di Mauro Poggi
Gli Stati Uniti accusano la Russia di attaccare i ribelli moderati anziché le milizie dello Stato Islamico. Il New York Times del 30 settembrescrive, citando ufficiali americani, che “gli attacchi non erano diretti contro lo Stato Islamico ma contro gruppi di opposizione che combattono il regime di Bashar al-Assad, a cui Putin ha assicurato il proprio appoggio. Le forze aeree russe hanno bombardato i sobborghi a nord di Homs, dove la presenza dei militanti dell’ISIS è scarsa o nulla”. Cita inoltre un comandante ribelle, tale Saleh: ” Siamo in prima linea contro l’esercito di Bashar al-Assad. Siamo ribelli moderati e non abbiamo alcuna affiliazione con l’ISIS. L’ISIS è almeno a 100 chilometri lontano da qui”.
Lo scorso maggio il Dipartimento della Difesa USA aveva dato il via a un programma di addestramento dei ribelli moderati siriani, da usare come truppe locali sul terreno sia contro lo Stato islamico che contro Bashar al-Assad. Il programma prevedeva l’addestramento di 5.400 ribelli all’anno.
Cinque mesi dopo, davanti a un’allibita Commissione del Senato, il generale Lloyd J. Austin III ha dovuto ammettere che i 500 milioni di dollari spesi a questo titolo avevano prodotto “poche dozzine” di combattenti. Una buona parte di questi, in luglio, era stata attaccata dalla propaggine al-qaedista in Siria, il Fronte al-Nusra: molti erano fuggiti o rimasti uccisi, altri si erano aggregati alle milizie del Fronte, consegnando loro armi ed equipaggiamenti ricevuti dalla CIA.
Forse è bene ricordare che al-Qaeda, di cui al_Nusra è l’affiliata siriana, è l’organizzazione terrorista accusata dell’attacco dell’11 settembre 2001, a partire dal quale si è sviluppata tutta la politica americana di intervento bellico in Medio oriente.
Alla domanda su quanti combattenti erano rimasti, il Generale Austin ha risposto: “Un piccolo numero”. E poi ha aggiunto: “Stiamo parlando di cinque o sei persone”.
L’impressione diffusa è che la Siria stia rappresentando per l’amministrazione Obama (e per il mondo) lo stesso genere di disastro che sono state le guerre in Afghanistan e in Iraq per Bush jr (e per il mondo). Il portavoce della Casa Bianca è impegnato a spiegare a destra e a manca che il Presidente non può essere ritenuto il responsabile di questa ennesima calamità: la colpa sarebbe di coloro che lo hanno convinto a un coinvolgimento diretto americano nell’addestramento dei ribelli, inclusa l’ex segretario di Stato Hillary Clinton. Più in generale, l’Amministrazione sembra voler prendere le distanze dalle controproducenti strategie siriane fin qui adottate. L’inchiesta in corso all’interno del Pentagono, sui rapporti che alcuni alti ufficiali avrebbero manipolato per nascondere alla Casa Bianca la fallimentare realtà della situazione, potrebbe essere letta in questo senso.
Il 28 settembre, alla celebrazione dei settant’anni delle Nazioni Unite, Obama ha parlato per mezz’ora, il doppio dei 15 minuti che il protocollo aveva stabilito e a cui ogni altro capo di stato si era attenuto. Nel corso di quella mezz’ora, ha sfoggiato una stanca retorica per difendere non si sa bene se l’immagine o la politica americana, o entrambe, ribadendo la vetusta narrazione della super-potenza la cui missione è proteggere il mondo con la saggezza e l’equanimità che può vantare in virtù del proprio destino manifesto.
Rispetto al collega Vladimir Putin, l’intervento di Obama ha tradito un certo disagio; ha retoricamente affermato l’importanza dell’ONU – che in questi ultimi decenni gli USA hanno brutalmente depotenziato; si è prodotto in allocuzioni i cui esiti sono stati a tratti grotteschi, visto il pulpito da cui proveniva la predica.
