di Gabriele Santoro
A Napoli nella bellissima chiesa settecentesca dei Santi Filippo e Giacomo, edificata alla fine del Cinquecento nel cuore del vicolo stretto di San Biagio dei Librai, s’incontrano le parole del Beato Óscar Arnulfo Romero. Padre Mariano Imperato, parroco da trentatré anni, è custode, studioso e divulgatore dell’autentico lascito testuale del buon pastore salvadoregno, assassinato il 24 marzo 1980 con un proiettile a frammentazione, esploso all’altezza del cuore, mentre celebrava la messa.
Imperato, in qualità di vice postulatore, ha svolto un ruolo chiave nella complessa causa di beatificazione. Ora lavora alla pubblicazione integrale, inedita per l’Italia, delle omelie dalla Quaresima del 1977, quando Romero venne nominato arcivescovo di San Salvador, alla Quaresima del suo martirio. Le omelie indicano la strada maestra per comprendere le peculiarità di un sacerdozio rivoluzionario nella fedeltà alla radicalità del Vangelo e nella violenza dell’amore nei confronti degli oppressi, dei senza voce, in cui si è incarnato. Saranno pubblicati tre volumi.
Ciascuno dei quali conterrà circa settanta omelie, tradotte dall’originale trascrizione delle registrazioni radiofoniche, che propagavano in tutto il Paese il messaggio del primate.
Ciascuno dei quali conterrà circa settanta omelie, tradotte dall’originale trascrizione delle registrazioni radiofoniche, che propagavano in tutto il Paese il messaggio del primate.
Le prime settanta omelie, delle duecentodieci registrate, già ultimate per l’uscita, sono in fase di revisione critica. Per il secondo volume previsto è stata praticamente portata a conclusione la traduzione, mentre per il terzo è agli inizi. Padre Mariano si commuove durante la lettura dei testi, ché uniscono il cielo a una terra rigogliosa, ostaggio dell’oligarchia, violentata dal privilegio che fa scandalo. Romero vide l’oppressione del proprio popolo, che amava, udì le grida di dolore dei suoi figli, e andò in loro aiuto per liberarli. Come ha scritto Papa Francesco nella bolla della beatificazione: «Rendiamo grazie a Dio, perché ha concesso al vescovo martire la capacità di vedere e udire la sofferenza del suo popolo».
In ogni omelia Romero spiegava il Vangelo calato nella realtà concreta del proprio Paese. Parlava finanche oltre le due ore, perché forniva l’informazione negata dalla stampa assoggettata al potere. Denunciava le sparizioni, le torture, le ingiustizie. Aggiornava sugli scioperi, sulle lotte dei lavoratori. Fedele al papa, alla Chiesa di Roma, dove si era formato e della quale ricordava il mistero di ineffabile dolcezza della primavera romana, sapeva cogliere l’anelito di liberazione latinoamericano. «Nella nostra America Latina la croce è una realtà ogni giorno maggiore. Farcene carico e darle il suo vero senso, affinché le sofferenze e le lotte del nostro popolo siano unite alla croce redentrice di Cristo e se ne scopra così il vero senso, è il nostro compito», da una lettera di risposta alle inquietudini di un sacerdote, Padre Pablo G., datata 21 marzo 1979.
Sentir con la iglesia sintetizzava il suo attaccamento alla Chiesa. Da una parte c’è il pastore che vuole nutrire del Vangelo il popolo, dall’altra si avverte la responsabilità di un’informazione civile, indispensabile. Il vescovo, per stessa definizione di Romero, è essenzialmente un pastore, che va facendo il cammino con gli uomini, seminando la speranza sul suo sentiero, condividendo il suo dolore e la sua gioia, impegnandosi per la pace, nella giustizia e nell’amore.
«La lettura delle omelie consente di sottrarsi alle contrapposizioni ideologiche, dando la dimensione propria della sua personalità, che era sacerdotale – dice Imperato – . Viene fuori in maniera chiarissima il suo essere un pastore. È stato accusato di essere comunista, “Marxnulfo”. Un’accusa mossa da destra, perché faceva comodo. Anche in Vaticano pervenivano dossier atti a descriverlo come uno legato al comunismo. La sua rivoluzione è nella bellissima pastorale. La lettura politica, ideologica, devia dal cuore della questione. Lo si guardava con le lenti della Guerra Fredda. Emerge con ogni evidenza che in America Latina, dove dominava una religiosità popolare fatta più di devozione, di pratiche religiose, anche buone, lui si è messo di punta a comunicare i contenuti del Concilio Vaticano II, verso il quale ancora oggi permangono resistenze, dunque una fede che si basa sulla parola di Dio. Arricchiva tale religiosità attraverso i documenti propri della dottrina cattolica».
