di Massimo Villone
Il presidente di Confindustria rompe sul nuovo modello contrattuale. A quanto leggiamo, ritiene impossibile portare avanti qualunque trattativa con il sindacato, non essendoci margini per poter proseguire il colloquio sui contratti nel modo tradizionale.
La mossa di Squinzi troverebbe origine nell’analisi di Confindustria (nota CSC del 3.10.2015) secondo cui negli ultimi anni le retribuzioni sono cresciute troppo e il peso dei salari sul Pil sarebbe oggi risalito ai massimi storici, raggiunti negli anni ’70.
Da qui la frenata. Ma, anche a voler prendere per buone le cifre di Confindustria, quel che non si dice è che il rapporto salari-Pil è mutato soprattutto per il crollo del Pil dovuto alla crisi. A Confindustria piacerebbe che piuttosto fossero crollati i salari, anche se già così molti milioni di famiglie non arrivano a fine mese.
E se la rottura con il sindacato fosse strumentale? Fa pensare la notizia che il governo pensa a un salario minimo ex lege. Può sembrare una provvida attenzione per i lavoratori. Ma ancora una volta il trucco c’è, e si vede. Perché in realtà un modello contrattuale – quello che Squinzi non vuole discutere — avanza sullo sfondo. Al salario minimo legale si accompagnerebbe il sostanziale azzeramento del contratto nazionale, in favore della contrattazione decentrata, territoriale o aziendale.
Abbiamo vissuto stagioni diverse – anche difficili — nel rapporto tra il contratto collettivo nazionale e la contrattazione decentrata, su punti nodali come il divieto o meno della reformatio in pejus da parte di quest’ultima. Ma il contratto collettivo nazionale ha avuto comunque una sua centralità, concorrendo a determinare una soggettività politica in senso lato del sindacato, soprattutto in rapporto al governo. Soggettività che sarebbe ben difficile riscontrare in un contesto fondato essenzialmente su contrattazione decentrata e garanzie minime ex lege. Non dimentichiamo che il lungo viaggio del sindacato verso quella soggettività ebbe inizio, oltre che con l’art. 39 Cost., quando la legge 741/1959 delegò il governo a recepire in decreti legislativi – quindi, in norme di legge – i minimi di trattamento economico e normativo dei contratti collettivi.
Nelle mosse di Squinzi e di Palazzo Chigi si intravede una trama complessa. Da un lato, si tende a un contesto in cui – venuta meno la contrattazione nazionale e ridotte le organizzazione dei lavoratori a un sindacato di fabbrica — la piccola dimensione aziendale dominante nel sistema Italia favorisce lo scivolamento dei più verso il salario minimo legale. Dunque, la compressione retributiva che interessa a Confindustria. Dall’altro, si consolida la strategia renziana di marginalizzare i corpi intermedi, togliendo ai sindacati il vero strumento – appunto, la contrattazione nazionale — che ne legittima e ne sostiene una soggettività politica in senso lato.
A pensar male, la palla di cristallo potrebbe mostrare che l’esecutivo, partendo dall’assist di Squinzi, non si limita al salario minimo legale, ma punta a ridisegnare la contrattazione. Magari con norme imperative riducendo al minimo gli ambiti del contratto nazionale, o stabilendone la cedevolezza rispetto alla contrattazione decentrata, o comunque occupando con legge lo spazio fin qui lasciato alla autonomia delle parti sociali. A parte il dubbio sulla conformità di un simile disegno rispetto all’art. 39 Cost., deve essere chiaro che scomparirebbe il sindacato come lo abbiamo conosciuto. Certo anche il sindacato ha mostrato fenomeni di degenerazione burocratica. Ma uno scenario in cui agli ectoplasmi partitici si aggiungessero quelli sindacali non sarebbe nell’interesse del paese.
Oggi un problema grave è dato dall’aumento delle diseguaglianze nei redditi e nella ricchezza. Lo dice il Fondo Monetario Internazionale (Fiscal Policy and Income Inequality, 23 gennaio 2014). Lo dice l’Ocse. Addirittura leggiamo da ultimo che, oltre al suo impatto sulla coesione sociale, la crescente diseguaglianza reca danno allo sviluppo. Si stima che in media abbia tolto 4.7 punti alla crescita complessiva tra il 1990 e il 2010 nei paesi Ocse. Allora, l’eguaglianza non è un pezzo di archeologia costituzionale, ma un obiettivo politico e di governo imposto dal tempo in cui viviamo. E tutto si restringe a un punto focale: in prospettiva, chi è il paladino che difende l’art. 3 Cost. e l’eguaglianza?
Qui vediamo che tutto si tiene. Non la difende un parlamento legislatore mutilato nella sua rappresentatività attraverso soglie di accesso, ballottaggi e premi di maggioranza, e ancor meno il governo da esso sostenuto. Ma nemmeno la difende un sindacato sostanzialmente rinchiuso in una contrattazione decentrata territoriale o aziendale. Il salario minimo legale può anche mostrarsi in principio accettabile. Ma oltre non si deve andare, e la contrattazione nazionale va difesa. La pantomima di oggi si aggiunge a quella che abbiamo di recente visto con il decreto sullo sciopero, e contribuisce con le riforme messe in campo a disegnare la modernizzazione – rectius: normalizzazione — in stile Renzi. Avvertiamo il ritorno di sapori antichi: ordine e disciplina, ragazzi.
Fonte: il manifesto
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