di Benedetto Vecchi
L’inferno degli atelier della produzione non è necessariamente un luogo dove ci sono forni accesi, rumori assordanti, caldo insopportabile e dove gli umani sono ridotti a bestie. Il lavoro può essere infatti svolto in ambienti lindi dove viene diffusa musica rilassante e piacevole; oppure in case dove la sovrapposizione tra vita e lavoro è la regola e non l’eccezione. L’immagine più forte del lavoro non è data certo da «Tempi moderni» di Charlie Chaplin. L’omino con baffetti, cappello e bastone risucchiato negli ingranaggi delle macchine rappresenta con lievità l’orrore della catena di montaggio. Strappa un sorriso di fronte la disumanità dell’organizzazione scientifica del lavoro. Ma la rappresentazione del lavoro non è viene più neppure dalla folla rabbiosa di Metropolis di Fritz Lang. Sono due film dove è presente l’imprevisto dell’insubordinazione, della rivolta. Ma in tempi di precarietà diffusa, occorre leggere le pagine o far scorrere i fotogrammi del film tratto dal libro di Herbert George Wells La macchina del tempo per avere la misura di come è cambiato il lavoro.
Il romanzo dello scrittore inglese è utile non tanto perché ci sono gli eloi, umani ridotti a ebeti che possono consumare di tutto in attesa di essere divorati dai morlock umani-talpa che vivono nel sottosuolo per produrre chissà cosa. La macchina del tempo è un testo significativo perché rappresenta una società che ha occultato gli atelier della produzione, li ha sottratti allo sguardo pubblico. Sono come le community gated delle metropoli: zone dove lo stato di eccezione – limitazione dei diritti e della libertà personale — è la normalità. Per gli attivisti e ricercatori del gruppo «Lavoro insubordinato» sono espressione di un regime che non conosce faglie distruttive e dove la crisi è la chance che il capitale ha usato per affinare e rendere più sofisticate, e dunque più potenti, le forme di assoggettamento e di compressione del salario del lavoro vivo. Lo scrivono in un ebook dal titolo programmaticoIl regime del salario che può essere scaricato dal sito internet www.connessioniprecarie.org. Ha una introduzione di Ferruccio Gambino e saggi di Lucia Giordano, Isabella Consolati, Roberta Ferrari, Piergiorgio Angelucci, Eleonora Cappuccilli, Floriano Milesi e Francesco Agostini. Sono testi sulle nuove normative che regolano il rapporto di lavoro, dal Jobs Act, all’introduzione dei voucher, al job sharing. E se per il Jobs Act il lavoro critico è facilitato dalla mole di materiali usciti sulla legge varata in pompa magna dal governo di Matteo Renzi come panacea per la precarietà diffusa e la disoccupazione di massa, meno facile è invece restituire il valore performativo che le disposizioni sui voucher e il job sharing hanno per l’intero «regime del salario».
L’impianto analitico proposto è efficace e condivisibile. Più problematiche sono le proposte politiche avanzate nel volume. Non perché impossibili, ma perché problematica è la prospettiva indicata come necessaria: organizzare l’inorganizzabile, cioè quelle nuove figure del lavoro, disperse, frammentate, sempre più individualizzate. È con questa prospettiva che occorre fare i conti. Il limite che emerge dalle proposte avanzate è infatti il limite che si incontra quando si cerca di lacerare il velo che occulta il lavoro contemporaneo. Fanno dunque bene gli autori a nominarlo. Non ci sono infatti facili scorciatoie da imboccare.
Il mimetismo che paga
Il Jobs Act è ritenuta la forma giuridica che istituzionalizza la precarietà. Matteo Renzi e la sua squadra di governo hanno aggirato lo statuto dei lavoratori vigente, modificandone l’articolo 18 (quello sul licenziamento senza giusta causa), ma non si sono mai scagliati contro la «filosofia» garantista dello Statuto. Hanno mimetizzato l’obiettivo — rendere normale la precarietà — con la retorica di sviluppare forme di tutela per i giovani precari. Così facendo sono però riusciti a produrre consenso alla istituzionalizzazione della precarietà, visto che il Jobs Act permette il licenziamento e prevede forme di significativi sgravi contributivi per le imprese, motivando le misure come incentivi all’assunzione dei lavoratori a tempo determinato e dunque alla crescita occupazionale, cresciuta sopra il 10 per cento dopo il 2008 a causa della crisi economica globale. Che questo non sia accaduto è oggetto delle polemica politica quotidiana, con errori e omissioni da parte del Ministero del lavoro, come ha testimoniato e denunciato la ricercatrice Marta Fana sulle pagine di questo giornale. Nel volume di «Lavoro Insubordinato» viene però messo in evidenza un altro aspetto, meno presente nella discussione pubblica. Il Jobs Act ratifica anche la compressione salariale in auge da decenni in Italia. Precarietà e salari stagnanti sono inoltre le fondamenta della progressiva e tendenziale trasformazione del lavoro vivo in un esercito di working poor.