La modernità del figlio di un telegrafista di Ciudad Barrios si esprimeva pure nella capacità di utilizzare i mezzi di comunicazione. Sempre attento alle sollecitazioni dei giornalisti, spesso asserviti, sfruttando al massimo le potenzialità della radio diocesana YSAX, assumeva la supplenza di una mediazione giornalistica indipendente. Quando la voce non giungeva nelle case con i transistor, veniva portata da lui nelle lunghissime peregrinazioni a bordo della jeep dotata di altoparlanti.
La radio esaltava le sue doti di predicatore e oratore, già spiccate in giovane età. Nelle campagne le sue trasmissioni raggiungevano i picchi di ascolto più alti. I fedeli, quanto i laici, riponevano in lui la massima fiducia. Lo giudicavano diverso dai vertici ecclesiastici a lungo distanti dalle urgenze popolari. Impressiona la corrispondenza disponibile nel suo archivio, oltre cinquemila lettere. Rispondeva a tutti. Quanta attenzione anche all’ultimo degli alcolisti che voleva uscirne. Affidò alla segretaria il compito di fare una copia di ogni risposta epistolare. Hanno cercato spesso di mettere a tacere la radio. Tutti l’ascoltavano. Si potrebbe scrivere una storia non solo religiosa, ma civile, di quegli anni grazie a questa sua preziosa eredità.
Le dita battevano forte sui tasti dell’inseparabile Remington. La Chiesa non può stare zitta. «Monsignor Romero sapeva che bisognava pronunciare un mea culpa per il silenzio degli ecclesiastici che per molto tempo, divinizzati dai privilegi e dalle prebende dei fedeli ricchi, avevano adottato l’atteggiamento idolatrico di avere occhi e non vedere, avere bocca e non parlare», annota Jesús Delgado, postulatore diocesano della causa, che ritroveremo più avanti.
Il quadro sociopolitico polarizzato nel quale operava Romero era compromesso da una democrazia formale, svilita dall’assenza di una classe politica, da elezioni costantemente truccate. Dagli anni Trenta i militari reprimevano le insorgenze d’ispirazione comunista, controllavano il paese istmico per conto delle famiglie, d’origine europea, dell’oligarchia, che consideravano El Salvador come una proprietà privata. La crescita economica, impetuosa negli anni Sessanta, non aveva prodotto alcun criterio di equa redistribuzione della ricchezza e favorito lo sviluppo della democrazia. Le urgenti richieste di trasformazione venivano represse nel sangue. Dall’estero cresceva la pressione e l’ingerenza degli Stati Uniti, interessati a fare di quel lembo di terra un avamposto di resistenza all’avanzata comunista. «L’oligarchia aveva sostenuto il cattolicesimo, aveva mantenuto il clero, aveva dato denaro per costruire le chiese. Il cattolicesimo, in cambio, aveva sostenuto l’ordine costituito e aveva garantito la stabilità dei regimi», scrive Roberto Morozzo della Rocca, nella biografia che ha il respiro dell’indagine storica.
Romero diventò arcivescovo con l’appoggio determinante degli oligarchi, che confidavano nella sua mitezza, nella conservazione dello status quo. Lui invece rinunciò all’agio del fastoso palazzo vescovile offerto da quest’ultimi, andando a vivere nelle due stanzette del portiere di un presidio per malati terminali, l’Hospitalito de la Divina Providencia. «Lo diceva esplicitamente: la ricchezza va condivisa. Toccava il nodo dolente della distribuzione più giusta delle ricchezze e dei beni. Nel rapporto Stato-Chiesa non chiedeva privilegi di sorta. Reclamava la giustizia, il rispetto dei diritti per i braccianti vessati nelle piantagioni di caffè, cotone e canna da zucchero, non vantaggi economici per la Chiesa. “Non siamo padroni, siamo amministratori”», spiega Imperato.
