di Christian Raimo
Due mesi fa, quest’estate, ho assistito a Londra a una giornata della campagna elettorale di Jeremy Corbyn alla Union Chapel. Tra le molte cose (belle) che mi hanno sorpreso ne ho appuntate mentalmente un paio.
La prima è che l’intervento finale di Jeremy Corbyn durava da programma venti minuti, e venti minuti è durato. Tanto carismatico quanto sintetico, tanto chiaro quanto radicale.
Pantaloni larghi con le pinces, senza cravatta, aria da middle class novecentesca, ha parlato di rinazionalizzare le ferrovie, di abbassare le tasse universitarie, di rendere di nuovo pubblico ed efficiente il servizio sanitario nazionale, di sostenere un’alternativa economica chiara. Ha detto: “Non è possibile che la classe politica britannica abbia studiato tutta a Oxford o a Cambridge”, “dobbiamo avere una risposta umana e umanitaria alla questione delle migrazioni”, e ha concluso i suoi venti minuti con una frase di grande efficacia: “Immagino un mondo in cui tutte le persone si prendono cura delle altre, e questo mondo si chiama socialismo”.
Ma il suo intervento, convincente, perfetto, da leader che avrebbe effettivamente stravinto le primarie del Partito laburista, non è stato nemmeno il migliore della giornata.
Ad aprire infatti era stato un giovane attivista, opinionista del Guardian, che si chiama Owen Jones. I venti minuti di Owen Jones sono stati il miglior discorso di sinistra che ho sentito negli ultimi anni.
Non solo per le qualità di oratore, non solo perché ha criticato in modo analitico quasi vent’anni di politiche segnate dai governi di Tony Blair e dai suoi eredi, ma soprattutto perché ne ha smontato il nucleo ideale, e ha voluto porre il problema fondamentale per chi cerca di esserne un’alternativa, che non è quello di riconquistare la sinistra, ma di riconquistare la società: “Non possiamo lasciare soli quelli che hanno votato Ukip”, “C’è bisogno di una cultura femminista”, “Occorre recuperare la tradizione socialista del novecento”.
L’odio di classe ha cambiato obiettivo
Owen Jones ha scritto un fortunato libro quattro anni fa (a 27 anni) intitolato Chavs, the demonization of working class, in cui mostrava come l’odio di classe oggi non sia più diretto contro i padroni, gli sfruttatori, i ricchi, ma contro gli sfruttati, contro la classe operaia, che è temuta o presa in giro, sbeffeggiata per la sua progressiva marginalità sociale, per le sue maniere cafone, per la sua debolezza politica, per la sua pochezza teorica.
Il politicamente corretto che impedisce a chiunque sia di sinistra di dichiararsi razzista, sessista, omofobo, consente però di potersela prendere con i chavs, un termine spregiativo che forse in Italia potrebbe essere tradotto con un regionalismo: “coatto”, ossia una categoria estetica liquidatoria che in fondo tiene insieme precari, disoccupati, operai, semplici poveri.
L’analisi di Owen Jones è ovviamente calibrata su una società come quella britannica classista e ossessionata dal successo individuale, ma se si vuole leggereChavs da una prospettiva più lontana se ne ricava comunque una capacità di sguardo che è utile per decifrare quello che avviene in Italia.
La mentalità che racconta Jones corrisponde a quello che si può definire un populismo destrorso, camuffato anche nei luoghi della sinistra.
Ecco il punto. Se c’è una cosa che hanno mostrato la politica italiana ed europea negli ultimi trent’anni, è che ovunque si è affermato un populismo di destra. Antidemocratico, nazionalista, reazionario, sostanzialmente xenofobo, ma non solo: multiforme, mimetico, interclassista, trasversale. La crisi delle ideologie del novecento si è portata dietro i partiti, i sindacati, ma anche lo stesso impianto dei diritti sociali.
Non è un caso se solo nei mesi recenti sono usciti due libri come quello di Marco Tarchi, Italia populista (Il Mulino), o quello di Nicola Tranfaglia, Populismo(Castelvecchi), che provano entrambi a ricostruire – Tarchi con maggiore acume, Tranfaglia con più impressionismo – la mappa e la storia di questo concetto sfuggente: ideologia? Mentalità politica? Piattaforma di valori?
Tarchi tenta di dar conto del dibattito sulla definizione di populismo e arriva anche a proporne una propria sintesi:
"La mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e mediazione."
Ma il pregio del suo libro non è tanto teorico, ma piuttosto storico e descrittivo; quando racconta la storia d’Europa e d’Italia dal dopoguerra in poi sotto la lente del populismo.
