di Lea Melandri
Il rapporto individuo e collettivo è stato al centro del pensiero e della pratica, politica e analitica, di Elvio Fachinelli, e dei due movimenti -il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo- che ho avuto la fortuna di incontrare tra il 1969 e il 1971, pochi anni dopo il mio arrivo a Milano.
Si può dire che Fachinelli è stato l’interprete più originale di un passaggio storico di grande rilievo: la modificazione dei confini tra privato e pubblico, corpo e politica, individuo e società, biologia e storia, la possibilità di uscire da quella che egli chiamava “la tragica necessità del dualismo”, la “rovinosa dialettica” in cui si era inoltrata la ragione, e da lì muovere verso “prospettive impensate”.
Uscire da logiche contrappositive significava allora prendere distanza da quelle che erano diventate due ideologie: il marxismo e la psicanalisi.
Alla vulgata marxista, Fachinelli rimproverava di aver cercato la verità fuori dagli individui stessi, nei rapporti sociali oggettivi. Alla psicanalisi di non essere riuscita a intervenire nei luoghi in cui si forma l’individuo socializzato, di non aver visto i processi sempre più totalitari di intervento diretto sulle condizioni di formazione degli individui, di essere tornata alla separazione tradizionale tra ambito famigliare, dove si forma l’individuo e ambito sociale. Non a caso, uno dei rimproveri che gli mossero gli psicanalisti fu di aver “fatto un allacciamento tra l’autorità famigliare e lo stato di questa autorità nelle società capitalistiche avanzate”.
Alla vulgata marxista, Fachinelli rimproverava di aver cercato la verità fuori dagli individui stessi, nei rapporti sociali oggettivi. Alla psicanalisi di non essere riuscita a intervenire nei luoghi in cui si forma l’individuo socializzato, di non aver visto i processi sempre più totalitari di intervento diretto sulle condizioni di formazione degli individui, di essere tornata alla separazione tradizionale tra ambito famigliare, dove si forma l’individuo e ambito sociale. Non a caso, uno dei rimproveri che gli mossero gli psicanalisti fu di aver “fatto un allacciamento tra l’autorità famigliare e lo stato di questa autorità nelle società capitalistiche avanzate”.
La ricerca di “nessi” si può dire che parte per Fachinelli dalla rilettura di Freud, a cui riconosce il merito di aver avviato una “scienza dell’individuo”: la definizione di un campo pratico teorico, un luogo specifico della realtà quale è il passaggio del bambino da essere biologico a essere inserito nell’universo simbolico proprio dell’uomo, sulla base della relazione con coloro che si prendono cura di lui, e che sono per lui i rappresentanti dell’ordine simbolico. Quindi: una vicenda singola e al medesimo tempo assolutamente generale.
Non è un caso che la voce “Freud” (“I protagonisti della storia universale”, vo.12, CEI, Milano 1966) si chiude con la domanda: “Come si passa da questo individuo alla generalità degli individui?”.
Già nel 1967, nella recensione al libro di Don Milani, Lettera a una professoressa, Fachinelli parla della “rimozione sociale degli individui e della rimozione individuale del sociale”. Comincia da qui il suo impegno politico, che si estenderà subito alla sua pratica di analista.
La psicanalisi aveva posto all’inizio domande essenziali all’uomo e alla civiltà, poi aveva ripiegato sulla “segregazione”nel rapporto duale. Il lavoro analitico avrebbe dovuto essere “senza fissa dimora”, spingersi “oltre”, portare i suoi interrogativi su altri luoghi e linguaggi.
Negli anni ’80, quando il movimento antiautoritario subisce una battuta di arresto, “oltre” significò la propria esperienza, l’esplorazione di quelle “estreme regioni”, di quell’ “aree di frontiera” –“uno strato percettivo, emozionale, cognitivo”- che è all’origine del processo di individuazione: l’ “area claustrofilia”, l’originaria in distinzione col corpo della madre, da cui l’Io, sentendosi minacciato, si è difeso barricandosi, differenziandosi in modo violento, oppositivo.
Su questo percorso si poteva solo avere “sé” come “unica bussola”, ma quella che si veniva scoprendo era una “prospettiva antropologica” nuova, una “visione più ampia, più profonda di noi stessi”: capacità di accoglimento, disponibilità a rivivere esperienze remote, senza rinnegarle. Significava prendere su di sé un atteggiamento considerato privilegio femminile e svalutato.
L’impegno sociale e politico tuttavia non scompare neppure nel suo ultimo libro, La mente estatica (Adelphi 1989): in questo estremo traguardo c’è ancora all’orizzonte di un possibile cambiamento la “passione dell’uomo” di Marx, la ricerca di una “molteplicità di manifestazioni di vita umana”.
L’individuo, per Fachinelli, è “intrinsecamente connesso”, già all’origine, col suo gruppo sociale, ma è anche un polo distinto, che può obiettare. Il legame col sociale non è visto da fuori, ma è già nella fondazione della sua soggettività.
Oggi, l’espressione “individuo e collettivo” risulta per lo più incomprensibile, forse perché dove era atteso un nuovo tipo di conoscenza, capace di trovare nessi tra polarità astrattamente contrapposte, è subentrato un amalgama difficile da sbrogliare: un individualismo che apparentemente rende liberi, ma liberi di somigliare, un accomunamento virtuale che cancella la percezione stessa della solitudine corporea del singolo.
C’è solo da sperare che da quel fondo di memoria che il corpo conserva e che più ci avvicina alla generalità degli umani, torni a rispuntare l’ “erba” che non cresce neppure nel giardino del re”, ma di cui una generazione fortunata ha sentito quanto meno il profumo.
Fonte: Tysm.org
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