Romero, uomo del dialogo, inteso come ricerca dell’altro, di ciò in cui manchiamo, disertava gli appuntamenti pubblici, invitando con fermezza il governo a cessare qualunque forma di persecuzione. Dall’altare implorava la disobbedienza dei militari agli ordini. Il dialogo doveva essere il metodo per giungere a una pacificazione figlia della giustizia sociale. «Il terrorismo si sconfigge promuovendo giustizia legale, economica e sociale. Il rispetto per l’imperio della legge promuove la giustizia ed elimina i semi della sovversione».
D’altra parte nel documento conciliare Gaudium et Spes, a lui particolarmente caro, si legge: «(…) Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenza economica e tuttavia una grande parte degli uomini è tormentata dalla fame e dalla miseria, e intere moltitudini sono ancora interamente analfabete. Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà, e intanto si affermano nuove forme di schiavitù sociali e psichiche.
(…) Le troppe diseguaglianze economiche e sociali tra membri e tra popoli dell’unica famiglia umana suscitano scandalo e sono contrarie all’equità, alla dignità della persona umana nonché alla pace sociale e internazionale». Vincenzo Paglia, postulatore della causa, non esita a definirlo come il primo martire del Concilio Vaticano II. Un assassinio per far tacere il rinnovamento e il progresso che animò il Concilio. Una sorta di avvertimento alla Chiesa scomoda interpretata da Romero. Nelle oltre duecento omelie appaiono 298 citazioni riferibili ai documenti conciliari.
La difesa della dignità umana attraverso il lavoro è al centro della sua pastorale, mirata sulla periferia, nel suo senso globale, generata da un’irresponsabile gestione della terra. Il mondo dei poveri quale criterio teologico, storico, della condotta della Chiesa. «Il lavoratore non è una mercanzia, soggetta agli alti e bassi dell’economia, ma una persona umana, che per il solo fatto di essere tale ha diritto a un giusto salario», affermava Romero, sconcertato dal trattamento riservato ai braccianti del caffè, le cui paghe da fame erano soggette alla variazione del prezzo mondiale della materia prima.
Non si limita all’opzione preferenziale per i poveri. «Fa un’affermazione molto forte – evidenzia Imperato – Il povero che non si dà da fare per uscire dalla condizione di schiavitù commette peccato. Una cosa fortissima. Tu devi risvegliarti. Devi uscire da questo sonno, mentre loro ti dicono accetta, rassegnati. Questa non è la volontà di Dio. Questa pigrizia è un peccato. Ha appoggiato molto gli scioperi che facevano per la conquista di diritti inesistenti. “Organizzarvi è un vostro dovere”. Ciò ricorre frequentemente nelle sue omelie. Impastava il Vangelo con la vita».
Romero riconosce la dimensione politica insopprimibile che la giustizia richiede, ma la liberazione non può esaurirsi nella dimensione terrena. La Chiesa è escatologica, non può perdere il valore escatologico. La lotta svanirebbe nella sola immanenza. La rivendicazione cristiana della giustizia è però parte integrante della predicazione del Vangelo di pace. La rottura è dirompente, ma non troviamo mai nelle sue parole tracce di odio.
Nell’ufficio parrocchiale di Padre Imperato c’è un solo manifesto. Óscar Arnulfo Romero ha il microfono in mano, il braccio sinistro sembra vibrare, come il volto accennare un sorriso. Poco sotto alla cornice c’è scritto: Vive. Il parroco mi mostra l’allegato di una mail di Jesús Delgado, all’epoca segretario di Romero, mandata l’indomani della beatificazione a San Salvador. È una fotografia scattata durante la lettura della bolla papale. La giornata era dominata da un sole caldo. All’improvviso una nuvola lo oscura, al centro del sole appare un foro dal quale si irradia un raggio. Una suggestione, un’impressione, niente di più, che ha scosso la piazza come a dire non uccidi il sole se gli spari addosso.
Delgado è un testimone diretto di questa storia. Il 24 marzo 1980 avrebbe dovuto celebrare la messa al posto di Romero, per proteggerlo da eventuali attentati. Così avevano concordato, poi il presule insistette per non cedere alla paura, sentimento con cui ha convissuto. Nei trentacinque anni che ci separano dal delitto, Delgado si è speso in modo decisivo per la raccolta di testimonianze, scritti, ricerche, documenti per sostenere il difficile itinerario processuale per la beatificazione. Un eccezionale approfondimento storico e teologico, lo cataloga Paglia, per superare i numerosi ostacoli frapposti e non consegnare Romero all’oblio che molti hanno accarezzato.
