di Maria Pia Pizzolante
Olmedo, Sassari, Sardegna, Italia. Anno 2015. Una delle tante vertenze aperte in questo Paese che sembra aver deciso di ingaggiare delle guerre impari con le sue forze migliori, con i suoi giovani, con le loro speranze. E con un governo che fa le riforme e le comunica come se fossero fatte per aiutare proprio loro, i giovani e le forze migliori.
Basta farsi un giro, basta guardare oltre le televisioni e il mainstream e si scopre un Paese che lotta, ma che è disperato. Vi ricordate il Jobs Act e il suo “sarà uno strumento per tanti giovani di avere un lavoro”? Bene, ad Olmedo, o meglio nelle campagne lì intorno, c’era una volta (e c’è ancora, grazie ai suoi lavoratori) una miniera di bauxite, uno dei siti più produttivi d’Italia, in concessione ad una società greca, la S&B, che ad aprile, dalla sera alla mattina, decide di rinunciare alla concessione e di abbandonare i 35 minatori che lì lavorano con un assurdo “finalmente ce ne andiamo”.
Da aprile, questi ragazzi – la maggior parte di loro sono giovani e specializzati – sono senza stipendio e senza certezze sul futuro. Ora pare che finalmente, questa volta sul serio, sia stato firmato il decreto per la cassa integrazione straordinaria. La Regione intanto a fine luglio ha aperto il bando per la nuova concessione; ora si attendono gli esiti, ma la nuova concessionaria, chiunque sia, potrà, se vorrà, assumere, o riassumere, lavoratori che nel frattempo avevano maturato diritti e contratti dignitosi, con il tanto caro Jobs Act: un modo per declassarli e pagarli meno.
Sempre che, essendo i minatori in lotta da mesi, non si decida di non assumerli più e di puntare su lavoro meno qualificato e dunque meno costoso, tanto le altre forme contrattuali sono rimaste tutte in piedi, no? Tanto a lavorare in miniera ci può andare chiunque, no? Insomma, se ci sarà la decontribuzione, si assumerà con il Jobs Act, altrimenti chiudiamo pure e chi s’è visto s’è visto. E i mutui, le famiglie, la dignità e i sogni di queste persone?
Ho incontrato questi minatori, ho potuto ascoltare dalla loro viva voce, la speranza e la disperazione, ma la cosa più bella che mi hanno raccontato (probabilmente senza volerlo) è l’amore per il lavoro e per la loro miniera. Un amore sconosciuto a tanti di noi. A noi che non lavoriamo nello stesso posto per più di due mesi, a noi che il lavoro lo viviamo come una lotta per la sopravvivenza, a noi a cui hanno insegnato i mille lavori senza dignità e senza valorizzazione, a noi, a cui regalano il Jobs Act per farci assumere e per licenziare quelli come noi che un lavoro lo avevano e lo amavano. Effetti perversi di una riforma che non si può criticare.
In questi mesi di stallo, in cui la società greca avrebbe dovuto svolgere dei lavori di manutenzione e messa in sicurezza, non vedendo nessuno, i minatori si sono presi cura del sito e ultimamente lo hanno proprio occupato. Dando vita ad una delle proteste che più mi ha colpito per impatto e durezza. Dimostrando che è vero che, quando il lavoro nobilita, qualunque esso sia, la gente lo difende. Fino al punto di scendere a 180 metri di profondità e di chiudersi in miniera, per nove giorni. Lontani da affetti e famiglie, lontani dalle case e dagli smartphone, con solo le vivande che i minatori rimasti fuori gli fanno arrivare ad appuntamenti puntuali.
Rinunciare a tutto, compresa l’aria e la libertà, perché quella miniera è l’aria e la libertà. Non diamo valore al lavoro se non abbiamo mai avuto un lavoro di valore. Ridiamo prima valore al lavoro e poi forse avrà un senso definirsi al fianco dei “lavoratori”.
Fonte: Huffington post
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