La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 6 novembre 2015

Stato di eccezione

di Tommaso Nencioni
La sto­ria poli­tica euro­pea degli ultimi trent’anni è la sto­ria della difesa della libertà del mer­cato dall’assedio della demo­cra­zia. Una tor­sione inso­ste­ni­bile rispetto al pre­ce­dente ciclo con­ti­nen­tale – anch’esso per cau­sa­lità tren­ten­nale – che aveva regi­strato, se non un rove­scia­mento, almeno un robu­sto rie­qui­li­brio di forze tra i movi­menti popo­lari e le éli­tes mer­ca­ti­ste. Non importa esser fer­rati nell’armamentario della sco­la­stica mar­xi­sta d’antan per sot­to­li­neare que­sto rie­qui­li­brio di forze: la nostra carta costi­tu­zio­nale può esser letta come la sua più alta espres­sione europea.
Un rie­qui­li­brio che i codici isti­tu­zio­nali e morali sorti dalla guerra civile euro­pea e dal ciclo lungo delle lotte ope­raie e con­ta­dine erano stati in grado di foto­gra­fare abba­stanza fedel­mente. In con­se­guenza, la ten­sione tra costi­tu­zione scritta e costi­tu­zione mate­riale pro­pria della fase attuale deriva da un mole­co­lare, pro­gres­sivo e final­mente esploso cam­bia­mento di para­digma nei rap­porti tra inte­ressi del mer­cato e domande popo­lari.
Di qui il con­ti­nuo ricorso allo stato di ecce­zione, la via sem­pre più fre­quente di sosti­tu­zione di un ordine ege­mo­nico con quello suc­ces­sivo da parte dei gruppi diri­genti tra­di­zio­nali, impos­si­bi­li­tati ad attuare fino in fondo la (per loro vitale) contro-rivoluzione nell’ambito isti­tu­zio­nale dato. Si badi bene che non di un feno­meno solo ita­liano si tratta: se l’attuale governo, in nome della “sta­bi­lità”, ha avo­cato all’istituto pre­fet­ti­zio (a-democratico per eccel­lenza) il com­pito di gui­dare l’amministrazione romana, nella Gran Bre­ta­gna degli anni Ottanta del secolo scorso, impe­gnata nel dare il là al cam­bio di ciclo, il con­si­glio muni­ci­pale della capi­tale fu diret­ta­mente sciolto. E a livello macro, cos’è stata la costru­zione euro­pea tra gli anni Novanta e Due­mila se non un gigan­te­sco pro­cesso di espro­pria­zione della legit­ti­mità demo­cra­tica e di avo­ca­zione del potere deci­sio­nale a pre­sunti luo­ghi neu­trali, depu­tati alla rea­liz­za­zione dell’utopia libe­rale della pura amministrazione?
Ma il fatto è che, sotto la maschera di isti­tu­zioni (e lin­guaggi) appa­ren­te­mente neu­trali, si è inne­stato un ciclo di accu­mu­la­zione espro­pria­tivo (secondo la defi­ni­zione di David Har­vey) che non può non inne­scare una rea­zione popo­lare da tenere sotto con­trollo e mar­gi­na­liz­zare, pena l’incepparsi dell’intero meccanismo.
Quat­tro le carat­te­ri­sti­che di que­sto nuovo ciclo di accu­mu­la­zione, che da vicino richiama, esten­den­dolo sul piano pla­ne­ta­rio, l’accumulazione ori­gi­na­ria dell’Inghilterra alle soglie della rivo­lu­zione indu­striale: un’intensificazione rispetto al ciclo pre­ce­dente dello sfrut­ta­mento della mano­do­pera occu­pata; una ricon­du­zione, tra­mite ingenti pri­va­tiz­za­zioni, nell’ambito del mer­cato di set­tori che il senso comune iden­ti­fica istin­ti­va­mente come beni comuni (la terra nell’Inghilterra del ‘600, l’acqua, o la sanità, oggi); l’espulsione dalla terra di ori­gine di masse dise­re­date