«La notizia della morte di questo vescovo ci colpì nel profondo – racconta Imperato – . Sapevamo che era stato ucciso, perché difendeva i poveri in un paese dove erano i ricchi, le quattordici grandi famiglie al potere, a comandare. Nel 1982 la Comunità di Sant’Egidio a Roma, a Santa Maria in Trastevere, invitò il vescovo successore Rivera y Damas che, nonostante nella precedente nomina fosse stato scalzato da Romero, gli aveva sempre dimostrato vicinanza, un’amicizia fraterna, mentre gli altri vescovi si preoccupavano di preparare dossier con accuse destituite di fondamento. Impossibilitato a raggiungerci, mandò Delgado. In quell’incontro abbiamo scoperto un mondo. Ci ha fatto conoscere realmente chi era Romero».
Da San Salvador, dopo la prima fase del processo diocesano, la causa approdò a Roma presso la Congregazione per le cause dei santi. Rivera y Damas sollecitò la Comunità: «Vincenzo Paglia mi propose di occuparmi della parte del processo a livello centrale, col mandato di vice postulatore. Accettai l’incarico. Disdissi il corso d’inglese che avevo appena cominciato, e partii immediatamente destinazione Madrid per studiare lo spagnolo». Imperato, insieme al biografo Morozzo della Rocca, ha trascorso tempo importante nell’archivio e nella biblioteca personale di Romero.
Avversario pugnace del percorso intrapreso nel 1996 è stato l’influente cardinale colombiano Alfonso López Trujillo, per tre decadi ispiratore della linea vaticana sulla chiesa latinoamericana, strenuo oppositore dei teologi della liberazione. Trujillo, ordinato nel 1960, espresse la propria opposizione all’opzione per i poveri elaborata nella Conferenza dei vescovi latinoamericani di Medellin nel 1968, al progressismo medellinista. Romero, come esterna anche in numerose lettere, voleva mettere in pratica il Vaticano II e Medellin, che sono stati fra le cause della persecuzione. Medellin denunciava il peccato sociale della violenza istituzionalizzata, che s’instaura in una situazione d’ingiustizia permanente e strutturata.
La Chiesa cattolica, che durante il papato di Giovanni Paolo II celebrò 1341 beatificazioni, ha riconosciuto il martirio in odium fidei. A lungo gli oppositori hanno sostenuto che sarebbe stato ucciso invece in odio alla sua posizione politica. Perseguitato perché si era messo in politica e non perché predicava l’osservanza al Vangelo, la rinuncia ai privilegi. L’odium fidei doveva essere strettamente connesso all’affermazione dell’ostilità contro la Chiesa, contro il Vangelo, contro Gesù Cristo. «Gli studi e i documenti presentati hanno dimostrato, insieme a uno sforzo di comprensione più ampio dell’odium fidei, che Romero è stato ucciso perché in realtà predicava il Vangelo – spiega Imperato – . Chiaramente perché predicava il Vangelo della giustizia, il Vangelo dell’amore verso i poveri. Era per fede che Romero parlava di riconciliazione e chiedeva giustizia sociale. È un martire del Vangelo. Non dimentico in questo passaggio il ruolo di Giovanni Paolo II per superare gli ostacoli».
Nel periodo della formazione romana Romero assunse come modello di magistero il papato di Pio XI. Da Paolo VI ricevette amicizia, ascolto, comprensione e incoraggiamento: «È un lavoro che può essere incompreso e ha bisogno di molta pazienza e fortezza. Ma vada avanti con coraggio, pazienza, forza e speranza». Lo avvicinava a Paolo VI l’idea dell’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi di una Chiesa dialogante e parte attiva nella società. Lo avvicinavano i contenuti dell’enciclica sociale Populorum progressio che, ammettendo le ferite provocate dal colonialismo e dagli squilibri crescenti offensivi per la dignità umana, posava lo sguardo su temi e istanze a lungo trascurate.
Il primo impatto con Giovanni Paolo II, da poco eletto, lasciò perplesso il vescovo salvadoregno. Furono sette mesi difficili, secondo la ricostruzione dei biografi. Le informazioni distorte giunte in Vaticano, l’opposizione del Nunzio Gerada intento, dalla prospettiva diplomatica, a mantenere rapporti indulgenti con il governo dittatoriale, il quadro internazionale complicarono la conoscenza.