“Alcuni sostengono che gli ideali delle Nazioni Uniti sono inattuabili o superati […] Auspicano al ritorno delle regole che hanno caratterizzato la maggior parte della storia: la convinzione che il potere è un gioco a somma zero; che è la potenza a dettare il diritto; che gli stati forti devono imporre la loro volontà a quelli deboli; che i diritti degli individui non contano e che in tempi di rapidi cambiamenti l’ordine dev’essere imposto con la forza. Su queste basi vediamo grandi potenze imporsi in modi che disattendono la legge internazionale. Vediamo un’erosione dei principi democratici e dei diritti umani […]. L’informazione viene strettamente controllata, lo spazio per la società civile limitato. Ci dicono che queste restrizioni sono necessarie per respingere il disordine, che è il solo modo per ricacciare il terrorismo e prevenire ingerenze esterne“.
No, non è al suo paese che si riferisce: “Secondo questa logica, dovremmo supportare tiranni come Bashar al-Assad, che massacra bambini innocenti, perché l’alternativa sarebbe sicuramente peggiore“.
Quando esistono, le autocritiche sono sempre reticenti, e gli errori sono comunque commessi in buona fede:
“Naturalmente, nel mondo continuiamo a confrontarci con nazione che rifiutano le lezioni della storia… Gli Stati Uniti faranno sempre la loro parte. Faremo tesoro delle lezioni del passato, non solo le lezioni dell’Iraq, ma anche l’esempio della Libia, dove ci siamo uniti a una coalizione con il mandato ONU di evitare un massacro. Anche se abbiamo aiutato il popolo libico ad abbattere il regime di un tiranno, la nostra coalizione avrebbe potuto e dovuto fare di più per colmare il vuoto che si è creato“.
L’unica vera novità è il passaggio in cui ammette che gli Stati Uniti non possono pensare di risolvere da soli i problemi mondiali (peraltro creati in gran parte dalla politica di potenza americana):
“Per quanto potente sia il nostro esercito e forte la nostra economia, siamo consapevoli che gli Stati Uniti non possono risolvere i problemi del mondo da soli […] Se non lavoriamo con le altre nazioni, sotto l’egida di norme, principi e leggi internazionali che diano legittimità ai nostri sforzi, noi non potremo avere successo“. (Più avanti, a proposito della Siria, è anche più esplicito: “Gli Stati Uniti sono pronti a lavorare con ogni nazione, incluse Russia e Iran, per risolvere il conflitto“).
E tuttavia l’ammissione è circondata da premesse che lasciano poco spazio al dubbio di ciò che Obama intende per cooperazione: un rapporto fra eguali dove gli Stati Uniti sono più uguali degli altri. “Come Presidente degli Stati Uniti sono pienamente consapevole dei pericoli che dobbiamo affrontare. Conduco il più potente esercito che il mondo abbia mai conosciuto e non esiterei mai a proteggere il mio paese o i nostri alleati, unilateralmente e se necessario con la forza“.
Le precondizioni della cooperazione rimangono il riconoscimento del loro primato e delle ragioni (o narrazioni) americane.
Obama afferma che “laddove c’è democrazia non c’è rivoluzione“, e aggiunge,excusatio non petita, che non sono i complotti delle ONG spalleggiate dagli USA a far emergere la corruzione dei regimi e creare aspettative nei popoli: “sono le tecnologia, i social media e l’irriducibile desiderio dei popoli ovunque di scegliere i logo governanti“. La storia di questi ultimi vent’anni, prova che “nel mondo di oggi le dittature sono instabili, gli uomini forti di oggi sono la scintilla delle rivoluzioni di domani“.
Michael Hudson su Counterpunch, osserva che nell’immaginario americano il termine “democrazia” è attribuibile a ogni regime con cui gli Stati Uniti sono in rapporti amichevoli.
In questo senso non sono censurabili regimi autoritari come quello turco, o integralisti e autocratici come quello dell’Arabia Saudita, o a inclinazione filo-nazista come quello dell’Ucraina . Si tratta di uno modello cognitivo inaugurato da Roosevelt (o da Johnson – a seconda delle fonti): “May bethey are bastards, but they are our bastards” – forse sono bastardi, ma sono i nostri bastardi.
Per converso, sono censurabili gli stati autoritari come la Russia, dittatoriali seppure laici come la Siria o teocratici come l’Iran; oppure stati di estrema destra come l’Ungheria. Questi stati, sempre secondo il modello cognitivo di cui sopra, sono solo bastards, punto. E il richiamo alla storia degli ultimi vent’anni, caratterizzati come sono dalle guerre umanitarie americane, suona a chiaro monito, a nemmeno tanto velata minaccia.
