di Gabriele Pedullà
Mai raccolte tutte assieme vivente l’autore, le novelle belliche di De Roberto costituiscono un corpus quanto mai disomogeneo dal punto di vista della qualità letteraria. Accanto a due racconti chiaramente molto deboli (Due morti e Il trofeo), ce ne sono almeno altri due di assoluto valore, come La posta e La retata (quest’ultimo probabilmente ispirato, nel suo revanscismo comico, a certi scritti brevi di Maupassant sulla guerra franco-prussiana come Compare Milon, Il duello o I prigionieri). Tra le novelle di De Roberto una però svetta nettamente su tutte le altre, La paura: senza dubbio uno dei vertici del racconto italiano dell’intero XX secolo.
Per quanto possa sembrare contro-intuitivo e persino paradossale (e tanto più in un tempo come il nostro, che illimitata fiducia ripone nello statuto privilegiato del testimone), l’essenza profonda del primo conflitto mondiale sembra non essersi mai rivelata come in queste pagine, scritte – senza mai abbandonare la Sicilia – da uno narratore che a quell’altezza in molti ormai consideravano un nobile relitto del secolo passato. Possibile che il romanziere che non ha mai assistito a una singola battaglia sia riuscito a cogliere la natura della guerra meglio dei tanti poeti-soldati che tra il 1915 e il 1918 avevano passato le loro giornate in trincea, facendo esperienza diretta, sulla propria pelle, della violenza senza precedenti delle nuove tecnologie belliche? Si stenta a crederlo, eppure è così: come per Omero e i poeti epici del mito, anche nel caso di De Roberto la perdita della visione sembra essere stata compensata con una speciale visionarietà che gli ha consentito si trascendere il mero dato di cronaca e di calarsi alla radice stessa dell’evento bellico.
Per molti versi La paura non è troppo diverso dagli altri otto racconti. I suoi ingredienti principali sono infatti gli stessi che troviamo anche nelle altre novelle belliche: la centralità assegnata all’ufficiale (e l’affratellamento ai suoi uomini nel sacrificio); la moltiplicazione dei dialetti parlati dai diversi fanti a seconda della regione d’origine; l’importanza del regolamento nella costruzione dell’intreccio; il colpo di scena finale… Persino le dimensioni sono quelle delle altre novelle di questi anni (una trentina di pagine). Tuttavia non è possibile non riconoscere anche un chiaro elemento di discontinuità: per la prima volta ne La paura la guerra non è sfruttata solo per osservare con maggiore chiarezza caratteri e comportamenti, ma costituisce il tema stesso del racconto.
Nel suo percorso di avvicinamento al fronte, De Roberto lavora in sottrazione, rinunciando a qualsiasi dettaglio accessorio. Una postazione essenziale dal punto di vista strategico ma collegata alla trincea italiana da un camminamento esposto al fuoco nemico; un plotone di soldati guidati da un tenente caritatevole; un cecchino nemico infallibile: sono questi, a voler essere sintetici, gli elementi attorno ai quali prende vita il dramma di De Roberto. Al nocciolo si arriva infatti solo per eliminazione di tutto quello che non è strettamente irrinunciabile: giudizi morali, psicologie, descrizioni. E lo stesso De Roberto aveva detto qualcosa di simile nella prefazione ai racconti di Processi verbali, che, a distanza di oltre trent’anni, offre un primo ritratto piuttosto fedele de La paura:
Se il lettore sfoglierà anche rapidamente questo volume, vedrà che tutte le pagine sono piene delle lineette indicatrici del dialogo; due o tre volte appena ho adoperato il dialogo indiretto. Le mie più lunghe descrizioni non oltrepassano le cinque righe e credo che non mi si possa addebitare un sol tratto di narrazione psicologica. In quasi tutte queste novelle c’è unità di tempo e di luogo; non l’unità rigida e spesso inverosimile della ribalta, ma quella che si può cogliere sulla scena del mondo.