Dal poujadismo all’euroscetticismo, dall’Uomo qualunque al Movimento 5 stelle, questa ricostruzione permette di capire che il populismo europeo e quello italiano sono stati essenzialmente di destra: una spinta spesso scomposta, latente o emersa, che nel nostro paese, per esempio, si è incarnata di volta in volta nell’esperienza di Giannini, in quella plebiscitaria di Achille Lauro, nel neofascismo, nel giustizialismo successivo a Tangentopoli, in Giancarlo Cito, nella Lega nord, in Silvio Berlusconi, in Beppe Grillo.
Sembra una storia, quella italiana, che riproduce con caratteri quasi parodistici una tradizione che ha almeno un paio di secoli. Quando Nicolao Merker in Filosofie del populismo (2009) rintracciava la matrice filosofica delle manifestazioni politiche del populismo, partiva dalla rivoluzione francese e mostrava come la degenerazione delle lotte di emancipazione abbia sempre luogo quando si finisce per mitizzare il popolo attribuendogli essenzialmente caratteristiche tribali.
Ma Merker compiva esplicitamente, nella sua analisi, un arbitrio scivoloso e dannoso: escludeva tutto quello che potremmo definire populismo di sinistra. Quello, per esempio, antitirannico, anarchico, anarcosindacalista, spontaneista, comunardo dell’ottocento; o quello trozkista, operaista, terzomondista, maoista del novecento. Di fatto Merker sembra non ritenere Antonio Gramsci un teorico del populismo, lasciandogli un paio di citazioni marginali in tutto il libro.
Gramsci invece è fondamentale. È fondamentale per Ernesto Laclau, che nel 2005 ha scritto un libro chiave: La ragione populista. Ed è fondamentale per noi, che proviamo a dirci ancora di sinistra. Attraverso Gramsci, Laclau riesce a compiere un importantissimo rovesciamento di prospettiva: il populismo fino a oggi non è solo stato degradato, è stato proprio denigrato, è stato condannato moralmente. Questo ha significato essenzialmente screditare le masse, considerando – da Gustave Le Bon in poi – patologica in sé la psicologia della folla: irrazionale, antisociale, malata. L’intelligenza del singolo nella massa sparisce, se già i romani affermavano: “I senatori sono uomini perbene, ma il senato è una cattiva bestia”.
E se invece fosse possibile un’intelligenza del popolo? E se fosse possibile costruire un “popolo” che non annichilisca le domande individuali ma le trasfiguri? Come avviene questo processo? Non si può prescindere dalle analisi di Laclau per provare a creare oggi in Italia qualcosa di vagamente durevole a sinistra. Cerchiamo di capire perché semplificando un pensiero denso come quello del filosofo argentino morto un paio di anni fa.
Al contrario di molti altri teorici del populismo, che definiscono il populismo come ideologia, mentalità, fenomeno eccetera, Laclau lo descrive più o meno come un dispositivo, o un meccanismo, che compie due azioni: rende equivalenti posizioni politiche che non lo sono, e crea una polarità, una divisione che prima non esisteva.
Fidiamoci di Laclau e facciamo un paio di esempi di quello che è accaduto in Italia negli ultimi cinque anni. È ormai innegabile che si sono affermati vari populismi: quello di Renzi, quello di Grillo e quello di Salvini, e che oggi questi sono gli unici blocchi identitari a confrontarsi nell’arena politica.
Tutti e tre hanno sfruttato il sistema illustrato da Laclau: hanno reso equivalenti delle differenze e hanno creato una polarizzazione che prima non esisteva.
La rottamazione di Renzi è riuscita a unire, per dire, socialisti e liberali, difensori di idee keynesiani con iperliberisti, cattolici e laici, attraverso una separazione del panorama politico tra vecchio (da rottamare) e nuovo (da incarnare).
L’operazione parallela di Grillo, da par suo, ha confuso e riunito classi sociali parecchio differenti, blocchi politici con aspirazioni e idee anche opposte (vedi, per esempio, sull’immigrazione), attraverso una divaricazione tra corrotti (da maledire) e onesti (il popolo del Movimento 5 stelle); quanto è stata essenziale la lettura sociale di Rizzo e Stella e del loro libro La casta per rendere credibile questa visione pentastellata?
Il populismo di Salvini è più facilmente leggibile: si basa su una divisione noi/loro = italiani/invasori che però riesce a tenere dentro “noi” anche un ceto medio impoverito, i depressi sociali, e molti di coloro che fino a qualche anno fa non avrebbero mai pensato di identificarsi nelle idee leghiste.
Come sono state possibili la nascita e lo sviluppo così rapido di queste tre ideologie postpolitiche: renzismo, grillismo, il robusto leghismo salviniano?