Dove c’è “democrazia”, sostiene Obama, non ci sono rivolte, e i dittatori di tutto il mondo devono sapere che prima o poi le aspirazioni dei popoli produrranno rivoluzioni. Possibilmente colorate. (Gli Stati Uniti si sono trovati spesso a sostenere queste aspirazioni: dall’Iran di Mossadeq al Cile di Allende, o più recentemente dalla Libia di Gheddafi all’Ucraina di Yanukovych – tanto per citare alcuni esempi).
La Siria, come prima la Libia e ancor prima l’Iraq, ha un dittatore che massacra il proprio popolo.
Nella narrazione obamiana all’Assemblea, tutto ha avuto inizio nel 2011, quando le pacifiche manifestazioni del popolo siriano – sorte sull’onda delle primavera arabe, sono state brutalmente represse da Assad, creando così le condizioni per la deflagrazione del conflitto durante il quale il dittatore ha massacrato il suo popolo con armi chimiche e bombardamenti indiscriminati.
Una rappresentazione a dir poco parziale.
Il 5 marzo 2007 – quattro anni prima dell’inizio dei disordini – il giornalista premio Pulitzer Seymour Hersh, sul New Yorker, in un articolo intitolato The redirection, rivelava che gli USA avevano deciso di finanziare la Fratellanza Musulmana siriana – a tutti gli effetti il braccio politico di al-Qaeda – ed iniziare ad armare i militanti di al-Qaeda stesso.
“Per indebolire l’Iran, che è in maggioranza sciita, l’Amministrazione Bush ha deciso di ridisegnare le proprie priorità in Medio Oriente. In Libano l’Amministrazione ha cooperato con il governo saudita, che è sunnita, in operazione clandestine finalizzate a indebolire Hezbollah, l’organizzazione sciita appoggiata dall’Iran. Gli Stati Uniti hanno anche preso parte a operazioni clandestine dirette contro l’Iran e il suo alleato, la Siria. Una conseguenza di queste attività è stata il rafforzamento dei gruppi estremisti sunniti che abbracciano una visione militante dell’Islam, sono ostili all’America e compiacenti con al-Qaeda.
… La strategia dell’Amministrazione ha già avvantaggiato la Fratellanza Musulmana. Il Fronte di Salvezza Nazionale è una coalizione di gruppi d’opposizione i cui principali membri sono la fazione diretta da Abdul Khail Khaddam, l’ex vice-presidente siriano che ha disertato nel 2005, e i Fratelli Musulmani. Un ex funzionario CIA ha rivelato che gli americani hanno fornito supporto politico e finanziario. I sauditi stanno prendendo l’iniziativa del supporto finanziario, ma c’è il coinvolgimento americano. Khaddam, che attualmente vive a Parigi, sta ricevendo soldi dai sauditi con il consenso della Casa Bianca“.
Un paio di giorni prima, il 3 marzo 2007, Democracy Now intervistava il generale in pensione Wesley Clark, già Supreme Allied Commander della NATO durante la guerra del Kosovo. Fra le altre cose, il generale raccontò un episodio che risaliva a una decina di giorni dopo l’attentato alle Torri gemelle, quindi nel 2001, durante una sua visita al Pentagono:
“…Avevo incontrato il Segretario di Stato Rumsfeld e il Sotto-segretario Wolfowitz. [Terminato l’incontro] scesi a salutare qualche collega che aveva lavorato con me, e uno dei generali mi chiamò. Disse: ‘Signore, entri e parliamo un secondo […] Abbiamo preso la decisione di fare la guerra all’Iraq’. […] Dissi: ‘Guerra all’Iraq? Perché?’. ‘Non lo so. Suppongo che non sappiano cos’altro fare…’. Così dissi: ‘Beh, hanno forse ottenuto qualche prova che Saddam è collegato ad al-Qaeda?’. ‘No, no. Non c’è nulla di nuovo sotto questo aspetto. Semplicemente hanno preso la decisione di fare la guerra all’Iraq’. Aggiunse: ‘Immagino che non abbiamo idea di come affrontare il terrorismo, maabbiamo un buon esercito e possiamo abbattere qualunque governo. Suppongo che se l’unico strumento che hai è un martello, tutti i problemi li vedi come se fossero chiodi‘.