e la crea­zione di un enorme eser­cito di disoc­cu­pati, un feno­meno anch’esso oggi glo­ba­liz­zato rispetto al modello ori­gi­na­rio; la finan­zia­riz­za­zione e l’indebitamento come via al man­te­ni­mento arti­fi­ciale dei livelli di svi­luppo (nell’Italia di oggi, men­tre lo Stato, diret­ta­mente o indi­ret­ta­mente, esime i grandi patri­moni dall’obbligo con­tri­bu­tivo, si invita chi non può per­met­tersi di pagare le tasse locali a pre­stare gra­tui­ta­mente il pro­prio lavoro per i ser­vizi pub­blici, una cosa che ricorda molto da vicino la vit­to­riana “ser­vitù per debiti”).
In que­sta cor­nice, com­por­ta­menti che solo una man­ciata di lustri orsono sareb­bero apparsi delit­tuosi in base alla morale ed alla legi­sla­zione cor­rente, ven­gono o depe­na­liz­zati dallo Stato (il falso in bilan­cio, ad esem­pio), o sot­ter­ra­nea­mente igno­rati (il capo­ra­lato come ridu­zione in schia­vitù) in quanto essen­ziali per la salute del modello di svi­luppo in fieri. Ed è in fondo nor­male che sia così, nel momento in cui gli ordi­na­menti pub­blici ven­gono in qual­che maniera tra­volti dalle neces­sità dell’accumulazione e del man­te­ni­mento del potere nelle mani delle éli­tes mercatiste.
Negli Stati Uniti di oggi la memo­ria dei Mor­gan e dei Roc­ke­fel­ler, i Rob­ber baron fon­da­tori della Nazione, è pre­ser­vata come quella di eroi epo­nimi, ma le loro for­tune sull’asse oriz­zon­tale dell’espansione fer­ro­via­ria e quella ver­ti­cale dell’estrazione petro­li­fera furono accu­mu­late con metodi ban­di­te­schi, che solo a poste­riori sono state impan­cate a modello di virtù repub­bli­cana. E il decoro della Lon­dra vit­to­riana – ce lo ricorda la Tri­lo­gia dell’oppio di Ami­tav Gosh da poco tra­dotta anche in Ita­lia – fu in gran parte costruita su una spo­lia­zione delle peri­fe­rie dell’impero attuata con metodi altret­tanto bru­tali: solo la riscrit­tura della sto­ria da parte delle classi domi­nanti e la loro attuale ege­mo­nia impe­di­sce di assi­mi­lare i capi­tani corag­giosi di quella vicenda ai traf­fi­canti di uomini che oggi infe­stano le coste del Mediterraneo.
Nel corso di stra­vol­gi­menti epo­cali come l’attuale, tut­ta­via, bloc­chi sto­rici, tanto di potere quanto di oppo­si­zione, si fran­tu­mano e si ri-configurano. Le fron­tiere delle ege­mo­nie si fanno mobili, il con­flitto perde la pro­pria cen­tra­lità ed esplode in mille rivoli dispersi, e soprat­tutto il movi­mento popo­lare, nel breve periodo, ne esce fra­stor­nato. Ma l’utopia libe­rale della “pura ammi­ni­stra­zione” già appare desti­nata a rive­larsi, appunto, un’utopia. Quanto letale si possa rive­lare non lo sap­piamo ancora, e spetta al contro-movimento delle classi subal­terne tro­vare codici comuni e moda­lità dell’agire poli­tico adatte a rie­qui­li­brare l’arbitrio dell’élite mer­ca­ti­sta. Que­sta ricom­po­si­zione del movi­mento di oppo­si­zione alla grande espro­pria­zione in corso è all’ordine del giorno: un com­pito enorme, dif­fi­cile ed allo stesso tempo appas­sio­nante, da met­tere in campo prima che le éli­tes sug­gel­lino il pro­prio trionfo ed ai Rob­ber baron di oggi si inti­to­lino nuove piazze e nuove università.

Fonte: il manifesto 

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