La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 6 novembre 2015

Ttip: l'impero colpisce ancora

di Marco Palazzotto 
Lo scorso 5 ottobre è stato raggiunto un accordo tra Stati Uniti d’America, Giappone e altri 10 paesi, per la creazione di un trattato di libero scambio, che ha lo scopo di facilitare il commercio internazionale tra 12 paesi, attraverso la cancellazione di dazi e tasse su alcuni prodotti oggetto di negoziato. Il nome del trattato è Trans-Pacific Partnership (TPP) e coinvolge oltre a USA e Giappone, anche: Australia, Brunei, Canada, Cile, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam.
Un accordo simile è in fase di elaborazione tra USA e Unione Europea e si chiama “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (TTIP). Anche questo accordo avrebbe lo scopo di migliorare gli scambi internazionali tra gli USA e il vecchio continente, abbattendo barriere tariffarie e semplificando la normativa su alcuni settori dell’economia.
Gli studi favorevoli al TTIP hanno stimato che il PIL mondiale aumenterebbe tra lo 0,5 e l’1 per cento e aumenterebbe anche quello dei singoli stati. Inoltre, per quanto riguarda la semplificazione normativa, si avrebbero benefici dalla riduzione della burocrazia.
Le critiche al TTIP sono diverse, ed hanno come unico comune denominatore la sempre più accentuata marginalizzazione delle istituzioni pubbliche nella gestione della cosa economica. Addirittura si parlerebbe della previsione di arbitrati privati per la risoluzione di controversie tra le multinazionali e stati aderenti nel caso di mancato rispetto degli accordi. Per un approfondimento sul TTIP si rimanda aquesto dossier pubblicato da Le Monde Diplomatique.
Il promotore principale di questi due accordi è, ovviamente, il governo statunitense. Tale scelta si inserisce in una strategia d’oltreoceano diversa rispetto agli ultimi decenni che sono stati caratterizzati – fino alla crisi dei Subprime – da una crescita dei “deficit gemelli” degli USA: un deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti (aumento delle importazioni di merci e aumento delle importazioni di capitali dall’estero che, come sappiamo, hanno alimentato - tra l’altro - la bolla immobiliare che ha portato allo scoppio della crisi del 2007/2008) e un deficit del bilancio federale.
Nello stesso ventennio la politica industriale della famiglia Bush, sia quella di Clinton e in parte anche durante il primo mandato Obama, ha favorito la delocalizzazione industriale principalmente verso l’est asiatico (in primis la Cina).


Dall’altra parte del globo la Cina ha approfittato delle politiche statunitensi e, in parte grazie all’importazione della tecnologia e in parte grazie all’enorme “esercito di riserva” a disposizione, ha di fatto preso il posto di prima potenza manifatturiera al mondo. La Russia di Putin ha sfruttato questa tendenza USA per proporsi come primo partner commerciale – principalmente per la fornitura di materie prime - con la vicina Cina e la Germania.
L’ascesa di Porošenko in Ucraina e la firma dei due trattati in premessa si inseriscono in questo cambiamento di strategia che ha il dichiarato scopo di rioccupare il ruolo di principale interlocutore commerciale con le due aree di influenza più importanti dopo la fine della seconda guerra mondiale. Cercando di isolare il più possibile i paesi BRICS (in particolare Russia e Cina). Questo è il contesto in cui si inserisce la politica di rilocalizzazione industriale statunitense.



Queste nuove dinamiche fanno scaturire due ordini di riflessioni.
La prima è che la realizzazione di elevati saggi di profitto alla base dell’accumulazione del capitale si può attuare solo con un settore industriale molto avanzato. Gli USA hanno capito che devono riprendere il ruolo di prima potenza fornitrice soprattutto verso le sue storiche aree di influenza: i paesi NATO e il Giappone. Questo comporta la ripopolazione nel territorio USA delle industrie che hanno delocalizzato nell’ultimo trentennio verso l’oriente o che comunque hanno perso quote di mercato verso l’industria cinese, tedesca, giapponese.
La seconda riflessione che viene in mente, dipendente dalla prima, è che si va profilando geopoliticamente una dinamica non molto diversa da quella dell’imperialismo novecentesco, con buona pace degli apologeti della globalizzazione e dei sostenitori della fine degli Stati Nazione. Ciò dimostra che l’imperialismo rimane “la fase suprema del capitalismo” contemporaneo.

Fonte: PalermoGrad

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