«Il papa era in una situazione che forse sul momento non comprese totalmente, ma già al secondo incontro ci fu un’evoluzione – sottolinea Imperato – . Aveva capito la situazione. La richiesta di tenere unito l’episcopato si scontrava con l’indisponibilità dei vescovi a mutare gli equilibri acquisiti, la reciprocità con la classe dominante».
Restano poi due fatti. Wojtyla nel viaggio del 1983 in El Salvador, piombato piena guerra civile, volle pregare sulla tomba di Romero. Una visita non prevista dal protocollo ufficiale. Gli dissero che non c’erano le chiavi per entrare. Attese con pazienza qualche ora, affinché le trovassero. Dopo una lunga genuflessione il pontefice ricordò ai presenti: «Romero è nostro». Nel 2000, nella Roma del Giubileo, avevano estromesso il nome dell’arcivescovo dal testo della celebrazione dei Nuovi Martiri. Giovanni Paolo II lo inserì di proprio pugno nell’Oremus finale.
C’è una frase significativa, attribuita a Romero: «Ciascun papa incarna nel suo modo d’essere l’aspetto che più necessita in quel tempo alla vita della Chiesa». Fra gli ultimi atti del dimissionario Joseph Ratzinger ci fu la riattualizzazione della pratica riguardante il martire: «Non dubito che la sua persona meriti la beatificazione». Un viatico al nuovo corso di Francesco. «Abbiamo avuto rapporti con Benedetto XVI per accelerare il processo – precisa Imperato – . Lui si muoveva in questa direzione, ma c’erano dei blocchi, in particolare da qualche cardinale latinoamericano, López Trujillo, poi scomparso nel 2008, che continuamente rallentava. Nonostante questo anche Ratzinger ha facilitato. Si ponevano con costanza obiezioni. “Bisogna verificare gli scritti, se lui ha detto veramente così”. E lui, il papa, insisteva affinché il collegio dei teologi esaminasse e sciogliesse i nodi. Tutto ok, e allora si presentava un’altra obiezione». Papa Francesco ha dato la spinta, l’accelerazione sostanziosa per sbloccare una delle cause canoniche più ardue, per rimediare a un ritardo pesante. Lo scorso 23 maggio il popolo salvadoregno ha festeggiato il proprio Beato.
La citazione che segue risale al 2011 ed è tratta da un’omelia dell’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio. «Dopo aver ascoltato la parola di Dio facciamo un istante di silenzio nel nostro cuore e ricordiamo sette persone che, cinque anni fa, lavoravano qui in un regime di schiavitù: Harry Rodriguez Palma, di cinque anni; Wilfredo Quispe Mendoza, di 15 anni; Juana Wilma Quispe, di 25 anni e il figlio che portava in grembo e di cui soltanto Dio conosce il nome; Elias Carabajal Quispe, di 10 anni; Rodrigo Quispe Carabajal, di 4 anni e Luis Quispe, di 4 anni.
Quei bambini lavoravano come schiavi e sono morti nell’incendio di un laboratorio clandestino. Dio disse a Caino: «Il sangue di tuo fratello mi chiede giustizia». E oggi noi ripetiamo quella stessa frase: «Il sangue di questi nostri sette fratelli ci chiede giustizia». Il senso del lavoro si è degradato, perché è il lavoro a darci dignità. Quando si ribalta il vero fine del lavoro, il centro del lavoro che è la persona comincia a crescere il desiderio insaziabile di denaro e da qui si finisce nella schiavitù. (…) Ma soprattutto chiediamo al Signore che i nostri cuori crescano in consapevolezza, perché non abbiamo paura di lottare per questa giustizia che, oggi possiamo ripeterlo ancora una volta, è attesa da così tanto tempo. Giustizia per gli uomini e le donne vittime della tratta di persone di qualsiasi genere.
(…) Agli Erode che ancora vivono a Buenos Aires e che si arricchiscono con il sangue dei poveri, che Dio tocchi il loro cuore e li converta. E che tocchi anche il nostro cuore, perché continuiamo a lottare per la giustizia». In tante omelie del Pontefice sembra di leggere, circa quarant’anni dopo, Óscar Arnulfo Romero. Si passa dal paesaggio del mondo rurale delle case di fango alla vastità delle favelas nelle periferie delle metropoli globali, prive di un centro geografico. Si è passa dall’oligarchia di poche famiglie all’élite globalizzante. La città, come le campagne di allora, rappresentano il terreno di sfida della evangelizzazione.