La crisi economica del 2008, oltre a spazzare via i cascami di quei fantasmi che hanno infestato per vent’anni la scena politica italiana – berlusconismo e antiberlusconismo – ha innescato una serie di richieste democratiche dal basso: più rappresentanza, più uguaglianza di reddito, più formazione, più accesso alle risorse, più diritti civili.
Queste domande democratiche sono spesso rimaste isolate (vedi, per esempio, quanto poco si sia riuscito a capitalizzare la battaglia del referendum sull’acqua) e sono stati scaltri Renzi, Grillo e Salvini a capire che dietro le richieste democratiche c’è sempre anche una ricerca di comunità, e a trasformarle quindi in “domande popolari equivalenziali”: ossia a sfumare le differenze tra le posizioni, e a creare questi “popoli”, della Leopolda, della rete, di Pontida, attraverso slogan in apparenza banalissimi e vuoti – rottamazione, vaffa, ruspa.
Ma, sottolinea Laclau, questa capacità politica non è altro che aver dato “pienezza a una comunità che viene a mancare”. Il nome del popolo sarà proprio il tentativo di dare un nome a questa pienezza assente.
Ecco che coloro che contestano a Renzi, a Grillo e a Casaleggio, o a Salvini, una vuotezza ideale, un trasformismo, una vaghezza dei programmi, non comprendono che è proprio questa la leva principale della loro forza politica, ne è anzi l’essenza.
Se ci convinciamo di questa lettura – e possiamo farlo vagliandola anche con quello che sta avvenendo in Europa, all’esperienza di Syriza, di Podemos, del nuovo Labour corbyniano (non è un caso che Gramsci e Laclau abbiano fatto capolino tra le letture di riferimento dei nuovi leader di sinistra) –; se ci convinciamo di questa lettura – che resiste secondo me anche alle ottime critiche di Toni Negri secondo cui Laclau naufraga in un pensiero postideologico che non comprende la struttura della società ma solo la superficie – potremmo allora da una parte rivendicare un populismo di sinistra che ha una sua lunga e autorevole storia, e dall’altra immaginare una lettura efficace della società che riesca a creare un “popolo” di sinistra forte come è accaduto in Grecia, in Spagna, nel Regno Unito.
Un populismo di sinistra credibile
Un bell’articolo di Marco D’Eramo tre anni fa ricordava che prima che il populismo da Reagan in poi fosse egemonizzato dalle destre, abbiamo avuto una lunga storia novecentesca di lotte per i diritti, per i salari, per l’uguaglianza, “contro i monarchici dell’economia”, “contro i poteri che ci hanno infilato una camicia di forza”.
Il socialismo – l’hanno ben capito Alexis Tsipras, Pablo Iglesias e Jeremy Corbyn – può consegnarci lo strumento con il quale tracciare quella divaricazione essenziale per la nascita di un populismo di sinistra credibile.
Chi c’è da una parte e chi c’è dall’altra?
Da una parte ci sono i precari, il ceto medio impoverito, ma anche i migranti che chiedono diritti, e i cittadini di un meridione socialmente depresso, e ci sono quegli studenti che non vogliono alimentare un’emigrazione che non è più fuga solo di cervelli ma di manodopera a basso costo, quelli che non hanno case di proprietà e che non possono e non potranno accedere a un mutuo, i pignorati, quelli che occupano spazi, i cosiddetti neet (coloro che non studiano e non lavorano), gli arresi, gli evasori fiscali per necessità, una massa diffusa e interclassista, di neopoveri, di quasi poveri, che provengono da contesti sociali e familiari, e persino nazionali differenti, ma che reclamano sostanzialmente reddito e accesso alle risorse, un welfare degno di questo nome.
Dall’altra parte ci sono coloro che non vogliono condividere risorse, che dispongono di un welfare privato e ristretto, che cercano di garantirsi una condizione sociale di privilegio. Impoveriti contro arricchiti. Chavs contro posh. Coatti contro fighetti.
Questo populismo a venire ci dice che non stiamo tutti sulla stessa barca. Che occorrono ed esistono delle proposte politiche a livello europeo che vanno davvero in controtendenza rispetto all’austerità – da far propria è, per esempio, quella di Marco Bertorello e Christian Marazzi di un “quantitative easing” sociale: i soldi nelle tasche delle persone e non nelle banche, come ci ha tenuto a specificare Marazzi in un recente dibattito a Roma.
Ma questo populismo ci può far immaginare anche la fine della frammentazione all’interno della sinistra radicale italiana, delle sue tante formazioni, partiti e associazioni, e può coinvolgere i milioni che non militano più oppure non votano, e spingerli a ritrovare finalmente il senso di una comunità politica in cui riconoscersi.
Fonte: Internazionale
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