A voler essere precisi ne La paura l’analisi psicologica non del tutto è assente e un paio di descrizioni superano (di poco) il numero di righe indicato da De Roberto; nel complesso, però, le parole del 1889 si adattano straordinariamente bene anche al nuovo racconto. Una indicazione soprattutto merita di essere presa in considerazione. Mentre, come abbiamo visto, gli altri racconti bellici di De Roberto insistono sulle connessioni e valorizzano la tensione tra il fronte e le retrovie,La paura punta invece dall’inizio sul sostanziale isolamento del plotone del tenente Alfani (un isolamento evidenziato ancora di più dagli sporadici e inutili contatti con il quartier generale). C’è l’uomo e c’è una montagna quanto mai inospitale (sicuramente non priva di richiami al Vesuvio messo in versi dal prediletto Leopardi ne La Ginestra). Ma rispetto al senso di apertura che dovrebbe comunicare il paesaggio alpino, la postazione presidiata dai soldati italiani possiede tutte le caratteristiche di un luogo chiuso e progressivamente sempre più asfittico. Di qui non si sfugge, sembra dirci De Roberto. E il riferimento della prefazione ai Processi verbali alla tragedia antica, con le sue unità di tempo e di luogo, suona da questo punto di vista assai pertinente.
La trasformazione delle vette alpine in un recinto claustrofobico che saremmo portati ad associare più facilmente ai drammi di Racine o di Alfieri condiziona tutto lo sviluppo successivo del racconto. De Roberto rifiuta in partenza qualsiasi romanticismo del conflitto ad alta quota; La paura, anzi, smentisce in anticipo un’idea destinata a diventare popolare soprattutto in Germania e in Austria ne corso degli anni Trenta, vale a dire che, in un conflitto chiaramente disumanizzato dalla tecnica, solo la «guerra bianca» avesse tenuto in vita l’eroismo tradizionale (e qui, a mero titolo di esempio, basterà una eloquente citazione da Guerra sulle Alpi di Fritz Weber, apparso in prima edizione tedesca nel 1934: «La guerra delle Dolomiti, quei combattimenti tra piccoli gruppi di uomini sperduti tra cielo e terra, costituisce un caso unico nella storia. Anche se fu fatto ricorso a tutti gli strumenti della tecnica moderna, restò sempre una lotta primordiale dell’uomo contro l’uomo, una lotta nella quale si inseriva la potenza superiore della natura e il furore degli uomini diveniva gesta di eroi»).
Niente di simile per De Roberto. Al contrario la morte, ne La paura, è associata a un’idea di meccanicità e di serializzazione industriale del tutto analoga a quella che aveva contraddistinto gli scontri nella pianura della Somme o sulle colline del Carso. Non ci sono mitragliatrici in campo (l’unica che viene nominata è di parte italiana, e non si è potuto installarla), ma poco importa: per quanto non ancora tecnologicamente aggiornata alle armi più moderne, con la sua precisione la carabina del cecchino austroungarico garantisce lo stesso effetto implacabile, come rileva inorridito il tenente Alfani («l’atroce ingranaggio ricominciava a funzionare […], il destino inesorabile doveva compiersi meccanicamente»). A un simile stillicidio nemmeno l’eroismo resiste. È probabile così che nella ideazione del proprio racconto De Roberto sia partito proprio dal finale, dove un soldato sino a quel momento famoso per i suoi atti di coraggio e addirittura decorato con una medaglia d’argento viene colto dal panico e rifiuta di obbedire agli ordini nonostante una simile risposta comporti per lui il rischio concretissimo di finire immediatamente davanti al plotone di esecuzione. È questo, con ogni evidenza, ciò che sta a cuore a De Roberto: il momento in cui la paura che dà il titolo alla novella assume una forma abnorme, così abnorme da vincere persino l’istinto di conservazione che, tra una morte certa e una morte solo probabile, dovrebbe spingere chiunque a optare cento volte su cento per la seconda. «Ma come?… Preferisci sei pallottole nella schiena ad una che può anche lasciarti vivo?», gli chiede senza successo il tenente. Su un piano puramente razionale il suo discorso non fa alcuna piega: per Morana è comunque meglio giocarsi la vita con il cecchino nemico. Ma a De Roberto interessa invece mettere in scena un sentimento talmente profondo e sconvolgente che non c’è calcolo dei pro e dei contro che abbia più presa sui personaggi. Per l’appunto: la paura.
