di Davide Angelilli
Il 12 ottobre, proprio nella ricorrenza dello sbarco in America di Colombo, in Spagna è festa nazionale. Come ricorda l’intellettuale Santiago Alba Rico, il dodici ottobre non rappresenta solamente l’inizio della Conquista. Fino al 1958, la ricorrenza fu occasione per celebrare il «Giorno della Razza», più tardi diventato «Giorno della Ispanità», solamente dal 1987, invece, il nome ufficiale della giornata è «Festa nazionale di Spagna». Oltre ad essere una provocazione nei confronti degli indigeni americani, infatti, la data simboleggia la cacciata dalla penisola iberica degli ebrei e dei moriscos (gruppo religioso musulmano) e, in generale, la costruzione della Spagna come nazione e come Impero.
Un progetto che si fonda sull’espansione territoriale, ma anche sulla soppressione della dissidenza interna, e suppone l’inevitabile repressione delle comunità nazionali, come la basca e la catalana, che abitano all’interno dello stesso Stato. La problematica nazionale, o meglio della sovranità popolare delle comunità nazionali è tuttora determinante nel vivace panorama politico che si muove nello Stato spagnolo. In una recente intervista, Arnaldo Otegi (il leader della sinistra indipendentista basca ancora in carcere) ha giustamente notato come, a differenza dell’indipendenza scozzese che non provocherebbe grandi scosse sull’idea di nazione inglese, per lo Stato spagnolo, il riconoscimento del suo carattere plurinazionale significherebbe una forte crisi d’identità.
Per questi motivi, e per la potenza semantica del 12 ottobre, l’organizzazione internazionalista basca Askapena ha deciso di chiudere la campagna contro la richiesta d’illegalizzazione presentata dall’Audiencia Nacional. Il tribunale politico speciale di Madrid accusa la piattaforma internazionalista di aver agito come braccio internazionale di Eta. Il tentativo di rendere illegale Askapena e di mettere in carcere cinque suoi militanti –denunciano invece dall’organizzazione– rappresenta l’ennesimo attacco politico, strumentalmente portato avanti con un processo giudiziario. Un’azione repressiva che, sotto la maschera della legalità, nasconde la volontà di negare al movimento popolare basco i diritti civili e politici che gli corrispondono.
Allora, in quest’ultimo mese, una kefiah arancione –il simbolo delle rivendicazioni dei popoli oppressi e il colore che rappresenta la disobbedienza nell’attuale immaginario politico basco– ha portato la voce di Askapena in diversi paesi dell’Europa e dell’America Latina.
Lo storico movimento, nato quasi trent’anni fa, ha infatti deciso di rispondere all’attacco giudiziario con l’iniziativa internazionale «Herriak Libre» (in italiano, «popoli liberi»). Una campagna che ha raccolto più di quaranta processi popolari: sentenze di assoluzione per Askapena e di condanna dello Stato spagnolo, «per la sua complicità con il colonialismo e con l’attuale sistema imperialista», per le pesanti responsabilità della drammatica situazione che vive oggi il Sahara. Il simbolico lancio di una scarpa — che ricorda quella volata contro il presidente G. W. Bush– ha sigillato i numerosi processo popolari realizzati da organizzazioni, associazioni e movimenti solidali in diverse località fuori e dentro i Paesi Baschi: tra le altre, Caracas, Buenos Aires, Bogotá, fino alla Val Susa in Italia.
La «marcia dei popoli liberi», con la partecipazione del movimento per i diritti del Sahara, dei popoli indigeni americani, della sinistra catalana, raccoglierà tutte queste sentenze, per farne una sola voce di condanna. Un solo grido di libertà dall’altra faccia dell’impero.
Fonte: il manifesto
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