di Gad Lerner
E se avessero ragione loro? Se avesse ragione chi denuncia il potenziale minaccioso insito nella moltitudine di persone disposte a rischiare tutto pur di lasciare il paese in cui sono nate, e cercare altrove una vita migliore? Non ho certo cambiato idea sull’insulsa velleità di tamponare o deviare il flusso dei migranti erigendo recinti di filo spinato. Né potrò mai sopportare gli argomenti di denigrazione xenofoba, con cui si cerca giustificazione morale al loro respingimento.
È innegabile, però, che la figura sociale e la dimensione esistenziale del migrante stanno assumendo, nel XXI secolo, una centralità destinata a scuotere le fondamenta degli stati e del sistema economico vigente. Usando una terminologia d’altri tempi, il migrante è il nuovo proletario che non ha altro da perdere che le proprie catene. Senza bisogno di replicare l’assunto marxiano della “classe generale” che liberando sé stessa libererà l’umanità intera –francamente, oggi non pare questa la prospettiva – resta difficile sfuggire a questa evocazione. Quella che ci aspetta non sarà lotta di classe. Piuttosto che le aggregazioni sociali, peseranno semmai le diaspore organizzate, ma ugualmente stiamo cominciando a vivere il fronteggiarsi diretto fra categorie umane portatrici di interessi molto difficili da armonizzare.
Non voglio qui addentrarmi in un’analisi di tipo sociologico. Mi basta sottolineare, sul piano culturale, l’importanza simbolica assunta dal Viaggio – inteso come traversata dolorosa e rischiosa dell’ignoto – nel mondo sconvolto da disuguaglianze, percepibili come mai lo furono prima della diffusione globale delle informazioni in tempo reale.
Non è casuale che fra gli argomenti più popolari adoperati per negare l’accoglienza ai profughi, vi sia quello del telefonino: «Ma come, non vedete che quelli vanno in giro con gli smartphone ultimo modello, e si lamentano pure se non gli diamo il wifi?». L’interconnessione è divenuta un bisogno primario, al pari del cibo e della protezione dalla violenza, anche fra coloro che eravamo abituati a liquidare come esseri primitivi. Conoscono i nostri stili di vita e i nostri consumi, li confrontano quotidianamente con il proprio destino di uomini senza diritti, cui è negato perfino uno status giuridico. La scelta di partire è fondata su una solida consapevolezza.
Ma per quanto gli economisti si affannino a dimostrare il fabbisogno di nuova manodopera, per quanto i demografi spieghino che le nostre società invecchiate hanno bisogno di nuove generazioni immigrate, permane l’interrogativo subliminale: cosa ci porteranno via?
E così scatta istintivo il passo indietro dell’etnonazionalismo: nel lavoro, nella protezione sociale, nei diritti politici, “prima vengono i nostri”. A “loro” sia destinato, se proprio si deve, quel che avanza.
Difficilissima si profila l’impresa di contemperare la tutela dei ceti popolari autoctoni con il principio della libera circolazione delle persone che non possono essere costrette a risiedere nel luogo in cui sono nate. Ma è solo in questo tentativo di rappresentare insieme gli interessi dei più deboli, superando le loro appartenenze etniche e religiose, che può attenuarsi la portata sovversiva della figura del migrante.
Fonte: Nigrizia
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