Una catena di morti assurde, l’annientamento della volontà, la crisi di ogni possibile eroismo, una situazione senza vie d’uscita… Non doveva essere facile parlare in questi termini del conflitto che si era appena concluso. Ma è anche per questo che La paura è davvero uno dei capolavori dello scrittore. Uno che sicuramente se ne intendeva, Vitaliano Brancati, sin dal 1929 non aveva esitato a scrivere in proposito che, di tutta la produzione più tarda, «solo in una novella, scritta durante la guerra, La paura, ritroviamo il maggior De Roberto. Ma era troppo tardi per sperare un ritorno sulla via dei capolavori». Per Brancati, che al momento della tesi di laurea era al culmine della propria adesione al fascismo, si trattava di un giudizio eminentemente letterario: le opere pubblicate da De Roberto dopo la fioritura degli anni mirabili 1887-1894 non erano complessivamente all’altezza delle prove precedenti (un giudizio sul quale, ancora oggi, si riscontra una perfetta unanimità). Per i critici e gli scrittori che a partire dagli anni Sessanta si sono battuti per riscattare l’autore de I Viceré dal giudizio riduttivo con cui nel 1939 lo aveva liquidato Benedetto Croce, questa senilità precoce poteva essere interpretata però anche in chiave politica: il De Roberto più fiacco letterariamente era il De Roberto che negli stessi anni aveva sposato il credo nazionalista sino a concedere la propria adesione al fascismo con parole di alto apprezzamento. In questo quadro l’eccezionalità di un racconto come La paura poteva caricarsi di implicazioni più ampie. Se almeno in parte l’indebolimento della vena creativa di De Roberto era dovuto a questa svolta politica, come giudicare la comparsa inattesa e quasi fuori tempo massimo di un testo così perfetto? La risposta della critica è stata che nella La paura – il racconto che si apriva con una denuncia dell’«orrore della guerra» – bisognava leggere una presa di distanza dalle esplicite manifestazioni di sostegno alle forze nazionaliste: la prova che, negli stessi anni del progressivo avvicinamento a Mussolini, De Roberto era andato elaborando sul piano dell’arte gli anticorpi necessari per smentire i logori luoghi comuni patriottici di cui sono imbevuti gli altri suoi testi del periodo (novelle sulla Grande guerra comprese). Secondo questa interpretazione, con La paura De Roberto avrebbe insomma «contraddetto» le proprie stesse prese di posizione pubbliche, lasciando balenare nel possidente siciliano che guardava con simpatia ai movimenti politici dei reduci (e che di lì a poco avrebbe salutato con favore l’ascesa di Mussolini) una sorprendente inquietudine e una capacità di resistenza alle parole d’ordine del regime.
Poiché «contraddizione» è il vocabolo che probabilmente ricorre più spesso negli scritti su La paura apparsi negli ultimi cinquant’anni, è con questa parola che, per comodità, ci si può riferire all’insieme di letture che hanno opposto esplicitamente le due anime di un De Roberto non meno scisso al proprio interno di tanti doppi del romanzo ottocentesco. Ma – è lecito chiedersi – siamo proprio sicuri che sia andata davvero così? Nonostante il generale consenso riscosso da questa lettura, poiché si tratta di un punto centrale, vale la pena di riconsiderare tutti gli elementi ad uno ad uno. La tesi della «contraddizione» si fonda infatti su due punti cruciali: la chiara rappresentazione della guerra come «orrore», e i duri rimproveri (tanto più efficaci quanto più rapidi) rivolti agli alti comandi militari per la loro scarsa partecipazione alla sorte degli uomini al fronte. Su tutti e due i punti De Roberto è estremamente esplicito. La questione, dunque, non è stabilire se ne La paura la guerra sia orribile (dal momento che su questo De Roberto si pronuncia in maniera affermativa sin dalla frase di apertura), né se il racconto sia ferocemente ostile nei confronti delle alte gerarchie dell’esercito (seconda risposta affermativa). Si tratta, piuttosto, di capire se questi due aspetti implichino necessariamente una smentita (letteraria) delle posizioni politiche assunte in quello stesso giro di anni dall’autore. Detto in altre parole: per un nazionalista viscerale era possibile scrivere in termini così violenti del conflitto appena concluso e delle responsabilità degli ufficiali superiori? O invece – come la critica ha affermato sinora – tra il De Roberto narratore e il De Roberto intellettuale pubblico per il tempo di un racconto si è aperta davvero una crepa capace di far vacillare l’intero edificio? Dalla risposta che si darà a simili domande dipende il significato de La paura nel percorso intellettuale e politico dello scrittore catanese.
