di Amira Hass
Questa è una guerra. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, forte del mandato del popolo, ha chiesto d’intensificare le operazioni belliche. Se già in tempi tranquilli Netanyahu non ascolta i messaggi di conciliazione del presidente palestinese Abu Mazen, perché dovrebbe farlo adesso?
Netanyahu ha intensificato la guerra soprattutto a Gerusalemme Est, autorizzando punizioni collettive. Questo mostra il successo della strategia israeliana: disconnettere Gerusalemme dal resto dei territori palestinesi e sfruttare l’assenza di una leadership palestinese a Gerusalemme Est e la debolezza del governo a Ramallah, che ora sta cercando di arginare questa tendenza.
La guerra non è cominciata il 1 ottobre. La guerra non comincia con le vittime israeliane e non finisce quando non ci sono più israeliani uccisi. I palestinesi combattono per la loro vita, nel vero senso della parola. Noi ebrei israeliani combattiamo per proteggere il nostro privilegio di padroni, nel senso più spregevole del termine.
Ci accorgiamo dell’esistenza di una guerra solo quando vengono uccisi gli ebrei, ma questo non cancella il fatto che i palestinesi vengono uccisi continuamente e che noi facciamo tutto ciò che è in nostro potere per rendere insopportabile la loro esistenza. Il più delle volte questa è una guerra a senso unico, scatenata e condotta da noi con l’obiettivo di convincere i palestinesi a dire “sì, padrone, grazie perché ci permetti di sopravvivere nelle riserve”. Quando qualcosa interferisce con questa unidirezionalità della guerra e muoiono anche gli ebrei, allora ce ne accorgiamo.
I giovani palestinesi non vanno a uccidere gli ebrei perché sono ebrei, ma perché noi siamo gli occupanti, i torturatori, gli aguzzini, i ladri della loro terra e della loro acqua, i distruttori delle loro case, un muro davanti al loro orizzonte. I giovani palestinesi, disperati e assetati di vendetta, sono pronti a morire e a far soffrire la loro famiglia, perché il nemico che affrontano dimostra ogni giorno che la sua malizia non ha limiti.
Anche il nostro linguaggio è crudele. Gli ebrei vengono ammazzati, mentre i palestinesi semplicemente rimangono uccisi o muoiono. Il problema sta anche nel fatto che noi giornalisti non possiamo scrivere che un soldato o un poliziotto ha ammazzato un palestinese anche se non era per legittima difesa, da vicino o pilotando un aereo o un drone. La nostra comprensione è prigioniera di un linguaggio censurato retroattivamente per distorcere la realtà. Nel nostro linguaggio gli ebrei vengono ammazzati perché sono ebrei mentre i palestinesi muoiono perché probabilmente se la sono andata a cercare.
Una guerra unilaterale
La nostra visione del mondo è modellata dal costante tradimento dell’etica professionale da parte dei mezzi d’informazione israeliani, dalla loro incapacità tecnica ed emotiva di analizzare tutti i dettagli della guerra mondiale che abbiamo scatenato per proteggere la nostra superiorità.
Nemmeno questo giornale ha le risorse per ingaggiare dieci giornalisti e riempire venti pagine al giorno con i resoconti delle aggressioni in tempi di violenze crescenti e degli attacchi dell’occupazione in tempi di calma, dai colpi di fucile alla costruzione di una strada che distrugge un villaggio alla legalizzazione di un insediamento a milioni di altri attacchi. Ogni giorno. Gli esempi di cui riusciamo a occuparci sono soltanto una goccia nel mare, e non hanno alcun impatto sulla maggioranza degli israeliani, che continuano a non capire qual è la situazione.
L’obiettivo di questa guerra unilaterale è costringere i palestinesi a rinunciare alle loro terre. Netanyahu vuole che il conflitto s’intensifichi, perché sa per esperienza che la calma dopo lo scontro non ci riporta al punto di partenza, ma a un nuovo minimo storico per il sistema politico palestinese e a un aumento dei privilegi degli israeliani.
Questi privilegi sono il fattore chiave che distorce la nostra percezione della realtà, rendendoci ciechi. A causa dei nostri privilegi non riusciamo a capire che anche con questa leadership palestinese debole e “presente-assente” il popolo palestinese, sparpagliato nelle sue riserve indiane, non si arrenderà mai e continuerà a trovare la forza per resistere a noi padroni.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Fonte: Internazionale
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