La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 5 novembre 2015

Cosa sarà di chi lascia il Partito Democratico

di Luca Sappino
L'aneddoto è di quelli da non offrire alle cattivissime frecciate di Matteo Renzi e dei suoi, che subito lo trasformerebbero in un tweet sulla sinistra degli sconosciuti e «del 3 per cento» (argomento usato in queste ore da uno degli uomini della comunicazione di palazzo Chigi, Francesco Nicodemo, contro Nichi Vendola colpevole di aver scritto «Renzi la sinistra la fa con Alfano, Verdini, Marchionne»). Ma è gustosto.
Un lancio di agenzia con refuso dà luogo a un scambio tra Giorgio Airaudo, deputato di Sel nei fatti prossimo candidato a Torino contro Piero Fassino, e Stefano Fassina, da poco uscito dal Pd e appena raggiunto da altri colleghi, tra cui il bersaniano Alfredo D’Attorre e Carlo Galli. Carlo, non Giampaolo come scritto invece in un lancio, che è un altro deputato, sempre del Pd ma assai meno di sinistra, ex Dg di Confindustria. «Non sapevo venisse anche il confidustriale», scrive fintamente sorpreso Airaudo, per una vita sindacalista Fiom. «Ma che sei matto!», è la risposta di Fassina.
L’umore - diciamo così - è insomma alto. Chi esce dal Pd parla di «una decisione presa ma sofferta» («Per me è stato un vero tormento, mi è sembrato di non avere alternative», dice D’Attorre), ma poi sembra ritrovare una certa energia. Che serve tutta, in effetti, per riuscire a portare a termine il processo di fondazione di una nuova Cosa rossa, che Cosa rossa non si deve chiamare - dicono gli interessati - ma che è allora, intanto, un puzzle rosso, di quelli difficili e con i pezzi piccolissimi e lo sfondo tutto uguale.
Gli ultimi tre usciti dal Pd, dicevamo, sono Alfredo D’Attorre, Carlo Galli e Vincenzo Folino: «Ma altri usciranno, non si può resistere in un partito così, ridotto ad appendice inerte del leader: comitato elettorale e ufficio stampa», dicono. Poi c’è il senatore Corradino Mineo, che è invece uscito dal gruppo del Senato una settimana fa, e che anche oggi ripete la sua ragione: «Nel Pd c'è una mutazione genetica compiuta, non c'è più spazio per una battaglia interna: Renzi sta facendo un partito di centro che guarda a destra».
Alfredo D'Attorre, Carlo Galli e Vincenzo Folino
Tutti loro (più l’ex Sel Claudio Fava, che torna così a casa) finiranno in un nuovo gruppo alla Camera (MIneo no, in realtà, perché al Senato si tratterà di una componente del gruppo misto, dove già sono i senatori di Sel). Il nome verrà annunciato sabato 7 a Roma al Teatro Quirino: «Ma il progetto», chiarisce D’Attorre, «non resterà chiuso nei palazzi. Non è questo il partito» - è il chiarimento - «tant’è che non presenteremo un simbolo. Questo è un passaggio di un percorso che si svolgerà fuori di qui». E D’Attorre risponde così alle perplessità di Pippo Civati, che - con i due senatori della lista Tsipras, ex 5 stelle - non aderirà al gruppo (ecco appunto il puzzle difficile): «Sono convinto i nostri percorsi si uniranno», cerca di sminuire D’Attorre, «la scelta di Civati va rispettata e anzi può servire a coinvolgere altre realtà».
''Non pensiamo a una forza politica residuale, identitaria o settaria. Per questo invitiamo anche i giornalisti a superare il cliché della cosa rossa. Noi pensiamo a una forza della sinistra di governo, che possa essere un riferimento per quelli che sono usciti o che intendono uscire dal Pd''. Così Alfredo D'Attorre in conferenza stampa insieme a Carlo Galli e Vincenzo Folino, che escono dal Pd e entrano a far parte del nuovo gruppo parlamentare della sinistra. Il varo è programmato per sabato 7 novembre a Roma, in un'assemblea al teatro Quirino.
In realtà il rapporto con Civati è ciò che più preoccupa i dirigenti di Sel così come i nuovi fuoriusciti dal Pd. I rapoprti sono proprio un po’ tesi, con reciproci sfottò. Oltre alla fondazione del gruppo unitario, le posizioni sono diverse sulle prossime amministrative, per cui Civati vorrebbe si decidesse a priori di rompere ovunque col Pd. Il realtà poi così sta accadendo («Lo dico da mesi», puntualizza Civati), ma più perché il Pd - tra la candidatura di Sala a Milano e le ultime evoluzioni di Merola, non gradite a Sel, a Bologna - sta togliendo agganci a Vendola, che «ovunque possibile» avrebbe voluto tenere in piedi il centrosinistra.