Partiamo dunque dall’«orrore della guerra». De Roberto non si fa nessuna illusione su quello che succede realmente al fronte. Anche un nazionalista acceso, occorre pensare dopo aver letto La paura, non coltiva per forza una visione ottusa e stereotipata della vita militare e delle privazioni del fronte – bande, fanfare, discorsi, mostrine, baionette scintillanti, ancora medaglie e ancora discorsi, sino all’epifania della dea Vittoria, alata e benedicente. Ma riconoscere l’enorme costo in termini di vite umane e di sofferenze di ogni conflitto armato significa per forza condannare la violenza in toto? Chiaramente no. È possibile ritenere che la guerra, ogni guerra, sia orribile, ma che non ci sia modo di eliminarla del tutto, esattamente come davanti a un male inscritto nei cicli naturali dell’esistenza (la grandine è sicuramente una sventura per il contadino, ma non esistono antidoti definitivi contro i brutti scherzi del cattivo tempo). È la posizione del pessimista scettico, che condanna i difetti inguaribili dell’animo umano e invita a non farsi troppe illusioni. Oppure, a partire dal medesimo riconoscimento dell’«orrore della guerra», è possibile pensare che ci siano guerre meno cattive delle altre, o addirittura buone: vale a dire che – ad alcune precise condizioni o in alcuni particolari momenti – abbracciare deliberatamente quell’orrore possa avere un senso. Per esempio, si può credere che la guerra ristabilisca la giustizia nei rapporti tra le nazioni, facendo trionfare i popoli forti sui popoli deboli; che tempri gli spiriti dei combattenti, migliorando la razza e selezionando la futura classe dirigente; che, per quanto tremenda, essa sia il migliore (e forse il solo) antidoto contro una rivoluzione sociale che poco prima del 1914 in tanti giudicavano ormai prossima. Sono tutte idee che troviamo ampiamente rappresentate nella opinione pubblica nazionalista alla vigilia del conflitto mondiale. E, ancora a proposito dell’«orrore», viene in mente l’articolo con cui il 25 dicembre 1915 il “Popolo d’Italia” diede solennemente annuncio ai propri lettori della pubblicazione a puntate del diario dal fronte del proprio direttore, Benito Mussolini: «È la guerra vista e vissuta giorno per giorno: la guerra con tutto il suo fascino strano e il suo orrore». Fascino e orrore: già.
I nazionalisti non erano però gli unici a pensare che fosse venuto il momento di imbracciare le armi: la stessa disponibilità si trova in questi anni sul versante opposto dell’emiciclo parlamentare. Tra i così detti interventisti democratici, certo, per i quali la guerra all’Austria doveva servire ad affermare il principio di nazionalità portando a far coincidere una volta per tutte i confini politici con i confini linguistici, etnici e culturali. Ma persino tra i repubblicani e i socialisti: persuasi che fosse necessario un ultimo scontro violento per porre fine a tutti i futuri conflitti (come nel caso di Pietro Nenni nel suo Vogliamo la guerra perché odiamo la guerra, “Lucifero”, 6 settembre 1914), o pronti a scommettere sul logoramento bellico come grimaldello per affrettare il tracollo finale del sistema di produzione capitalistico. Anche se spesso il confronto con la realtà del conflitto fu sconvolgente per quanti si erano battuti per l’intervento italiano, in molti casi nemmeno la durezza della vita di trincea sarebbe bastata a far cambiare loro idea sulla necessità di quella scelta. Come scrisse parecchi anni dopo Pietro Nenni, «sedici mesi ininterrotti di fronte, mettendomi a tu per tu con l’orrore della guerra e con la morte che era l’indivisibile compagna dei nostri giorni, non alterarono il mio convincimento sulla fatalità dell’intervento italiano» (Pagine di diario, 1947).
Simili posizioni riguardano direttamente La paura perché in quel periodo, con l’eccezione dei futuristi, portati a vedere nella guerra una grande festa dei sensi e ad apprezzarla nei suoi elementi gioiosi e persino giocosi, quasi tutti i sostenitori del conflitto, a destra come a sinistra, si mostrarono consapevoli di quello che De Roberto chiama l’«orrore della guerra», senza che tale chiara consapevolezza fosse bastata però a distoglierli dalla convinzione che per quell’“orrore” occorreva passare. Se nel discorso politico italiano del tempo, per le ragioni più diverse, la guerra venne dipinta anzitutto come un «farmaco» (stando alla bella definizione di Mario Isnenghi), in pochi dubitarono che si trattasse di una «medicina forte» (per dirla col Principe di Machiavelli): ovvero di una di quelle medicine pericolose e non prive di spiacevoli effetti collaterali che i sistemi più deboli, come si giudicava quello liberale, erano spesso restii a somministrare al corpo politico, ma che nelle situazioni più compromesse non bisognava aver paura di assumere, pena la degenerazione dell’organismo e la rovina finale.
