di Roberto Romano
Nell’ultimo periodo sono stati pubblicati molti dati sulla crescita dell’Italia, dove la Lombardia giocherebbe un ruolo di rilievo. Secondo un ampia pubblicistica il paese sarebbe uscito dalla recessione, imboccando la strada della ripresa, mentre la Lombardia anticipa l’inversione di tendenza in ragione della sua forza economica e, in particolare, industriale. Se osserviamo con maggiore attenzione le stime di crescita per il 2015 e il 2016, in particolare quelle di Standard&Poor’s, possiamo solo registrare che la crescita dell’Italia è molto più lenta della media europea, ed è condizionata dall’andamento dei salari e dalla sottocapitalizzazione dell’intera economia. Solo una soluzione positiva dal lato dei salari e degli investimenti potrebbe consolidare l’inversione di tendenza di questi ultimi due trimestri. In altri termini, Standard&Poor’s sottolinea la necessità di politiche coerenti per consolidare la domanda interna e per rafforzare la struttura del paese.
Se di primo acchito sembrano proposte di buon senso, in realtà, queste idee modificano solo a margine i problemi che l’intero paese deve affrontare.
Infatti, l’aumento dei salari e degli investimenti, per essere efficaci, dovrebbero implementarsi nel mercato primario, non attraverso le politiche fiscali. Queste ultime hanno un ruolo diverso e particolare. Se l’aumento dei salari interviene attraverso il taglio delle tasse, l’esito sarà quello di ridurre la domanda che le tasse alimentano via servizi e stato sociale. C’è una sostanziale e indiscutibile differenza tra ri-modulare la pressione fiscale a favore dei redditi più bassi, e tagliare le tasse. La prima operazione alimenta i consumi dei redditi più poveri, mentre i ricchi riducono solo il reddito risparmiato, nel mentre rimane costante la spesa pubblica; la seconda aumenta il reddito disponibile ma allo stesso tempo ha la contro indicazione di tagliare la spesa pubblica. Il taglio delle tasse potrebbe realizzarsi con un temporaneo deficit (Giavazzi), ma i vincoli europei e la miopia del governo non alimentano questa speranza. La recente proposta del governo di tagliare le imposte sulla prima casa fa il paio con i tagli alla sanità e l’avvio soft della rivisitazione della tax expanditures che, in ultima analisi, concorre a redistribuire reddito per alcune particolari classi di reddito e per alcuni particolari bisogni.
Infatti, l’aumento dei salari e degli investimenti, per essere efficaci, dovrebbero implementarsi nel mercato primario, non attraverso le politiche fiscali. Queste ultime hanno un ruolo diverso e particolare. Se l’aumento dei salari interviene attraverso il taglio delle tasse, l’esito sarà quello di ridurre la domanda che le tasse alimentano via servizi e stato sociale. C’è una sostanziale e indiscutibile differenza tra ri-modulare la pressione fiscale a favore dei redditi più bassi, e tagliare le tasse. La prima operazione alimenta i consumi dei redditi più poveri, mentre i ricchi riducono solo il reddito risparmiato, nel mentre rimane costante la spesa pubblica; la seconda aumenta il reddito disponibile ma allo stesso tempo ha la contro indicazione di tagliare la spesa pubblica. Il taglio delle tasse potrebbe realizzarsi con un temporaneo deficit (Giavazzi), ma i vincoli europei e la miopia del governo non alimentano questa speranza. La recente proposta del governo di tagliare le imposte sulla prima casa fa il paio con i tagli alla sanità e l’avvio soft della rivisitazione della tax expanditures che, in ultima analisi, concorre a redistribuire reddito per alcune particolari classi di reddito e per alcuni particolari bisogni.