Come si ritrova Romero nelle encicliche Lumen Fidei e Laudato Si’. «È spaventoso sentire ripetere ovunque che la benzina sta scarseggiando, che l’aria si sta inquinando, che non c’è acqua, che ci sono zone della nostra capitale in cui viene erogata soltanto alcuni minuti o addirittura mai, che le falde acquifere si stanno esaurendo, che ormai ruscelli, così caratteristici, delle nostre montagne, sono scomparsi. Il patto dell’uomo con Dio non viene rispettato perché l’uomo da padrone della natura, si sta trasformando in sfruttatore della natura», leggiamo in un’omelia di Romero del 3 giugno 1979.
Romero si scagliava contro le idolatrie della ricchezza, della proprietà privata e della sicurezza nazionale, che altro non era che violenza istituzionalizzata, nonché contro l’idolatria delle organizzazioni popolari che coltivavano interessi di parte. Nelle omelie, invocando la ristrutturazione del sistema economico e sociale, definiva come ostile al Cristianesimo l’assolutizzazione della proprietà privata. Sosteneva a chiare lettere che la violenza diffusa avesse fondamento nell’ingiustizia sociale, riferibile alla cultura innestata dai conquistadores. «Non mi stancherò mai di ripetere che, se vogliamo davvero una cessazione efficace della violenza, occorre stroncare la violenza che sta alla base di tutte le violenze: la violenza strutturale, l’ingiustizia sociale basata su un’aberrazione della proprietà privata e su un’assolutizzazione della ricchezza che, oltretutto, si cerca di difendere con la repressione».
Così Francesco nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium:
«No a un’economia dell’esclusione
53. (…) Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide.
No all’inequità che genera violenza
59. (…) Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice».
Il primo papa giunto dalle Americhe non ha mai incontrato il Beato, tuttavia non ha mai nascosto la propria ammirazione. Più volte ha ricevuto in Argentina il segretario Delgado, e ha seguito anche a distanza il processo. «La loro sintonia è nel Vangelo – riconosce Imperato – . Nell’incontro di Gesù con i poveri. Che cosa sta facendo Papa Francesco? Vive il Vangelo personalmente e annuncia il Vangelo, lo comunica sia con le parole sia con i gesti, negli incontri. Praticamente il Romero di quarant’anni prima. Anche Bergoglio è stato un sacerdote legato alla pastorale e si rintraccia sintonia nell’approccio missionario: la comune vocazione a stare in mezzo alla gente. C’è una continuità profonda fra Medellin, cioè l’idea di mettere in opera nel subcontinente latinoamericano gli insegnamenti del Vaticano II, Puebla, che sancirono l’opzione per i poveri, e Aparecida 2007, dove si è tenuta l’ultima assemblea generale dell’episcopato dell’America Latina. Lì Bergoglio ha guidato i lavori di redazione del documento finale della Conferenza e ha richiamato quell’opzione. La Chiesa che cammina come popolo di Dio».
Una Chiesa che in America Latina per essere autenticamente una Chiesa dei poveri ha pagato un prezzo di sangue alto. Guardare la storia dalla parte degli ultimi, porsi il problema della liberazione dei vinti attraverso l’esaltazione della dignità della persona. Romero nell’osservanza dell’Antico e del Nuovo Testamento assunse il duplice significato biblico dell’ambiguo concetto di povertà. Lo stato di povertà materiale, scandaloso, che mina la dignità umana, contrario alla volontà di Dio, che è causa diretta dell’ingiustizia degli oppressori. Non trattandosi di una fatalità richiede azioni concrete. E poi invocava lo stato di povertà spirituale per una sincera apertura a Dio, la condizione necessaria per accogliere la parola di Dio.
Romero della teologia della liberazione accoglieva il principio di emancipazione intellettuale e teologica, la ricerca di una via della chiesa latinoamericana. Si sottraeva alla deriva di una liberazione intesa univocamente nella liberazione economica dell’oppresso dall’oppressore. E condannava la scelta della lotta armata per sovvertire questa dialettica, richiamando spesso i propri sacerdoti. Bergoglio ha chiuso una stagione di conflitto lacerante con la teologia della liberazione, che vide Giovanni Paolo II schierato in prima fila.