L’orrore è e rimane l’orrore. Ma – nella prospettiva degli interventisti – ci sono orrori che possono e devono essere deliberatamente scelti in nome di un obiettivo più alto o sotto la spinta implacabile della necessità. La paura, così, mette in scena la guerra nei suoi aspetti meno digeribili ed edificanti, ma non la contesta mai in quanto tale. E in effetti, nonostante tutti i suoi dubbi e tutti i suoi scrupoli, il protagonista del racconto, il tenente Alfani, non suggerisce mai che ci si possa tirare indietro. Da un lato, lo sa, disubbidire agli ordini significherebbe per lui la corte marziale («Ora esitava, ora sentiva che quella consegna costava già troppe vite. Infrangerla? Assumersi la responsabilità delle conseguenze?… Il Consiglio di guerra, allora; il plotone di esecuzione… Ah, no! Una pistolettata nella tempia, prima!… O andare sulla piazzola, piuttosto: accorrere presso i caduti, piantarsi egli stesso al posto dei suoi soldati!»). A un livello più generale ancora, però, Alfani approva l’ordine che gli è stato impartito. Per quanti uomini siano già morti, il punto di osservazione è troppo prezioso perché lo si lasci senza alcun presidio. È quello che spiega ai suoi soldati: «O credete che si possa tralasciar la consegna perché i vostri compagni ci sono rimasti?… Se bersagliano la vedetta è segno che non vogliono esser visti, che preparano qualche colpo, che ammassano gente nel canalone, per piombarci addosso senza mandarcelo a dire, e massacrarci tutti quanti!». E, affinché non ci siano dubbi di sorta, poco più avanti De Roberto mostra con chiarezza che non si tratta di un mero argomento per convincere gli uomini della necessità di andare (per quanto Alfani speri fino all’ultimo in una deroga dall’alto che venga a fermare la strage): «l’insistenza con la quale tutte le ispezioni, dalle quotidiane del maggiore a quella passata due giorni innanzi dal generale brigadiere, avevano dimostrato l’estrema necessità della vigilanza all’imbocco del canalone» (Corsivo mio).
Riconoscere l’«orrore della guerra» non vuol dire insomma pensare per forza che ci siano delle alternative percorribili. La vera domanda, per De Roberto e per tanti come lui, sarà semmai stabilire quale lezione trarre da tanto orrore. Era qui, soprattutto, che dopo l’armistizio, a cose fatte, si giocava la partita politica. E le risposte potevano essere le più diverse. Per esempio, mentre De Roberto scriveva La paura, per il riformato Papini il trauma (indiretto) della guerra sarebbe diventato il vero motore della conversione al cattolicesimo. Come ebbe a scrivere ad Aldo Palazzeschi: «L’orrore ci ha insegnato quel che veramente siamo», intendendo con questa espressione: siamo dei cristiani (lettera del 9 luglio 1920). Nei racconti di De Roberto, invece, proprio l’incredibile asprezza della guerra, lungi dal farsi atto di accusa contro tutti i conflitti passati e futuri, è funzionale alla esaltazione di coloro che a essa avevano immolato la propria giovinezza – una posizione piuttosto diffusa nell’Italia dei primi anni Venti. Enfatizzare le sofferenze patite dai soldati significava infatti mettere morti, feriti e mutilati sul piatto della bilancia per influenzare le decisioni del traballante sistema liberale e possibilmente abbatterlo, come stavano cercando di fare la associazioni di reduci, Fasci di Combattimento in testa: proprio perché la guerra appena conclusa era stata così terribile, coloro che avevano sostenuto in prima persona la causa dell’Italia e si erano temprati nel fuoco erano destinati ora a prendere il posto delle logore élite liberali. Era la tesi dei reduci delle organizzazioni di ex combattenti e naturalmente dei fascisti; per usare le parole di Curzio Malaparte, era finalmente giunto il momento che a comandare fossero «quei buoni ufficiali delle trincee e dei reticolati, i francescani, i “pastori del popolo”» (La rivolta dei santi maledetti). Una caratterizzazione, quest’ultima, che si adatta particolarmente bene al tenente Alfani.
