di Leonardo Clausi
Mai come nel caso del neoeletto leader del Labour Party, Jeremy Corbyn, si era invertita la piramide gerarchica all’interno di un partito di opposizione, con la base che ha spettacolarmente scippato il timone alla dirigenza. E le conseguenze sono dirompenti, sia per le ripercussioni negli equilibri interni al partito e nella propaganda dei conservatori – il cui congresso, tenutosi a Manchester, si è appena concluso — che per via dell’ormai ben nota eresia corbyniana su due cardini dello status quo politico-istituzionale del paese: gli armamenti nucleari e la monarchia.
Un’eresia, quella del segretario, perfettamente familiare e condivisa dalle frange militanti e socialiste che ne hanno resa possibile la mirabolante vittoria e proprio per questo altrettanto invisa e impresentabile per la maggioranza dei deputati centristi, terrorizzati da un futuro di pluridecennale marginalità per il partito.
Il rinnovo del sistema missilistico Trident – megaprogramma bellico-nucleare di durata pluriennale che andrà presto votato in parlamento e il cui costo basterebbe a risolvere n emergenze umanitarie, è stato il primo test. Già durante il recente congresso di Brighton, tra il pacifista Corbyn, da sempre attivo sul fronte del disarmo unilaterale, e i moderati del suo governo-ombra sono emerse evidenti frizioni.
Con i volti corrucciati in una gravitas di circostanza, una sequela di analisti politici televisivi è sfilata davanti al neosegretario chiedendogli «Lei dunque non premerebbe il bottone (dell’attacco nucleare) per difendere la Gran Bretagna?» Corbyn ha ribadito la sua contrarietà all’arsenale nucleare, un’opposizione, va forse ricordato, in totale discontinuità con tutti i suoi predecessori dal secondo dopoguerra a oggi e si è detto ancora una volta pronto a intavolare una discussione aperta con i dissenzienti, ma è chiaro che ad attendere l’unità del partito di cui si è fatto infaticabile promotore è un futuro difficile.
C’è poi la madre di tutte le anglo-eresie, e cioè il repubblicanesimo di Corbyn. Il suo ruolo di leader del partito d’opposizione implica la partecipazione a una sequela di antichissime liturgie, prostrazioni, professioni di fedeltà alla sovrana e liriche intonazioni d’inni nazionali. All’oltraggio recentemente arrecato dal suo silenzio durante l’inno nella messa di suffragio per la battaglia d’Inghilterra ha fatto seguito il non presentarsi, lo scorso 8 ottobre, alla cerimonia del Privy Council, o Consiglio della corona, anch’esso antichissimo organismo composto dalla crema della crema — 500 optimates fra laici e chierici — che ha lo scopo di consigliare la monarca nel logorante esercizio della sua monarchia e che comporta l’accesso a riservate informazioni circa la sicurezza nazionale.
La questione è del tutto formale: l’ammissione al consiglio può anche avvenire senza genuflessioni e baciamano a Elizabeth Windsor, e lo stesso Cameron ha mancato tre volte l’evento dopo la sua elezione a leader del partito. Ma è chiaro quanto, in un paese ancora confidentemente monarchico, l’equilibrismo di Corbyn si faccia delicato. Durante la campagna elettorale aveva detto che rimpiazzare la monarchia non era prioritario e un portavoce del partito ha confermato che diventerà presto membro del consiglio. Ma questa coerente professione di repubblicanesimo è corroborante per i suoi sostenitori quanto lo è per i Tories e i loro spin doctors.
I quali nel frattempo, un po’ come gli sceneggiatori dell’indimenticata serie televisiva «Boris», hanno subito cominciato a infarcire i discorsi di Cameron, Osborne e di Boris Johnson di soundbit come «terreno comune» (common ground), termine che indica in buona sostanza il centro, per poi superarsi quando, in occasione del suo atteso discorso di chiusura del congresso di Manchester, Cameron, come già Osborne prima di lui, si è spinto fino a definire il suo il «partito dei lavoratori», alludendo forse agli startupper di Shoreditch finanziati dalla City.
Discorso in conflitto con quello paraxenofobico del ministro dell’interno Theresa May, che nella corsa alla leadership — Cameron ha annunciato che lascerà prima delle prossime elezioni nel 2020 — ha deciso di rivolgersi alla destra del partito lanciandosi in un attacco anti-immigrati che ha inorridito quegli imprenditori i cui business fioriscono grazie a contratti a zero ore e a trattamenti salariali che solo i migranti economici accettano per disperazione.
Ma se in questo congresso Cameron ha gustato il sapore dell’insperata e risicata maggioranza parlamentare, la settimana del premier non è stata proprio tutta rosa e fiori. Chiedendogli conto della «squallida» alleanza con gli autocratici Sauditi, prossimi a decapitare un dissidente diciassettenne, in un’intervista su Channel Four, il veterano Jon Snow lo ha costretto a una giustificazione stentata e penosa.
Fonte: il manifesto
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