La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 9 ottobre 2015

Creare partecipazione a sinistra, nella complessità politica italiana

Intervista a Luciana Castellina di Nicolò Ollino
Ieri sera ho avuto l’onore di conoscere Luciana Castellina e di condividere con lei una bella serata assieme a tanti compagni e compagne parlando di temi attuali e di trascorsi storici determinanti ancora oggi, di buone pratiche per la Sinistra da rifare, di futuro."
– Cara Luciana, partiamo da un paio di riflessioni sulla figura di Pietro Ingrao, compagno verso cui tutti, in particolare noi giovani, abbiamo e avremo un enorme debito di riconoscenza per l’eredità che ci lascia in termini di elaborazione teorica e di pratica politica quotidiana.
Raccontami il ricordo più significativo che conservi di lui, e dimmi che cosa trasmette come insegnamento a chi in questa fase storica sta provando a costruire una sinistra di popolo, di massa, di alternativa.
"Mi fa piacere poter cominciare da Pietro, anche per rivedere l’interpretazione che molti danno di lui: l’uomo del dubbio, quasi come se stesse tutto il giorno a sfogliare la margherita in preda a dubbi irresistibili. In realtà lui aveva molte certezze ovviamente. Era uomo del dubbio perché non si contentava di verità assolute indiscutibili e perché, ad esempio, la prima cosa che faceva ad una riunione era chiedere a chi gli stava intorno “e tu come la pensi?”, proprio per una sete di sapere, conoscere, condividere.
Ricordo come momento significativo l’XI Congresso del PCI, quello del ’66, che registrò una rottura esplicita di Ingrao e degli ingraiani – noi che fummo mai una corrente ma una tribù come mi piace dirlo perché per la nostra cultura non saremmo neanche stati in grado di definirci corrente – per un dissenso forte, non dubbio, che si registrò nella discussione con la “destra” del Partito, nel pieno della modernizzazione. Sostanzialmente Pietro e noi sostenevamo che non era più valida l’immagine dell’italietta arretrata, immatura, ancora in pieno ammodernamento: l’Italia era ormai un Paese a capitalismo avanzato e noi registrammo con il nostro dissenso un ritardo del Partito a cogliere l’evoluzione della società e quindi nell’elaborazione e proposta di un nuovo modello di sviluppo.
Invece ciò che Pietro ci lascia come insegnamento è un cosa che amava ripetere ai compagni, ai più giovani: “il voto non basta”. Oggi, in piena crisi della sinistra e della democrazia, vale più che mai. I potenti non hanno bisogno della democrazia, la Sinistra vive di politica e di democrazia invece, di partecipazione."
– A proposito di democrazia, il Governo Renzi punta allo stravolgimento della Costituzione con figure come Verdini o Alfano, prepara la limitazione del diritto di sciopero e un’ulteriore compressione della contrattazione collettiva, ha già fatto una legge elettorale abominevole e potrei continuare. In tutto ciò non sembra porsi realmente la questione del consenso popolare: in fin dei conti un mandato su questo programma non lo ha e le elezioni politiche sono distanti. Come opporsi efficacemente senza cadere nella depressione, disarmati, senza perdere le forze? Il “nuovo partito della sinistra”, tra l’altro, tutti ne parlano ma non decolla, tutti hanno ricette ma i risultati non si colgono.
"Non bisogna essere pessimisti perché la società italiana non è una società spoliticizzata e nonostante l’imbarbarimento ha ancora una larga parte di popolazione attiva ed organizzata in comitati. C’è molto fermento sociale e molto volontariato diffuso, ad esempio sul tema dei migranti, l’ARCI come tanti altri soggetti e c’è il problema di come tenere in un contesto omogeneo tutto questo.
Abbiamo però un problema: io mi sono, dico ironicamente, arrabbiata tantissimo quando ha vinto Corbyn alle primarie del Labour. Mi son detta “ma come?”, una società come quella britannica, conservatrice, spoliticizzata vede nascere come un fiore Corbyn e noi con tutta la nostra storia dobbiamo avere Renzi?! Il fatto è che li Corbyn aveva come avversario la destra, Cameron, qui Renzi ha questa grossa ambiguità alle spalle, che teoricamente arriva dalla sinistra e lui ci gioca su questo per mettere in difficoltà. Noi in Italia abbiamo la storia bellissima e però ingombrante del PCI: quando nel ’91 è stato sciolto il PCI si è spezzata la spina dorsale a decine di migliaia di militanti e iscritti, li si è frustrati, gli si è detto che ciò che avevano fatto era stato un errore e che il ventesimo secolo andava bollato come barbarie e che bisognava quasi vergognarsi di aver portato il nome comunista. I riflessi diretti questi avvenimenti fondamentali li hanno avuti su una generazione oggi non più giovane ma la cancellazione della memoria si ripercuote anche, indirettamente, sui giovani di oggi, e pesa. C’è poi un mondo che era nel PCI e che oggi è nel PD, anche se poi partecipa agli scioperi della CGIL, o che si astiene e che non vota altro però perché tende a considerarlo ancora un tradimento, eppure è un corpo con il quale noi, nonostante Renzi, dobbiamo ancora avere un rapporto, dobbiamo ancora parlare. Da noi costruire una vera resistenza e una forza di sinistra è compito più difficile che in Grecia o in Spagna proprio perché abbiamo tutta questa storia.