C’è poi il secondo punto, la denuncia delle alte gerarchie militari. Anche qui La paura non è affatto reticente. Ma, più ancora che questa o quella frase isolata – per esempio quando il narratore registra le invettive dei soldati «contro i lontani colonnelli, contro i pezzi grossi ben tappati al sicuro da ogni pericolo» o «il cruccio e lo sdegno contro i fieri proponimenti ostentati dagli imboscati, dagli eroi da poltrona, dagli speculatori che lucravano sulla grande sciagura» –, è soprattutto l’intreccio a stimolare nel lettore una reazione di ripulsa e finalmente di violenta indignazione. Il colonnello che comanda l’artiglieria non può essere disturbato perché dorme; l’ufficiale di servizio all’altro capo del telefono si lascia sfuggire un intollerabile «Allora, s’arrangi!»; l’intervento dei cannoni si rivela prevedibilmente inefficace; l’arrivo improvviso di un maggiore in ispezione contribuisce soltanto a precipitare ulteriormente la conclusione rendendo tutte le scelte più concitate… La critica, insomma, è inscritta nello stesso tessuto del racconto, e con la critica la volontà di alimentare il risentimento del lettore a mano a mano che la successione degli eventi diventa psicologicamente insopportabile.
L’attacco de La paura al comportamento degli ufficiali superiori non contraddice in alcun modo però il nazionalismo di De Roberto, dal momento che in questi anni le accuse contro i generali percorrono indifferentemente le opere di autori diversissimi quali Ardengo Soffici, Curzio Malaparte e Carlo Emilio Gadda (a destra) e Mario Mariani ed Emilio Lussu (a sinistra), come quasi mezzo secolo fa rilevò già Mario Isnenghi: «A questo tipo di polemica settoriale ben pochi fra i testimoni diretti della guerra rinunciano. E tanto più se ne mostrano partecipi quanto più il disegno oggettivo di fornire vie di sfogo alla conflittualità […] si salda soggettivamente in ciascuno di loro […] al rancore di chi non vede il proprio sacrificio e il proprio rischio egualmente condivisi da tutti».
A destra come a sinistra, nelle opere dei reduci maggiori, colonnelli e generali sono presentati quasi uniformemente come l’incarnazione della vecchia Italia liberale del privilegio che la guerra dovrebbe aver spazzato via una volta per tutte. De Roberto non fa eccezione. Anche la polemica de La paura contro le alte gerarchie dell’esercito non implica dunque in alcun modo la presa di posizione anti-militarista che vi si è voluto leggere, dal momento che De Roberto non mette mai in questione l’etica del sacrificio per la patria degli altri suoi tesi, ma si scaglia contro una casta di burocrati che cercava di nascondere come gli anni dal 1915 al 1918 avessero rappresentato per tutti una cesura irreversibile. Lo stesso atteggiamento che contraddistingue molti altri scrittori nazionalisti in transito verso il fascismo.
Per vedere ne La paura una smentita delle posizioni pubbliche dello scrittore catanese occorre fare un passo che De Roberto si è sempre ben guardato dal compiere, ma che agli interpreti degli ultimi cinquant’anni, formatisi in un’Italia diversa – un’Italia che, almeno formalmente, ha rifiutato la guerra nella propria costituzione repubblicana – è parso invece scontato. Per quanto oggi possa dispiacerci, un capolavoro come La paura però non ha nulla a che spartire conGli anni spezzati di Peter Weir (1981), esattamente come Il rifugio è lontano anni luce da Orizzonti di gloria di Stanley Kubrik (1957), da Per il re e per la patria di Joseph Losey (1964) e da Uomini contro di Francesco Rosi (1970). Niente pacifismo. Niente internazionalismo. Piuttosto, anche qui, un sordo risentimento verso i traditori di ieri e di oggi: vale a dire, agli occhi dei nazionalisti come De Roberto, verso tutti coloro che nel dopoguerra sembravano voler vanificare l’immane sforzo compiuto da milioni di giovani al fronte.
L’adesione del narratore catanese al fascismo – «la convulsione violenta, anzi la vera e propria rivoluzione cominciata nel 1914», di cui leggiamo nella premessa alla ristampa dell’Ermanno Raeli del 1923 – è avvenuta anche su queste basi.
Nota della Fonte: Federico De Roberto, uno degli scrittori che hanno saputo raccontare meglio la prima guerra mondiale, non aveva mai visto una battaglia. Garzanti ha da poco pubblicato un volume che raccoglie i suoi racconti di guerra (La paura e altri racconti di guerra, a cura di Gabriele Pedullà). Queste sono alcune pagine dell’introduzione.
Fonte: Le parole e le cose
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