di Alessandra Quarta e Michele Spanò
La crisi economico-finanziaria esplosa nel 2008 ha avuto devastanti conseguenze negli Stati europei e, tra questi, in Italia. L’aumento della disoccupazione, indotto dalla chiusura di molte imprese e dall’assenza di politiche industriali capaci di generare nuovi posti di lavoro, ha colpito larghe fasce della popolazione e in particolare quella giovanile (il cui tasso di disoccupazione ha oggi superato il 40%). L’arresto della crescita economica ha contribuito a diffondere la povertà relativa e quella assoluta, aggravando le condizioni di vita di molte famiglie, soprattutto nel sud dell’Italia, dove il sistema di welfare e gli investimenti in spesa sociale versavano già in condizioni critiche. Negli ultimi anni, sono stati principalmente i Comuni a finanziare la spesa sociale, con un impegno diverso sul territorio nazionale e un conseguente effetto negativo in termini di diseguaglianza; le sovvenzioni statali, al contrario, sono diminuite drasticamente, fino ad azzerarsi in settori particolarmente delicati (ad esempio il Fondo Nazionale per le persone non autosufficienti e il Fondo Nazionale Affitti).
L’attuale situazione economica induce processi di esclusione sociale in grado di compromettere il diritto alla salute, il diritto alla casa e quello al lavoro, rendendo di fatto evanescenti le garanzie giuridiche esistenti. All’interno di questo scenario, è tuttavia possibile isolare una serie, non esigua, di “pratiche di resistenza” alla crisi. Nel corso degli ultimi anni, infatti, le incertezze e i problemi determinati dalla crisi economica sono stati molto spesso affrontati attraverso processi collaborativi e di condivisione, cooperativi e solidali, che meritano di essere analizzati con sguardo critico e con la consapevolezza che essi, negativamente e specularmente, altro non segnalano se non, da un lato, le mancanze del sistema pubblico e, dall’altro, le disfunzioni del mercato.
L’attuale situazione economica induce processi di esclusione sociale in grado di compromettere il diritto alla salute, il diritto alla casa e quello al lavoro, rendendo di fatto evanescenti le garanzie giuridiche esistenti. All’interno di questo scenario, è tuttavia possibile isolare una serie, non esigua, di “pratiche di resistenza” alla crisi. Nel corso degli ultimi anni, infatti, le incertezze e i problemi determinati dalla crisi economica sono stati molto spesso affrontati attraverso processi collaborativi e di condivisione, cooperativi e solidali, che meritano di essere analizzati con sguardo critico e con la consapevolezza che essi, negativamente e specularmente, altro non segnalano se non, da un lato, le mancanze del sistema pubblico e, dall’altro, le disfunzioni del mercato.
Gruppi informali e spontanei di soggetti hanno cominciato a dar vita a nuove pratiche di solidarietà o a sperimentare l’autorganizzazione per rispondere a bisogni fondamentali individuali o collettivi. La reviviscenza di esperienze comunitarie ne attesta una nuova centralità: la cooperazione diviene infatti la premessa e l’operatore di una diversa distribuzione di costi e benefici. In Europa, la Grecia – dove l’applicazione delle misure di austerità come antidoto alla crisi economica ha finito per produrre una forma feroce di eterogenesi dei fini, determinando un ingente impoverimento della popolazione e l’impossibilità da parte dello Stato di garantire il benessere dei cittadini – ha conosciuto esperienze di questo tipo: il collasso del servizio sanitario nazionale, ad esempio, è stato affrontato attraverso risposte costruite “dal basso”, con l’apertura di ambulatori sociali e farmacie solidali, diventate importanti pratiche di resistenza alla crisi.
Anche in Italia è ormai possibile fornire una mappa dettagliata di pratiche tra loro molto diverse che assolvono obiettivi altrettanto differenziati, ma che presentano tuttavia tratti comuni: reagiscono alla crisi economica attraverso soluzioni alternative tanto al sistema pubblico che al mercato, attivano meccanismi di solidarietà e di cooperazione, sono disciplinate da statuti e consuetudini. Dal punto di vista del pensiero economico, queste esperienze, riconducibili alla cd. sharing economy, stimolano una riflessione generale sull’attuale modello economico neoliberale, basato su una forma radicale di individualismo e sulla convinzione che il meccanismo concorrenziale sia l’unico capace di soddisfare bisogni differenti e in competizione tra loro.
Alcune di queste pratiche nascono come risposta diretta a una situazione di bisogno o di assenza determinata dalla crisi: si pensi, ad esempio, al cohousing, che consente di affrontare l’esigenza abitativa in una dimensione comunitaria; al coworking, che rappresenta una nuova forma del lavoro; o agli strumenti di finanza etica, che consentono di finanziare attività, progetti e imprese sociali che, altrimenti, non riuscirebbero ad accedere agli ordinari canali di credito. Queste esperienze, pur evidenziando una disfunzione nelle politiche pubbliche, si dimostrano alternative anche al sistema privato e in particolare al mercato, opponendo alla concorrenza la cooperazione. In altri casi, l’autorganizzazione finisce per sostituire il Welfare State, introducendo nel nostro ordinamento soluzioni dette di neo-mutualismo, che appaiono modellate su quelle adottate all’inizio del ‘900. La creazione di ambulatori sociali e di sportelli che offrono servizi di cd. bassa soglia (indirizzati cioè a persone che versino in una situazione economica di estrema difficoltà senza alcuna condizionamento d’accesso, es. costo della prestazione, titolarità di documenti di identità e di riconoscimento) si inserisce in questa stessa cornice e consente di interrogarsi su quanto questo fenomeno possa costituire una riserva di creatività sociale e istituzionale destinata a durare e a “supplire” a uno Stato che non finisce di “ritirarsi” dal sociale.
A cavallo tra queste due “famiglie” di pratiche, si colloca il fenomeno del crowdfunding: la raccolta di finanziamento presso il pubblico, attraverso piattaforme digitali, ha conosciuto un’ampia diffusione negli ultimi anni e rappresenta un’alternativa all’assenza di risorse pubbliche, ma anche un modo di finanziare progetti imprenditoriali, sociali e culturali capaci di influenzare “emotivamente” il donatore.
Questo frammentato scenario – che di certo non esaurisce l’ampio numero di pratiche emerse in risposta alla crisi, ma di cui il convegno vuol essere un primo tentativo di campionatura e mappatura – racconta realtà che sempre più rappresentano i nuovi stili di vita delle italiane e degli italiani.
Il convegno si propone di offrire una presentazione e un’analisi di alcune di quelle pratiche che possono essere ricondotte al quadro di senso sopra descritto, raccogliendo sensibilità e pratiche diffuse e facendole dialogare con giuristi, economisti, filosofi, politologi e antropologi. Per ciascuna pratica oggetto di approfondimento, sarà scelto un caso specifico e un soggetto promotore che lo possa raccontare, al fine di introdurre l’argomento ed evidenziare alcuni nodi della discussione. L’obiettivo è di colmare la lontananza che spesso si registra tra pratiche sociali e scienze umane, costruendo un momento di confronto che consenta di verificare la duttilità di alcune categorie, la necessità di nuove elaborazioni teoriche e l’eventuale capacità di rispondere a necessità e istanze sociali sempre più urgenti.
Fonte: Alfabeta2
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