Ma tu volevi sapere ora che facciamo e ti dicevo di non essere pessimista. Noi abbiamo oltre i vari comitati che dicevo anche due partiti, SEL e Rifondazione, SEL più grossa e con bene o male 36 deputati e con più da perdere. Infatti è stata ancora più coraggiosa a capire che non si può fare una federazione, un’accozzaglia, una nuova Arcobaleno o una sommatoria ma che ci va un soggetto. Non si può neanche pensare di stare li e, capiscimi, rispettare continuamente il pensiero dell’altro, non basta. Bisogna che si arrivi non dico al pensiero unico ma ad una consonanza nell’elaborazione, altrimenti al primo scoglio ci si divide di nuovo. Edward Said, grandissimo scrittore palestinese, diceva: “l’altro sia una risorsa critica per me stesso”. Ci sono poi i comitati Tsipras dell’Altra Europa, che sono una realtà ancora importante e si preme da ogni parte per arrivare ad un processo unitario, ma se si pensa che questo processo si fa dal nazionale non funziona. Va fatto dai territori, partendo dalle forme organizzate e tenendo conto che l’80% di quelli potenzialmente interessati sta fuori dalle forme organizzate, respingendo la tendenza catastrofica della sinistra di pensare che il mondo sia la sinistra stessa, perdendo il contatto con la realtà delle persone normali."
– A me sembra inoltre che a sinistra abbiamo smesso da anni di elaborare punti di vista autonomi e autorevoli ma che ripieghiamo sulla auto-rappresentazione di riflesso rispetto ad altri attori prevalenti della scena politica, il PD piuttosto che il M5S. Quanto stiamo distanti dal PD o più vicini, quanto critichiamo questa o quella proposta del Movimento. Infatti nuovamente i maggiori problemi in vista dell’unità sembrano essere quelli attinenti al rapporto con gli altri piuttosto che all’accordo tra noi sui temi, ed è un problema, naturalmente perché così evitiamo il confronto sui contenuti ma anche perché non riusciamo ad affrontare il tema dell’innovazione delle forme della politica dato che quelle tradizionali sono in crisi. Che ne pensi?
"Può darsi che il processo slitti un po’ più avanti, ma badate, non è perché a Roma non si decide o non solo. Questo processo o si incorpora su un sentimento diffuso oppure.. ad esempio, a che punto siete voi ad Asti? Non si può pensare che si fa a Roma con un accordo di vertice: bisogna uscire dall’equivoco che presto o tardi qualcuno ci dice “to’h abbiamo fatto il Partito”. O c’è un sentimento diffuso nel Paese o non si può pensare che anche un paio di migliaia di persone che vuole questa cosa faccia partire un processo che funziona davvero. Altrimenti rischia di essere una giustapposizione di gruppi. E anche tra questi, e anche tra chi esce dal PD, bene, non si può andare per conto proprio ma bisogna muoversi in consonanza con ciò che c’è, parlo di Civati e Fassina.
C’ è poi lo scoglio evidentissimo che tu hai citato che è sostanzialmente “che facciamo alle elezioni amministrative?”. Sarebbe facilissimo fare un nuovo partito se decidessimo di non partecipare alle elezioni per cinque anni, ma dato che ci sono dobbiamo farci i conti. Badate che questo è un problema comune a tutti, una sinistra diciamo a sinistra della socialdemocrazia per capirci che non è abbastanza forte per vincere le elezioni ma lo è abbastanza per determinare, se non accetta l’accordo, la vittoria della destra: di questo si tratta. A Milano che succede? Il rischio di far vincere Salvini, ma per non farlo vincere con chi ci alleaiamo? Insomma è un problema serio, grosso, non sono solo beghe. C’è chi dice “mai con il PD, mai primarie”, forse sarebbe più saggio dire che noi ci dotiamo di punti qualificanti che poi misuriamo nelle varie situazioni, sapendo differenziare.
Anche se forse il vero punto da porci è un altro: dato che è assodato che il potere non si prende più con l’assalto al Palazzo d’Inverno dovremmo però anche dire che non si prende neanche solo conquistando un governo con le elezioni, non è così, il governo non è il potere. Il primo laburista che andò al governo negli anni ’30, Mc Donald, disse “credevo che la cosa peggiore fosse essere fuori dal governo e non poter fare niente, in realtà è peggio essere al governo e non poter fare quasi niente”. Tsipras stesso se ne sta rendendo conto, facendo i conti con le burocrazie. Bisogna cambiare la mentalità, il modo di essere e di produrre, di consumare, creare delle strutture altrimenti puoi anche avere il 65% alle elezioni e non combinare niente lo stesso.
Allora che cosa facciamo? Costruiamo dei corpi che abbiano abbastanza forza, una rete di organismi di democrazia organizzata, che possano far riappropriare le persone di possibilità di partecipare e che ovviamente questi corpi abbiano un rapporto continuo con il processo che vogliamo iniziare e con il Partito che vogliamo costruire, per non renderlo un piccolo Partito autoreferenziale. Diciamo che lavoro da fare ce n’è tanto, basta iniziare."

Fonte: Esseblog.it

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