di Riccardo Frola
Appena richiuso Exit di Tomasz Konicz (Stampa alternativa, pp. 158, euro 14) , il lettore ha la sensazione perturbante di essersi risvegliato in un mondo estraneo e ostile. Il crollo della società del lavoro, gli obitori di El Salvador e Guatemala, «in cui si ammucchiano a dozzine» i cadaveri dei ragazzini uccisi dalle maras, il «Leviatano ritornato allo stato selvaggio» descritti da Konicz, rendono di colpo esplicito ciò che nella quotidianità occidentale sembrava ancora nascosto fra le righe.
Tomasz Konicz è un pubblicista di lingua tedesca, e uno dei pochi autori rimasti, dopo la morte di Robert Kurz, in grado di fondere risultati teorici raggiunti dalla «critica del valore» (una corrente nata alla fine degli anni Ottanta sulla rivista Krisis), con un’analisi originale dell’attuale dissesto finanziario e politico.
Dopo l’esplosione della bolla immobiliare del 2008, infatti, le diagnosi economiche sono cambiate solo in apparenza. Se è vero che l’idea di una «crisi strutturale» del capitalismo non è più rimossa dal dibattito; se è vero che persino l’ex segretario del Tesoro statunitense Larry Summers e il Nobel Paul Krugman sono arrivati a descrivere la nostra come una società dipendente dal debito e incapace di sostenersi da sola; è altrettanto vero che le cause della crisi continuano ad essere del tutto ignorate.
Ma «Ciò in cui si sono imbattuti i due corifei della scienza economica», con le loro recenti «scoperte», scrive Konicz, è quel «limite interno» della società del lavoro che era, per i lettori di Krisis, un’ovvietà da trent’anni.
Nel capitalismo, «il lavoro salariato costituisce la sostanza del capitale». Ma la concorrenza fra capitalisti costringe «nello stesso tempo ad eliminare il lavoro dal processo produttivo attraverso misure di razionalizzazione» ed automazione. Questa dialettica contraddittoria è esplosa definitivamente con la rivoluzione microelettronica degli anni Setanta, che ha reso il capitalismo «troppo produttivo per sopravvivere».
Ecco perché – spiega Konicz -, dagli anni Ottanta i mercati finanziari sono diventati il «settore di punta». Tramite il meccanismo del credito si anticipa un valore futuro che si scommette, con grande rischio, verrà prima o poi generato nella produzione reale, pena il crollo. Ma il congegno si è rotto da tempo. I capitali ottenuti a credito non vengono più investiti per l’ampliamento e la modernizzazione del sistema produttivo, ma dissipati nel settore immobiliare o nel consumo. Non appena una bolla scoppia, il tracollo che si profila «è scongiurato soltanto dal formarsi di una nuova bolla», in un domino i cui costi si moltiplicano fino ad un redde rationem che già si intravede nei paesi emergenti.
E la politica? «Può sforzarsi, attraverso programmi congiunturali di prolungare il processo di indebitamento, o scegliere la strategia suicida»: austerità, shock deflazionistico e crollo economico. Il capitalismo delle bolle ha però anche una terza via meno ufficiale: scaricare le conseguenze della crisi altrove, esportare, insieme alle eccedenze, l’indebitamento e la disoccupazione «massimizzando gli attivi delle partite correnti e della bilancia commerciale». In altre parole, «lasciare andare a fondo i paesi della periferia». Anche le misure di difesa commerciale come il Ttip, che hanno lo scopo di «riaffermare il ruolo guida del vecchio occidente», soprattutto nei confronti della Cina, e «la marcata spinta a Oriente dell’UE» portata avanti con l’obiettivo di trasformare la «Russia in una periferia dell’Europa», vanno in questa direzione. Gli Stati più deboli «hanno già perso la loro base finanziaria sotto forma di gettito fiscale» e si dissolvono nella barbarie. Gigantesche sacche di «umanità superflua», generate dall’espulsione di lavoro vivo, ingrossano le fila delle bande armate del fondamentalismo e della criminalità dall’Ucraina all’America centrale.
Eppure non stiamo assistendo — è la tesi del libro — ad una lotta fra sistemi contrapposti: Occidente contro Eurasia anticapitalista. Russia e Cina sono parte integrante del capitalismo, pur essendone la «semiperiferia» statale, corrotta e oligarchica. Ciò che secondo Konicz preannunciano i conflitti intestini e la massa senza precedenti di profughi, Dall’Africa al Medio Oriente, è piuttosto quella «guerra civile globale» teorizzata da Robert Kurz: un conflitto generalizzato che, al contrario della vecchia guerra imperialista, avrà come esito «la distruzione del sistema capitalistico mondiale» e la ricaduta nella barbarie.
Tra le pagine del libro tuttavia, oltre a qualche eccessiva semplificazione (come la tendenza ad identificare l’Isis con una «macchina da soldi» jihadista), ogni tanto occhieggia anche la possibilità che, in questa bellum omnium contra omnes, «la disgregazione delle strutture sociali apra margini per un superamento consapevole ed emancipatore del regime capitalistico al collasso».
Fonte: il manifesto
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