Qualche settimana dopo tornai a trovarlo. A quel tempo avevamo già iniziato a bombardare l’Afghanistan. Chiesi: ‘Siamo ancora intenzionati a fare la guerra all’Iraq?’. Rispose: ‘È ancora peggio di così …’. Andò alla scrivania e prese un foglio: ‘Ho appena ricevuto questo da sopra’, intendeva dall’ufficio del Segretario della Difesa. ‘È un promemoria che indica che ci impossesseremo di sette paesi in cinque anni, cominciando dall’Iraq, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan per finire con l’Iran’ “.
Stiamo parlando del 2001…
Nel 2013, l’ex deputato ed ex Ministro degli esteri francese Roland Dumas,durante un dibattito televisivo, rivela che la guerra in Siria era stata pianificata almeno due anni prima che le rivolte scoppiassero.
“Le dirò una cosa. Mi sono trovato Inghilterra due anni prima che le ostilità iniziassero in Siria, ero lì per tutt’altre questioni. Ho incontrato dei responsabili inglesi, alcuni dei quali miei amici, che mi hanno confessato che stavano preparando qualcosa in Siria. Era l’Inghilterra, non l’America. L’Inghilterra preparava l’invasione di ribelli in Siria. […] Questo per dire che questa operazione viene da molto lontano: era concepita, preparata e pianificata. Semplicemente allo scopo di rovesciare il governo siriano, perché è importante sapere che in quella regione il regime siriano è anti-israeliano, e di conseguenza tutto quello che si muove intorno nella regione… Io sono in confidenza con il Primo ministro israeliano, che mi aveva detto ‘Cercheremo un accordo con gli stati confinanti. E quelli con cui non potremo accordarci saranno abbattuti’. È una politica come un’altra… È una concezione della storia – perché no, dopotutto? Basta saperlo“.
Forse il chiacchierato politico francese non è una delle fonti più attendibili, ma le sue dichiarazioni diventano verosimili se a corroborarle ci sono la testimonianza del generale Clark o le investigazioni di Seymour Hersh.
Il giornalista investigativo Robert Parry, in un articolo che trovo in francese suInvestig’Action, cita una dichiarazione del Vice-presidente Joe Biden secondo cui gli emirati e i sauditi erano talmente decisi a rovesciare Assad scatenandogli contro una guerra per procura che hanno “versato centinaia di milioni di dollari e migliaia di tonnellate di armamenti a chiunque voleva combatterlo. Salvo che a beneficiarne sono stati al-Nusra e al-Qaeda, e jihadisti estremisti venuti da fuori“. Aggiunge che ” il Fronte al-Nusra di al-Qaeda ha anche tratto vantaggio da un’alleanza di fatto con Israele. Gli israeliani hanno soccorso dei combattenti feriti di al-Nusra, li hanno curati e rimessi sul campo di battaglia nei dintorni delle Alture del Golan. Israele ha anche effettuato delle incursioni aeree in Siria, a sostegno dell’avanzata del Fronte, assassinando alcuni dei consiglieri iraniani e di Hezbollah che aiutano il governo siriano“.
La sorte del regime siriano e della Siria era segnata da molto tempo prima del 2011, ed è alquanto improbabile che Obama non ne sia a conoscenza. La reticenza dei media omologati a dare certe informazioni, o a darle distorte, vale solo per il grande pubblico a cui si rivolgono; è difficile pensare che il Presidente degli Stati Uniti si affidi a queste fonti per tenersi al corrente di come va il mondo. È inoltre presumibile che anche gli astanti che lo ascoltavano il 28 settembre disponessero di informazioni tali da consentire loro di valutare con un certo scetticismo il quadro rappresentato, al di là degli applausi (che non si negano a nessuno – figuriamoci al Presidente degli Stati Uniti).
Sarebbe quindi un’ottima cosa, per rispetto alla carica che ricopre, se Obama pretendesse dai suoi spin doctors un maggiore sforzo creativo perché le narrazioni che gli preparano non confidino così spudoratamente nell’acquiescenza o dabbenaggine di chi ascolta.
Fonti:
Fonte: blog dell'Autore
Originale: https://mauropoggi.wordpress.com
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