L’uscita dalla recessione tecnica è, più che altro, l’esito delle politiche monetarie adottate dalla BCE che hanno permesso un parziale deprezzamento dell’euro sulle principali monete internazionali e la riduzione dei tassi di interesse sui titoli pubblici, unitamente a un ridimensionamento del prezzo del petrolio. Al netto di queste misure, il concorso alla crescita del governo italiano è sostanzialmente nullo e, per alcuni aspetti, recessivo. Infatti, la crescita economica delineata dal governo nazionale, come da quello della regione Lombardia, è interamente lasciata alla capacità delle imprese di esportare. In altri termini, ritorna il problema sottolineato da Stanndard&Poor’s: bassi salari e investimenti inadeguati. In questo modo la crescita dell’Italia e della Lombardia è interamente legata alla capacità di produrre beni e servizi a prezzi più contenuti, dimenticando che nel frattempo la crisi finanziaria, iniziata nel 2007, ha raggiunto anche i Paesi BRIC, in particolare la Cina, un serbatoio che difficilmente potrà sostenere la domanda internazionale. Quindi la crescita dell’Italia e della Lombardia rimane ancorata alla solita e stantia proposta della crescita via riduzione dei costi di produzione. Un orizzonte che avvicina sempre di più il Paese al target dei paesi emergenti. Si passa dalla competizione tra paesi ricchi, ad una competizione tra paesi poveri con paesi poveri. La scelta di ridurre le imposte su profitto e IRAP, per non parlare dei soliti incentivi agli investimenti -rimane un mistero del perché le imprese dovrebbero investire a margine delle imposte invece che investire per consolidare e anticipare la domanda di beni e servizi-, tratteggia una politica che lascia le imprese e il lavoro (nel mercato) soli, senza guida e orizzonte. È la stessa filosofia della legge regionale (Lombardia) n° 1/2014 “Impresa Lombardia: per la libertà di impresa, il lavoro e la competitività” e del Documento Strategico per le Politiche Industriali di Regione Lombardia 2013-2018 (DGR X/1379/2014). Il solo fatto di pensare che gli incentivi a favore delle imprese per nuovi investimenti possano modificare la struttura del Paese e della Lombardia, mostra l’impoverimento della classe dirigente. Senza scomodare grandi politici ed economisti -ricordo gli interventi di Sylos Labini alla Camera dei Deputati del 1962 (Commissione di inchiesta sui limiti alla concorrenza), Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini e Giorgio Fuà, così come Riccardo Lombardi e le politiche riformiste che portarono alla nazionalizzazione dell’energia, al dibattito su oligopolio e concorrenza-, è il caso di ricordare che solo le riforme di struttura possono cambiare il segno del potere e, quindi, conseguire un equilibrio superiore. Se la struttura produttiva della regione fosse in linea con quella europea, gli incentivi funzionerebbero, ma la specializzazione produttiva dell’industria nazionale e lombarda può solo realizzare beni intermedi e quindi di subfornitura. Se va bene possiamo agganciare le grandi imprese continentali, diversamente possiamo solo ritagliarci spazi di mercato sempre più residuali.
Alcune proposte economiche e sociali convincenti sono state recentemente discusse e proposte dalla CGIL. Penso a “Riforma del capitalismo e democrazia economica, per un nuovo modello di sviluppo”, a cura di L. Pennacchi e R. Sanna, ed. Ediesse. Nel libro possiamo trovare molti contributi dei più importanti economisti nazionali: Roberto Artoni, Riccardo Bellofiore, Stefano Lucarelli, Roberto Romano, Sergio Ferrari, Paolo Leon, Paolo Borioni, Vladimiro Giacchè, Luca Fantacci, ed altri ancora. Un ricordo particolare è per l’amico Silvano Andriani che ci ha lasciato da poco, ma la sua analisi su “rappresentanza politica del lavoro” è uno stimolo che non possiamo trascurare. Peccato che il lavoro del forum degli economisti della cgil, di cui mi onoro di farne parte, non sembra essere stato compreso. Mi spiego meglio. Questo libro è la continuazione del “Libro Bianco del Lavoro” del forum degli economisti della CGIL. Teoricamente dovrebbe diventare il perno della discussione politica ed economica. Peccato che ancora in troppi si applicano a veicolare e discutere le proposte governative, nonostante sia stato segnalato più volte che la CGIL ha un piano del lavoro che sviluppa delle tesi molto diverse da quelle che legano gli investimenti agli incentivi fiscali. Avremo modo di discutere di questo lavoro e delle proposte contenute, ma l’aneddoto serve per sottolineare come il paese e la Lombardia non ha solo un problema di struttura produttiva, ma anche un problema culturale che si aggiunge alla sua difficoltà economica.