«Dove il Pd volge lo sguardo al centrodestra», dice anche D’Attorre, «è ovvio che noi non ci saremo. Ma la forza che fonderemo vuole animare un campo progressista». Ma ormai è poco più che una formula. Pure a Roma l’alleanza col Pd è ormai esclusa: «La nostra realtà metterà in campo un nome da mettere a disposizione che è in grado di guardare anche alle forze di sinistra che ancora si riconoscono nel Pd», dice D’Attorre, che è un modo per dire però che la coalizione non c’è più, e che la candidatura a cui si pensa è quella di Stefano Fassina (non riuscendo a convincere Walter Tocci, che è ancora nel Pd). Fassina è anche disponibile, seppur non entusiasta. C’è però l’incognita Ignazio Marino - che piace a Civati - che se non ci dovessero essere le primarie potrebbe decidere di ricandidarsi lo stesso, con una lista civica che è poi la formula che Sel&co immaginano per le altre città: «In quel caso, dai retta a me», dice un dirigente di Sel all’Espresso, «non potremo far finta di niente e anzi sarà una bella soluzione, capace di giocarsi la partita più di altre e di spiegare bene le ragioni della distanza con il Pd, che Marino l’ha cacciato in questo modo orrendo». È piaciuta la performance di Marino a DiMartedì, su La7.E proprio nel Pd intanto la minoranza chiede che «si rifletta» sugli ulteriori addii. Lo chiede Gianni Cuperlo, lo chiedo Francesco Boccia, lo chiede pure Enrico Rossi - presidente della regione Toscana - anche se lui tiene a precisare anche che «chi esce prende una strada non buona e non positiva per la prospettiva nella sinistra del Paese».
Renzi, in realtà, non sembra però affatto preoccupato. A Bruno Vespa nel consueto libro in uscita, spiega: «Fuori di qui non vedo spazi. Pensi alla Grecia, per esempio. Volevano la rivoluzione, adesso sono campioni di riformismo: il governo di Alexis Tsipras è il secondo governo più riformista d'Europa, dopo il nostro. In Polonia si sono confrontati al ballottaggio la destra e l'estrema destra. Nel Regno Unito, i laburisti di Ed Miliband non hanno toccato palla. E non credo che la musica cambierà con Corbyn. Se fossi un dirigente della sinistra italiana, mi preoccuperei di costruire bene il Pd, non di minacciare scissioni. Farlo significa non aver letto un giornale europeo da almeno un anno». Curioso è che proprio il Labour di Corbyn, su cui Renzi non scommette nulla, è citato da Stefano Fassina, nel salutare l’arrivo dei colleghi (che si aggiungono tra gli altri a Sergio Cofferati, uscito ai tempi delle regionali liguri): «Con l'arrivo di Corradino Mineo, Alfredo D'Attorre, Carlo Galli e Vincenzo Folino, il progetto di rilancio della democrazia costituzionale e di una sinistra di governo pro-labour fa un salto di qualità», dice. Galli aggiunge: «Non abbiamo nessuna vocazione minoritaria né però avremo nostalgia della Ditta».
Con Mineo è invece scontro frontale. Matteo Renzi sempre con Vespa ha rievocato un vecchio scambio tra i due: «Corradino Mineo? Un anno fa annunciò le dimissioni da senatore dopo aver offeso in modo squallido i bambini autistici. Disse: ho sbagliato, me ne vado. È sempre lì, a spiegare come va il mondo. Al massimo si dimette dal Pd, ma la poltrona non la lascia, per carità».
Renzi si riferisce a quando Mineo disse che lui era come «bambino autistico, che vorresti proteggere perché tante cose non le sa». Renzi non si fece scappare l’occasione e durante la direzione del partito disse: «Di me potete dire quello che vi pare, ma quella frase ha offeso quelle famiglie che hanno un figlio disabile». Oggi ritira fuori l’episodio e Mineo non ci sta: «Quanto ai bambini autistici, è stato Renzi a strumentalizzarli nel modo più squallido per “spianarmi”. Li ha usati per strappare un applauso in assemblea». «Renzi», scrive su facebook il senatore, «non si fa scrupoli, rivela conversazioni private, infanga per paura di essere infangato». «Io no», continua Mineo, che è però pronto a insunuare: «So quanto si senta insicuro quando non si muove sul terreno che meglio conosce, quello della politica contingente. So quanto possa sentirsi subalterno a una donna bella e decisa. Fino al punto di rimettere in questione il suo stesso ruolo al governo». «Quanto alla “poltrona”», conclude, «a differenza forse di qualcun altro, io non ne ho bisogno. Ho lavorato per 40 anni, salendo passo dopo passo il cursus honorum, da giornalista fino a direttore».

Fonte: L'Espresso 

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