di Angelo d’Orsi
Un caso di banditismo politico unito a uno straordinario esempio di insipienza politica: ecco il “caso Marino”. Sarà da scrivere, con calma e sulla base di informazioni certe, la vicenda a suo modo esemplare di questo chirurgo tentato dalla politica, paracadutato nella capitale, prima come senatore della Repubblica (imposto, chissà perché, in Piemonte), quindi, a mandato in corso, come primo cittadino della capitale. Una parte del PD lo sostenne, contro l’altra parte, quella che stava prendendo però il potere guidato dal disinvolto Matteo, ormai in fase di irresistibile ascesa.
E ben presto costui scopre che Marino è ingovernabile: innanzi tutto non è un renziano, e in secondo luogo perché è una sorta di Forrest Gump, che vive in una condizione di separatezza dalla realtà. Ha un mondo suo, Ignazio Marino, e, pur essendo uomo, a mia conoscenza, e impressione, di specchiata onestà, in quanto primo cittadino della prima città italiana, della ex capitale dell’Impero Romano, della capitale del cattolicesimo, della capitale mondiale delle opere d’arte, e così via, il buon Ignazio perde la testa, o detto altrimenti comincia a montarsela, preso da una specie di delirio di onnipotenza.
Cambia assessori, perde via via collaboratori e amici, e si trova un po’ per volta solo in un fortino assediato da sodali divenuti avversari, mentre il “capo supremo” gli mette alle calcagna un suo uomo forte, l’Orfini, che diventa un sindaco-ombra, e poi come se non bastasse, in absentia, affida al prefetto (Gabrielli, noto per la sua imperturbabilità davanti alle catastrofi “naturali”) il ruolo di Lord protettore, battezzato a furor di popolo “badante”.
Cambia assessori, perde via via collaboratori e amici, e si trova un po’ per volta solo in un fortino assediato da sodali divenuti avversari, mentre il “capo supremo” gli mette alle calcagna un suo uomo forte, l’Orfini, che diventa un sindaco-ombra, e poi come se non bastasse, in absentia, affida al prefetto (Gabrielli, noto per la sua imperturbabilità davanti alle catastrofi “naturali”) il ruolo di Lord protettore, battezzato a furor di popolo “badante”.
L’assenza del sindaco in quei giorni, dovuta alle sue peraltro legittime vacanze negli Stati Uniti, divenne un capo d’accusa: erano i giorni del funerale più mediatizzato della storia recente (quello dei Casamonica), uno spettacolare diversivo dai problemi della capitale, una manna per i Brunovespa e per i rotocalchi scandalistici. Un ridicolo caso montato che finiva per far obliterare il vero “scandalo” quello di “Mafia capitale”. Si trattava di una vicenda che aveva mostrato come l’intero ceto politico “storico” di Roma fosse un sistema integrato di affarismo e corruzione, che attraversava tutte le giunte succedutesi nel corso degli ultimi decenni, tra centrosinistra e centrodestra: il centro, appunto, era il nodo corruttivo a unire in una solidale colleganza postfascisti, postcomunisti, immarcescibili liberali ed eterni democristiani. E intorno a questo ceto politico turbe di clienti, a loro volta vassalli e valvassori in tanti piccoli e grandi feudi, dalle municipalizzate ai taxi, dai palazzinari ai preti, dai bancarellai ai “pizzardoni”, alias vigili urbani. Piccola e infima borghesia famelica, i cui insaziabili appetiti favorivano in fondo un sistema economico parallelo, tra il sommerso e il criminale, appunto: mafioso.
Marino fu posto sotto accusa, sia da coloro che lo avevano preceduto, specialmente l’ultimo (il “sistema Alemanno”, e, ricordiamolo, in combinato disposto con gli scempi della signora Polverini alla Regione, è stato il punto più basso toccato nella plurimillenaria vicenda della “caput mundi”), sia dall’opposizione degli homines novi, il movimento 5 Stelle, con una notevole superficialità, che è proseguita, in una paradossale “alleanza di fatto” con le truppe renziane, ormai scatenate contro il fortilizio in cui un sempre più smarrito e inconsapevole Marino aveva scelto la strada della resistenza ad oltranza, sentendosi in qualche modo protetto dalle buone cose che aveva comunque saputo fare, sin dall’esordio della sua azione amministrativa. Non rendendosi conto, invece, che erano precisamente quelle buone cose ad averlo messo in difficoltà: come si può pensare di scalzare un sistema di potere perdurante da decenni, per non dire da sempre, combattendo praticamente da solo, essendo ormai stato vistosamente abbandonato dal suo partito? L’inserimento in Giunta di un magistrato – di grande energia e competenza come Alfonso Sabella – per il controllo della legalità appariva un altro paradosso: consci della intrinseca disonestà del ceto politico si esplicitava il bisogno di un’auctoritas che ricordasse che “certe cose”, tipo corrompere i pubblici funzionari o farsi da essi corrompere) non si possono fare. Mentre risultava grottesco (a dir poco) la cooptazione (decisa da chi?) di un figuro come il senatore Esposito, volgarissimo pasdaran del TAV in Val di Susa, come assessore ai Trasporti.