Romero, in mancanza dell’agognata riforma agraria, auspicava la trasformazione della proprietà latifondista in un sistema cooperativistico, solidaristico. Difendeva il diritto dei lavoratori allo sciopero. Come per Papa Francesco ricorreva sovente l’accusa di comunismo. Così, in una lettera del 30 giugno 1978, s’indirizzò al colonnello Romero B. R.: «(…) Un altro modo di accusare la Chiesa di infedeltà consiste nel dirla marxista. Sono gli interessi acquisiti a cercare di far passare per marxista l’azione della Chiesa, quando questa ricorda i più elementari diritti dell’uomo e mette tutto il suo potere istituzionale e profetico al servizio degli indigenti e dei deboli. La muove l’interesse etico della fede. Alla Chiesa non interessa alcuna ideologia in quanto tale deve essere pronta a opporre la sua parola critica all’assolutizzazione di una qualsiasi di esse, sia socialista o capitalista. Anche l’attuale capitalismo è materialismo pratico».
Scrive a proposito il biografo Morozzo della Rocca: «(…) Nel 1967 Romero parla di dialogo prudente e sincero con i comunisti per edificare il mondo a tutti comune. Il comunismo per Romero è una conseguenza della madre di tutte le eresie: il liberalismo secolarizzatore che ha allontanato la società da Dio». Più volte mise all’indice le mancanze dello Stato liberale e l’influenza massonica sulla vita pubblica: «(…) Quale patria? La patria di questa lurida storia di liberalismo e massoneria i cui propositi si sostanziano nell’abbrutire il popolo per manovrarlo a proprio capriccio?»
Nel recente intervento del Pontefice al Congresso statunitense individuiamo una precisa coincidenza col pensiero politico e sociale di Romero: «Politica è, invece, espressione del nostro insopprimibile bisogno di vivere insieme in unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comunità che sacrifichi gli interessi particolari per poter condividere, nella giustizia e nella pace, i suoi benefici, i suoi interessi, la sua vita sociale. Non sottovaluto le difficoltà che questo comporta, ma vi incoraggio in questo sforzo». A più riprese Romero, che mai si legò a una fazione politica, difese la reciproca autonomia della comunità politica e della Chiesa. Indipendenti nel proprio ambito devono tuttavia servire la vocazione personale e sociale dell’uomo.
La dottrina prevede la conversione etica di chi si trova in posizione dominante, affinché si occupi di chi è oppresso in una logica di convivenza possibile. Dagli scritti si desume che Romero intese il proprio ruolo quale sponda utile, pur rifuggendo l’equidistanza tra vittime e carnefici, fra le parti, per contribuire a trasformare la classe dirigente nell’interesse del popolo.
L’ecumenismo è una struttura mentale che apparteneva a Romero, uomo di dialogo, umile nell’accettare la propria fallibilità. Disegnava la chiesa quale costruttrice di ponti. L’unica violenza ammessa è quella di Cristo che si fa uccidere, è il martirio. All’epoca Romero instaurò con gli evangelici una mediazione fattiva. La Chiesa anglicana ha posto la statua di Romero sulla facciata della cattedrale di Westminster, accanto a quella di Martin Luther King e Dietrich Bonhoeffer. Anche qui possiamo riprendere Francesco nel viaggio statunitense per descrivere la grammatica di Romero, trentacinque anni fa:
«(…) Sappiamo che nessuna religione è immune da forme di inganno individuale o estremismo ideologico. Questo significa che dobbiamo essere particolarmente attenti a ogni forma di fondamentalismo, tanto religioso come di ogni altro genere. È necessario un delicato equilibrio per combattere la violenza perpetrata nel nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico, mentre si salvaguarda allo stesso tempo la libertà religiosa, la libertà intellettuale e le libertà individuali.
(…) È importante che oggi, come nel passato, la voce della fede continui ad essere ascoltata, perché è una voce di fraternità e di amore, che cerca di far emergere il meglio in ogni persona e in ogni società. Tale cooperazione è una potente risorsa nella battaglia per eliminare le nuove forme globali di schiavitù, nate da gravi ingiustizie le quali possono essere superate solo grazie a nuove politiche e a nuove forme di consenso sociale».
