La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 5 novembre 2015

Resistenze cinematografiche e femminili al potere di Erdogan

di Giona A. Nazzaro
A leggere le composizioni delle competizioni dei festival, si possono notare dei progressivi slittamenti nelle relazioni e nelle strategie di rappresentazione dell’altro. Quest’anno a Cannes, la prima edizione dopo la strage di Charlie Hebdo, e la prima sans Gilles Jacob, gli equilibri politici erano visibilmente diversi dalle precedenti edizioni. Se la selezione ufficiale si presentava con un A testa altasospettosamente pro Law & Order, la Quinzaine schierava un Les Cowboys, diretto da Thomas Bidegain, lo sceneggiatore di Dheepan, film che rilegge Sentieri selvaggialla luce della jihad. Pur con risultati completamente diversi fra loro, questi film presentano un’idea e un’immagine della “minaccia araba” differente rispetto al recente passato politicamente corretto in termini di discorso culturale e politico. 
Mustang, presentato anch’esso alla Quinzaine, scritto da Alice Winocour, diretto da Deniz Gamze Ergüven, è un oggetto filmico tanto interessante e appassionante quanto ambiguo.
Dietro la superficiale patina di pamphlet femminista anti-Erdogan, si ritrova il medesimo riposizionamento che ha scosso profondamente la società francese dopo Charlie, anche se in forme molto meno banali rispetto a Audiard o Bidegain. 
Se da un lato questo gruppo femminile in un interno convince per la potente forza filmica di corpi che si battono contro la segregazione del desiderio e dell’immaginario, dall’altro non si può fare a meno di notare che la forza del discorso politico è interamente appoggiato sulla similitudine fra l’ottuso zio orco delle ragazze e quella del sultano Erdogan. 
Il procedimento attraverso il quale la regista riesce a sottrarre progressivamente spazio vitale alle sue protagoniste, stringendole in un assedio domestico fatto di tradizioni sempre più svuotate di senso e valore, riflette chiaramente la posizione di Erdogan stesso nei confronti di una Turchia laica. 
Le modalità attraverso le quali la regista mette in comunicazione la casa di campagna dello zio, progressivamente privata di ogni possibile contatto con l’esterno, e la ricchezza della vita al di là di essa è un’intuizione filmica forte, vera. Come delle piccole volpi wyleriane o le piccole donne cukoriane, le protagoniste di Mustang creano instancabili un microcosmo alternativo a quello delle privazioni familiari. Nello spazio perimetrato dalle mura domestiche risuona inevitabilmente l’eco degli scontri di Piazza Taksim. Il conflitto fra i volumi dei corpi e gli spazi è risolto in forme strettamente politiche dalla regista creando un assedio memore sia, ovviamente in senso traslato, di Cane di paglia (il nemico è quello che sta “fuori”) che, non sembri un’eresia, di Mamma, ho perso l’aereo (a sua volta una riscrittura del classico peckinpahiano). 
Di entrambi i film, Mustang rielabora la strategia di riconversione in elementi di guerriglia degli oggetti di uso comune e degli spazi quotidiani. L’imperativo territoriale, alla base del film di Peckinpah, ritorna anche in Mustang, come colonizzazione ideologica e confessionale del corpo femminile. L’analogia fra spazio e corpo, l’uno e l’altro invasi dalla normatività del discorso confessionale e i margini di libertà progressivamente erosi dagli insediamenti ideologici diventano segno di una progressiva impossibilità di dialogo. 
Ed è la precisione, addirittura violenta, con la quale il film sottolinea come si sia giunti alla fine di una possibilità di confronto ad alimentare la disperazione che spinge alla fuga la più piccola delle sorelle. Fuga che termina fra le braccia di una donna, un’insegnante, utopia di una società civile sempre più spinta ai margini, sempre più inascoltata. Il discorso sotteso a questo abbraccio finale, un quadro generazionale e politico di rara icasticità - i “giovani” accolti (o in fuga verso) la cultura e il dialogo, la seduzione e il desiderio - fa di Mustang un film addirittura lancinante nella sua incontenibile vitalità (inevitabilmente frenata da un doppiaggio non proprio eccellente). 
Mustang si offre oggi come il punto di non ritorno della società turca che tenta di liberarsi dal sonno invernale imposto dal Sultano, e lo fa con un’energia insurrezionale notevole. Il fatto che il Sultano, dopo avere seminato instabilità e terrore, ottenga di nuovo la maggioranza assoluta, pone un film come Mustang, con tutte le sue fragilità, in una luce completamente nuova. Un oggetto critico che in Turchia può essere speso in una direzione e in Francia in una direzione completamente diversa.

Fonte: MicroMega online 

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