Ma quali sono le colpe di Marino, posto che le cene e i pranzi per i quali è stato crocifisso (a cominciare dal papa, che nei confronti del sindaco della città di cui egli, il pontefice, risulta essere “vescovo”) sono al più peccati venialissimi? Qualche pranzo, qualche bugia, qualche goffaggine. Roba di cui manco occorrerebbe parlare, in un Paese serio. E invece sono diventati strumenti della campagna, pesantissima e concentrica, contro il sindaco, dalla Repubblica (ormai organo renziano: soltanto appare più allineata, al punto di risultare stucchevolissima e illeggibile) al Corriere, da Libero al Giornale. Aggiungi la varia stampa cittadina, praticamente tutta in mano alla destra, e la cosiddetta “satira” televisiva: ne uccide più Crozza che la spada, com’è noto. Anche questo è il segno di una società che brancola in un indistinto mucillaginoso.
Dicevo, le “colpe” vere del sindaco di Roma: eccole (secondo Huffington Post, e io personalmente sottoscrivo): 1) Aver pedonalizzato i Fori imperiali; 2) aver bloccato la cementificazione del litorale di Ostia; 3) aver rotto il turpe monopolio dei venditori ambulanti al Colosseo o a Piazza Navona; 4) Aver gettato l’occhio là dove nessun sindaco aveva guardato, gli affitti risibili della casta locale; 5) aver spezzato il sistema occulto degli appalti della raccolta rifiuti, e indetto, per la prima volta, una regolare gara di appalto; 6) aver sfidato le gerarchie ecclesiastiche e il Vaticano sui diritti dei non sposati e sulla fecondazione assistita eterologa; 7) aver partecipato al Gay Pride ultimo, nella città; 8) aver introdotto la scheda elettronica (badge) per i lavoratori della Metropolitana (afflitta da assenteismo cronico); 9) aver cominciato a fare pulizia nella dirigenza dell’ATAC (un motto che circola a Roma che dopo la “cura Alemanno” all’Azienda Trasporti v’erano più dirigenti che autisti; come nell’azienda rifiuti scarseggiavano gli spazzini ma sovrabbondavano i dirigenti!); 10) aver chiuso l’infernale discarica di Malagrotta.
Sono tutti titoli di merito. Marino forse non ha saputo valorizzarli. E ora per meno di 20.000 euro di spese di rappresentanza (una cifra ridicola per il sindaco di una capitale, e che capitale! Ne spende venti volte di più il rettore di un medio ateneo italiano!) diventa lo zimbello universale. Filippo Ceccarelli ha il coraggio di paragonare le tangenti agli scontrini. E il M5S finisce per aderire alla campagna della destra estrema, trovandosi, come accennavo, in buona compagnia con l’odiato Renzi. Il quale è, ancora una volta, il vero regista dell’operazione: uccidente il soldato Marino, è stato l’ordine di scuderia. E come un sol uomo tutti hanno obbedito. Ha alzato di giorno in giorno l’asticella, come in passato aveva fatto con D’Alema, poi con Bersani, quindi con Letta. E ora con Marino. Alza fino a stancare l’avversario: lo fa sentire isolato, non “protetto”, fin tanto che egli, stremato, non getta la spugna.
Ora Marino lo ha fatto. Renzi può segnare un’altra tacca al suo fucile, ma non è che un antipasto. Ora dopo la caduta comincerà la resa dei conti con la minoranza interna. Il premier intende “asfaltarli” come ripete volentieri con il suo lessico da bulletto di provincia. E lo farà. E costoro, tutti costoro, che faranno? Aspetteranno che il carroarmato renziano li schiacci? Forse sarà il caso di ricordare loro che Renzi non fa prigionieri né feriti. Ha imparato la prima lezione del suo grande concittadino Machiavelli: “i nemici bisogna spegnerli”.
Ieri sera, qui a Roma, davanti al Campidoglio, che pena vedere i militanti “grillini” accanto ai neofascisti di Casa Pound e ai diversamente fascisti della signora Meloni: che, prontamente, l’inclito Matteo Salvini candida al Campidoglio. Ha assolutamente ragione il sindaco uscente quando nel suo messaggio di dimissioni (ancora revocabili) afferma: “…non nascondo di nutrire un serio timore che immediatamente tornino a governare le logiche del passato, quelle della speculazione, degli illeciti interessi privati, del consociativismo e del meccanismo corruttivo-mafioso che purtroppo ha toccato anche parti del Pd e che senza di me avrebbe travolto non solo l’intero Partito democratico ma tutto il Campidoglio”.
All’indomani delle dimissioni, un quotidiano ha sparato sull’intera prima pagina questo titolo: “Roma liberata”. Si tratta del Giornale, ossia dell’organo di stampa e propaganda che aveva sostenuto in modo sistematico e rumoroso la candidatura di Gianni Alemanno, il peggior sindaco che la lunga storia della capitale ricordi. Fosse anche solo per questa ragione, occorrerebbe sostenere ancora Ignazio Marino.
Fonte: MicroMega online
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