Imperato conferma l’avanzamento veloce del processo di beatificazione, aperto a San Salvador alla fine dello scorso anno, di Padre Rutilio Grande. Gli squadroni della morte lo uccisero il 12 marzo 1977, mentre raggiungeva El Paisnal dalla parrocchia di Aguilares, attorno alla quale aveva creato dal nulla un’ampia comunità cristiana. Morì stringendo la mano ai campesinos per i quali aveva messo da parte una sicura carriera accademica, per i quali sacrificò la propria esistenza. Lavorava a una giustizia che avvicinasse il Regno di Dio alla terra, come Romero e tanti altri sacerdoti, catechisti, cristiani delle organizzazioni popolari vittime del linciaggio, poiché impegnati nel sociale.
La vicenda di Grande, amico fraterno di Romero, è dirimente per capire l’evoluzione dell’arcivescovo cui toccò poi la stessa sorte. Accorse immediatamente a vegliare sui tre corpi trucidati. Tutelò la memoria di Rutilio dalla diffamazione, ricordandolo come un sacerdote esemplare. Infranse l’ipocrisia delle relazioni con lo Stato, a fronte del comportamento del Presidente della Repubblica Arturo Armando Molina, vago nell’assicurare alla giustizia gli assassini. Molti raffigurano quella notte di veglia come una sorta di conversione, l’uscita dal Tempio dell’uomo di culto e preghiera che s’interrogava sul come agire per combattere l’ingiustizia. Da allora camminò lungo la via di un impegno diretto nel mondo. Ciò negli anni ha alimentato lo stereotipo politico di Romero.
Jesús Delgado ritrae il momento del cambio d’attitudine, della presa di responsabilità nel nome del Vangelo che è rivoluzione, nel modo più efficace: «Venne il giorno in cui Dio lo precipitò del tutto e fino al collo nella cruda realtà della sofferenza di un popolo, causata dalla prepotenza disumana delle élite del potere salvadoregno. Quando monsignor Romero assunse l’incarico di pastore dell’arcidiocesi di San Salvador, le sue prediche non si ispirarono più soltanto ai testi dei padri della Chiesa e alla dottrina del magistero della Chiesa cattolica, ma soprattutto alla vita reale dei salvadoregni».
Che cosa ne è oggi dell’eredità etica di Romero nel più piccolo paese centroamericano? Nel marzo 1993, cinque giorni dopo la divulgazione del rapporto della Commissione d’inchiesta dell’Onu che individuava nell’ex maggiore Roberto D’Aubuisson, sanguinario leader dei gruppi paramilitari foraggiati dagli oligarchi, il mandante del commando di quattro persone responsabili, l’Assemblea legislativa salvadoregna decretò l’amnistia generalizzata per i crimini di guerra. Che cosa resta lo spiega ancora Delgado con parole splendide:
«Cercano di convincere il popolo che il profeta è squilibrato e perciò può destabilizzare i poteri dello Stato, sfigurare il volto della Chiesa e trascinare la popolazione in una guerra civile. Se tutte quelle misure si rivelano inutili e inefficaci, allora il re permette che entrino in gioco forze occulte che, con il pretesto di salvare la nazione e la Chiesa, assoldano sicari prezzolati per zittire la voce del profeta. Assassinato il profeta, il re, a volte insieme ai sacerdoti, cerca di giustificare l’ingiustificabile. Tentano di spiegare al popolo che quell’uomo è morto vittima della sua stessa intransigenza, della sua cocciutaggine e del ciclone nato dal vento che lui stesso aveva sollevato. Ormai il profeta non è più presente a difendere la verità, ma la sua parola resta ad attestare ai posteri che la sua era fedeltà alla giustizia e all’amore di Dio».
La scelta politica di abdicare alla ricerca della verità, che è il seme più fertile della giustizia, non ha contribuito a una reale riconciliazione dialettica del tessuto politico, sociale, oggi minacciato dalla violenza terribile delle gang criminali delle maras, anch’esse aguzzine del popolo salvadoregno, radicatesi mediante il potere militare e la corruzione. Le mafie, in tutte le proprie sembianze, costituiscono la nuova frontiera per la Chiesa nelle periferie. La svolta impressa da Papa Francesco ha unito l’episcopato nel segno di Romero. Ora c’è da percorrere con sincerità la strada tracciata dal martire, troppo a lungo, e a torto, misconosciuto.
Fonte: minimaetmoralia.it
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