Il ragionamento è utile per collocare “geograficamente” la Lombardia e l’Italia quando sentiamo affermazioni roboanti su crescita economica, industria ed esportazioni. Il mio maestro Sergio Ferrari (25 settembre 2015, Il manifesto, R. Romano e S. Ferrari) sottolinea che la discussione nazionale sembra estranea a quanto accade a livello internazionale. Solo in questo modo possiamo sostenere che l’Italia è uscita dalla crisi oppure che la Lombardia è un motore (locomotiva) dell’Europa. Proviamo a fare un esempio vero. La crescita economica Europea per il 2015 è prevista all’1,4%, allo 0,9% per l’Italia –il dato è del governo ed abbastanza generoso-, e all’1,1 per la Lombardia. Possiamo sostenere tante cose, ma da oltre 15 anni la crescita economica dell’Italia e della Lombardia è più bassa di quella media europea, cumulando ritardi che ammontano a quasi 12 punti di PIL. La Lombardia cresce? L’Italia è uscita dalla recessione? In realtà, l’Italia e la Lombardia continuano a perdere terreno, de-cumulando conoscenza, reddito e qualsiasi prospettiva-capacità di organizzare il proprio futuro.
Se il ritardo cumulato è grave in sé, la faccenda si complica se studiamo gli investimenti delle imprese italiane e lombarde. Infatti, le imprese nazionali e, in particolare, lombarde hanno investito di più della media europea, ma non per questo abbiamo raggiunto l’Europa. Un aspetto trattato proprio nel libro bianco del lavoro della cgil (R. Romano, S. Lucarelli, S. Ferrari). Proviamo a capire cosa sono gli investimenti. Per una impresa l’investimento è l’acquisto di un bene capitale (strumentale). Il fine è quello di accrescere la sua (propria) capacità produttiva, oppure di incorporare una innovazione tecnologica. L’impresa non fa ricerca e sviluppo, ma l’acquisto della nuova macchina permette di affrontare al meglio il mercato. In questo senso le imprese italiane hanno fatto tutto quello che potevano. Quelle lombarde sono andate persino oltre. Ora dobbiamo farci la seguente domanda: che cos’è un investimento? Così come una impresa acquista un bene strumentale per consolidare la propria struttura produttiva, sul mercato ci deve essere un altra impresa che produce il bene strumentale. In questo modo si crea lavoro buono nelle imprese che producono beni strumentali e, allo stesso tempo, c’è una maggiore possibilità di conservare lavoro nelle imprese che acquistano i macchinari.
Il problema dell’Italia e della Lombardia è proprio nell’offerta di beni strumentali, non tanto dal lato della meccanica, alla fine assembliamo beni strumentali, piuttosto dal lato dell’alta tecnologia. Tutta la tecnologia adottata nei beni strumentali, così come una gran parte dei beni strumentali, è sostanzialmente importata. Per questo il PIL della Lombardia e dell’Italia cresce meno della media europea. La situazione è grave, ma potrebbe andare peggio. Infatti, il de-cumulo di conoscenza di questi anni ha persino eroso la capacità di scegliere la tecnica e l’impianto più idoneo alla nostra manifattura.
L’unica cosa che posso suggerire è quella di avviare una seria discussione su politica industriale utilizzando proprio “Riforma del capitalismo e democrazia economica, per un nuovo modello di sviluppo”. Ci sono altre proposte di buon senso come quella realizzata da sbilanciamoci, SEL, Rifondazione -Roberta Fantozzi-, ma al momento il contributo scientifico più vicino al pensiero riformista-socialista di cambio della struttura è questo.
Una buona discussione sul tema, richiamerebbe anche dei distratti sindacalisti e politici a leggere queste proposte.
Fonte: sbilanciamoci.info
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