di Francesco Martone
Il semi-scoop, poi ridimensionato, sull’eventuale uso dei Tornado italiani di stanza in Kuwait per bombardare Daesh (Isis) in Iraq solleva questioni cruciali. Certamente è imperativo richiamare il governo ai suoi doveri istituzionali di coinvolgere il Parlamento in decisioni più che sensibili per la politica estera del paese.
Ormai è un dato di fatto, certo da contrastare politicamente, che le decisioni di politica estera «hard», ossia sull’uso della forza militare, siano sottratte al Parlamento che si limita ad avallare decisioni già prese. O a sottostare ad interpretazioni discutibili sulla legittimità politica della decisione in questione: basti pensare a come il governo ha deciso sul l’invio di armi ai peshmerga iracheni, e sulla relativa risoluzione delle Commissioni Esteri e Difesa riunite nell’ estate 2014, di avviare l’ escalation con l’invio di Tornado e drone da ricognizione.
C’è certo una questione di metodo da stigmatizzare, ma soprattutto di merito. Bombardare in Iraq è una pessima idea che precluderebbe un’eventuale soluzione politica spesso evocata, ma mai effettivamente messa in pratica.
Sostenere e assecondare le richieste del governo Abadi, nel quale Al Maliki resta vicepresidente rischierebbe di rafforzare gli sciiti piuttosto che spingerli verso un compromesso con i sunniti, elemento centrale per un governo inclusivo. Anche perché questo governo poco o nulla ha fatto per ripagare quel debito storico di Maliki verso i sunniti, fatto di minacce, repressione e violenza, che ha assicurato un terreno fertile per Daesh. Contribuire all’escalation delle operazioni della coalizione internazionale contro l’Isis in Iraq — dove il conflitto è interno, a differenza della Siria dove il conflitto è una guerra per procura tra varie potenze vecchie o aspiranti tali — sortirebbe poi l’effetto perverso di deresponsabilizzare quegli attori regionali, quali Iran, Turchia ed Arabia Saudita, che dovrebbero decidersi a rinunciare alle proprie aspirazioni geopolitiche e impegnarsi a contrastare Daesh contribuendo alla ricostruzione di un assetto politico stabile nella regione.
Per quanto riguarda l’Italia, questo episodio pare l’ennesima riprova di mancanza di prospettiva strategica. E nel caso dell’Iraq come della Libia o dell’Afghanistan, si supplisce affidandosi allo strumento militare — oltre che su alleanze discutibili quali l’asse creato da Matteo Renzi con Al-Sisi e Netanyahu — scelta che preclude la possibilità di pensare ad una politica estera «altra», in un contesto reso ancor più intricato dall’entrata in gioco della Russia.
Scelta scellerata quella che riguarda il Medio Oriente, che rimanda alla necessità di rompere il silenzio sulla tragedia palestinese — un popolo senza diritti e sotto occupazione militare, senza Stato e terra insidiata e negata dalla strategia colonizzatrice israeliana — che si consuma nel sangue sotto i nostri occhi. Per quanto riguarda l’Iraq, è evidente che Daesh non potrà essere sconfitto con le armi (a maggior ragione 4 Tornado non faranno la differenza), ma con una politica di contenimento e di ricostruzione di una cornice di governo che sia inclusiva dei sunniti, rinnovata e credibile. Ipotesi del tutto remota con questo governo a Baghdad, al centro di mobilitazioni di piazza senza precedenti.
Che fare allora? Una politica estera di costruzione attiva della pace dovrebbe fondarsi su quattro pilastri: diplomazia, negoziato, aiuti e embargo delle armi. Ovvero rilancio dell’iniziativa diplomatica con chi sostiene l’Isis, stop all’invio di armi e de-escalation, sostegno per un governo inter-religioso e plurietnico in Iraq, che riconosca autonomia ai kurdi e recepisca le istanze della società civile e dei movimenti che di recente hanno partecipato a Forum Sociale Iracheno.
Eppoi sostenere Libano e Giordania oggi in grande difficoltà nella gestione dell’enorme massa di profughi siriani, rafforzando con gli strumenti dell’intelligence il controllo delle frontiere locali, non per arginare l’esodo dei profughi, ma per prevenire lo spostamento delle milizie Isis da un teatro all’altro, come avviene ancora oggi sulla frontiera tra Turchia e Rojava.
Ma forse la boutade sull’Iraq era solo tale, per sondare il terreno, e capire dove poter cercare di mettersi in evidenza, provare ad essere invitati nei tavoli che contano. Se così fosse oltre dalla mancanza di prospettiva strategica o di un’ipotesi politica di gestione e soluzione della crisi, la Farnesina e Palazzo Chigi sembrano essere condannati all’irrilevanza sugli scacchieri internazionali, in particolare su quello libico. Un altro dossier ancor più delicato ed urgente dopo l’annuncio fatto a fine mandato dall’ormai ex-inviato speciale Onu Bernardino Leon di un fragile accordo tra Tobruk e Tripoli, che apre allarmanti prospettive per un’avventura militare italiana in Libia. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso.
Fonte: il manifesto
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