Ma queste, direbbero i soliti buon informati, sono cose note. Meno evidente è la diffusione dei voucher e del job sharing.
Sull’uso dei voucher poco si sa. Le recenti statistiche parlano di una crescita esponenziale del loro uso da parte delle imprese. Si tratta della possibilità da parte delle imprese di «assoldare» lavoratori e lavoratrici per brevi periodi, ma anche per poche ore in cambio di un voucher che può essere ritirato dal singolo in alcuni luoghi preposti. Si tratta di un’attivazione al lavoro – l’espressione tecnica parla di lavoro occasionale — che non prevede nessuna forma di regolamentazione della prestazione lavorativa. Il singolo, infatti, non ha un contratto o una forma di collaborazione codificati dal diritto del lavoro. È solo fissato un tetto economico – i voucher non possono superare la cifra dei 7mila euro l’anno per il singolo lavoratore – ma nulla più. È una delle forme più radicali di precarietà che sono state imposte al lavoro vivo. E contempla anche una colonizzazione del tempo di vita: il singolo deve essere pronto a lavorare in ogni momento. A ragione, i voucher sono considerati la forma assunta da una logica di «usa e getta», che scarica inoltre sui singoli l’attivazione di tutele individuali riguardo la pensione, la formazione, la salute. Devono cioè intraprendere la discesa negli inferi della privatizzazione del welfare state. Lo stesso si può dire del job sharing, cioè la condivisione tra due persone della stessa mansione.
Immaginata come una forma di tutela per le donne entrate nel mercato del lavoro ma che non vogliono rinunciare alla cura dei figli, il job sharing rivela anche in questo caso il progressivo abbandono dello Stato nei servizi sociali. L’assenza di asili nido, scuole materne ricade sulle donne: cosa anche questa nota. Ma questo si traduce in una condizione di assoggettamento delle donne che condividono lo stesso lavoro. È infatti prerogative loro trovare la compagna di «avventura»; e ricade su di loro la perdita di salario e una scansione della giornata che solo i «creativi» della pubblicità possono rappresentare come espressione di una onnipotenza femminile che passa dal lavoro sotto padrone a quello di cura come se niente fosse, sempre senza mai scomporsi e mantenendo un seducente sorriso sulle labbra.
Neppure i cosiddetti ammortizzatori sociali sono omessi in questo volume: ogni acronimo e sigla usata nasconde la riduzione delle tutele a elemosine per i «senza lavoro». La disoccupazione è ridotta a fatto domestico, privato, del quale lo Stato non si cura, se non nelle forme compassionevoli dell’assistenza ai poveri.
Neppure i cosiddetti ammortizzatori sociali sono omessi in questo volume: ogni acronimo e sigla usata nasconde la riduzione delle tutele a elemosine per i «senza lavoro». La disoccupazione è ridotta a fatto domestico, privato, del quale lo Stato non si cura, se non nelle forme compassionevoli dell’assistenza ai poveri.
Organizzare l’inorganizzabile
È da qualche lustro che minoranze intellettuale e gruppi di attivisti segnalano che uno degli effetti delle politiche neoliberiste è la trasformazione dell’insieme del lavoro vivo nella marxiana «fanteria leggera del capitale». Possono essere molte le forme giuridiche usate, ma rimane il fatto, incontestabile, che l’universo dei diritti sociali di cittadinanza è stato sostituito da dispositivi dove la cittadinanza è vincolata all’accettazione del «regime del salario». Quello che veniva definito come tendenza, è quindi divenuto realtà.
Quale prospettiva politica attivare per un lavoro vivo frammentato, disperso, che spesso non ha luoghi dove incontrarsi? «Organizzare l’inorganizzabile» non è solo una suggestione, bensì un programma di lavoro politico per rendere maggioranza ciò che è patrimonio di minoranze teoriche e politiche. Il primo passo è il reddito di cittadinanza, va da sé, ma c’è un suggerimento del libro del quale fare tesoro.
Il reddito di cittadinanza non può essere immaginato come una ingegneria istituzionale, delegando alla Stato sia le forme che le modalità di erogazione. Se così accadesse tutte le forme di ricatto e di nuovo assoggettamento dalle quali il reddito di cittadinanza favorirebbe l’emancipazione, ritornerebbero sulla scena dei rapporti di lavoro. Per questo va messo in relazione proprio con il regime del salario.
La presa di parola proprio del lavoro vivo nella sua eterogeneità è certo un fattore primario, ma non risolutivo del problema. Serve immaginare forme di sciopero sociale efficaci. E attivare coalizioni sociali, sottraendole però alle alchimie autoconservative che assegnano alle organizzazioni sindacali date e della cosiddetta società civile il ruolo di gate keeperdelle stesse coalizioni sociali.
Fonte: il manifesto
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