervista di Renzi a Repubblica, in cui il segretario del PD rivendica tutto sommato come positivo, per il suo partito, il non avere storia.
Ora, io penso che non si tratti di essere stati capaci o meno di custodire una storia e che il problema non sia certo Renzi che arriva buon ultimo a infliggere ferite nel corpo già morto della sinistra postcomunista italiana.
Il problema stava nella tesi di fondo che animò la svolta occhettiana e che sia Macaluso sia Reichlin fecero propria certificando il suicidio loro e di un intero corpo partitico. La tesi era quella che voleva l’esperienza e l’ideologia dei regimi del socialismo reale come la fonte primaria della cultura e dell’azione politica dei comunisti italiani.
Inoltre, diceva ancora quella tesi, dal momento che Marx rappresentava il riferimento comune dell’esperienza italiana e di quella sovietica, PCI e comunisti dell’Est erano accomunati dalla crisi del marxismo, dal totalitarismo e dal suo crollo.
Quella tesi non considerava alcune cose che invece Macaluso e Reichlin – assieme a tutta la dirigenza del PCI – sapevano invece benissimo:
1) il marxismo italiano (assieme a quello occidentale che era cosa a sua volta diversa da quello italiano) non era la stessa cosa di quello sovietico, sia per il contributo straordinariamente originale del pensiero di Gramsci, sia per l’ambito italiano di pensiero che ha privilegiato nei secoli la concretezza della vita e lo sforzo della cultura materiale e civile per rispondere alla sfida della compenetrazione tra egoismo e bene pubblico;
2) il marxismo sovietico fu materialismo dialettico, cioè adorazione del dato e della dottrina come verità secolarizzata, quello italiano si caratterizzò come storicismo assoluto che criticava continuamente il dato e affidava al partito non tanto l’applicazione di un’ideologia quanto la crescita della consapevolezza di essere parte di un popolo, di una forza sociale che diviene conscia di sé e si libera solo nello scontro etico e politico con altre forze contrastanti. Solo così teoria e prassi si unificano, e il processo di liberazione procede dalla costruzione di un’autonoma visione del mondo che sappia diventare egemonica. Il realismo gramsciano è infatti incentrato sulla trasformazione sociale come fatto che si verifica se si è in grado di affrontare il corso del mondo, se si è capaci di immergersi nel destino, poiché si è sempre prodotti da determinate condizioni sociali, culturali e geografiche. Per Gramsci, allora, nessun automatismo di cambiamento procederà dalla struttura;
3) il comunismo italiano teorizza la compenetrazione tra classe e nazione e l’idea della vita italiana al socialismo proprio per rispondere alla concretezza della vita che necessita di un quadro simbolico legato all’esistenza e alle sue grandi domande. Dunque, tradizione e e identità nazionale servono per ancorare la passione civile e la lotta politica a quel quadro culturale e simbolico che non è solo prodotto dai dominanti ma è il risultato della concreta stratificazione di passioni, pensieri, tentativi, invenzioni e pietà popolare proprie della civiltà italiana, territorio per territorio;
4) Gramsci e Togliatti teorizzarono la funzione nazionale del partito (che è cosa ben diversa dal partito della nazione) proprio per affermare il ruolo del partito nella storia d’Italia, fuori da qualsiasi dottrina da applicare alla realtà come una lama violenta in grado di separare le classi, le culture, e il passato dal presente, un presente immobile e senza storia di una società “finalmente” libera;
5) il marxismo italiano si giovò di quella straordinaria concettualizzazione della “rivoluzione passiva” che è chiave di lettura fondamentale per pensare la complessità sociale e per provare a trasformarla nel lungo periodo, grazie al partito e al lavoro molecolare di compenetrazione tra Stato e società civile;
6) guarda caso, quella cultura di fondo riuscì a tenere assieme anime molto diverse tra loro e tenne alta nel nostro paese la sensibilità democratica e saldi i legami sociali nelle nostre regioni, nelle nostre città e nei nostri paesi in cui le sedi di partito erano non solo un presidio di democrazia ma anche di solidarietà, fratellanza e pietà popolare in diretta e feconda competizione con i campanili delle parrocchie.
Ecco, avevamo una storia da difendere, ma non per dire semplicemente che noi comunisti italiani eravamo diversi da quelli dell’Est o per mantenere una riserva di orgoglio delle nostre radici, ma per orientarci nel futuro, per avere ancora una cultura politica e non essere preda dell’americanismo consumista, della postdemocrazia, del leaderismo e della rinascita dei notabilati che stanno rifeudalizzando l’Italia utilizzando il marchio, il nome, dei vari partiti che partiti, ovviamente, più non sono.
Il vulnus di fondo, la vera ferita mortale, fu nella cultura della svolta occhettiana, in quel biennio nefasto e nero tra la fine dell’Ottantanove e l’inizio del 1991 in cui il PCI si dissolse e uccise qualsiasi speranza per il futuro, proprio perché decise di non avere più storia e cultura politica.
È brutto dire “ve l’avevamo detto”, ma è bello almeno dire: sono felice di essere stato, giovanissimo, assieme a grandi uomini e donne che in quel nefasto biennio di dissoluzione mi hanno insegnato a essere uomo e mi hanno lasciato in eredità un pensiero e una cultura.
Fonte: Essere Sinistra
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