di Marco Bersani
Mentre leggete queste righe, oltre 500.000 persone stanno sfilando per le strade di Berlino per chiedere un deciso stop al Ttip, il trattato di libero scambio, che, da oltre due anni, Stati Uniti e Unione Europea stanno negoziando nelle segrete stanze. La manifestazione di Berlino inaugura una settimana di mobilitazioni in tutte le città d’Europa, accompagnate dalla consegna all’Unione europea di oltre 3,2 milioni di firme di cittadini.
Si apre una fase decisiva per quello che si profila come il più grande trattato di libero scambio del pianeta, nonché il nuovo quadro legislativo globale, cui tutti, volenti o nolenti, dovranno conformarsi.
La pressione delle multinazionali e dei governi spinge perché si arrivi ad una bozza di accordo prima che negli Stati Uniti inizi la campagna elettorale delle presidenziali (previste nel novembre 2016), e la recente approvazione dell’omologo negoziato sul versante Pacifico (TPP) ha galvanizzato le truppe di quanti vogliono trasformare lo stato di diritto in stato di mercato e realizzare l’utopia delle multinazionali: unico faro della vita economica, politica e sociale devono essere i profitti, cui vanno sacrificati tutti i diritti del lavoro e sociali, i servizi pubblici, i beni comuni e la democrazia.
L’aspetto più paradossale è che tutto questo porterà, secondo le stime più rosee, propagandate dalla stessa Commissione Europea, vantaggi economici ridicoli: +0,48% del Pil in Europa e + 0,39% negli Usa a partire dal 2027 (!!).
Come abbiamo visto con la costruzione ideologica della trappola del debito pubblico, anche il TTIP persegue il medesimo scopo: cristallizzare le politiche di austerity rendendole definitive, quali nuove colonne d’Ercole insuperabili da nessuna ipotesi di trasformazione della società.
Le enormi masse di denaro accumulate sui mercati finanziari in questi decenni hanno stringente necessità di essere investite in nuovi mercati: da qui la drastica riduzione dei diritti sul lavoro, da qui la necessità di trasformare in merci i beni comuni, costruendo business ideali, perché regolati da tariffe e flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, con titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di dividendi. Un banchetto perfetto.
Ma con un problema: l’applicazione delle politiche di austerity, paese per paese e governo per governo, suscita ribellioni e mobilitazioni destinate ad aumentare nel tempo e a determinare possibili cambiamenti nel quadro politico, rendendo instabile l’intero continente europeo.
Il TTIP serve esattamente a questo scopo: a de-storicizzare le politiche liberiste, trasformandole nel nuovo quadro giuridico oggettivo, all’interno del quale possono senz’altro convivere tutte le opzioni politiche possibili, a patto che non lo rimettano in discussione.
Per troppo tempo abbiamo considerato scontato il binomio liberismo/democrazia (per quanto formale). Vale la pena ricordare come l’atto di nascita del laboratorio liberista, divenuto mondiale, sia stato il Cile di Pinochet: allora furono schierati i carri armati, oggi migliaia di titoli d’investimento. In entrambi i casi con un unico obiettivo: le nostre vite.
Pretendono il TTIP perché li abbiamo sconfitti per più di vent’anni, fermando il Mai (Accordo Multilaterale sugli Investimenti), il Wto (Organizzazione Mondiale del Commercio) e la direttiva europea Bolkestein. A tutte e tutti noi il compito di dimostrare che, ancora una volta, hanno fatto male i conti.
Fohte: il manifesto
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