La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 6 novembre 2015

Il tempo di lavoro nell’era delle stampanti 3D

di Mario Agostinelli e Bruno Ravasio
Ci è sem­brata molto inte­res­sante la pro­po­sta di Valen­tino Par­lato, in uno dei primi inter­venti nel dibat­tito aperto dal mani­fe­sto (“C’è vita a sini­stra”), di ini­ziare, nella ricerca di una nuova iden­tità della sini­stra, dalla ridu­zione del tempo di lavoro. Del resto, agli albori della civiltà indu­striale, fu pro­prio la riven­di­ca­zione di orari di lavoro più umani la molla per la nascita e l’affermazione dei movi­menti socia­li­sti in Europa. Le otto ore per ridurre la fatica (“se otto ore vi sem­bran poche”), ma anche per orga­niz­zare diver­sa­mente la pro­pria vita: eight hours’ labour, eight hours’ recrea­tion, eight hours’ rest.
Siamo con­vinti che oggi, ancor più, sulla riap­pro­pria­zione del tempo si gioca la pro­spet­tiva poli­tica e demo­cra­tica di un rie­qui­li­brio a favore di natura e lavoro nella con­tesa con il capitale.Noi veniamo entrambi da un’esperienza in cui la con­trat­ta­zione sin­da­cale risa­liva all’economia e alla poli­tica. Pro­viamo quindi a ripro­porre quel per­corso allora pra­ti­cato in migliaia di ver­tenze, aggior­nan­dolo rispetto alle novità che sfug­gono al con­flitto odierno e di cui si impos­sessa un libe­ri­smo senza avver­sari, per avan­zare così uno spez­zone di pro­po­sta e di “vita a sinistra”.
Il tempo ha a che fare con la nostra iden­tità e si può coniu­gare in diversi modi. Ne siamo coscienti a tal punto da poter dire di “essere fatti di tempo”. Ma non ne siamo com­ple­ta­mente pro­prie­tari, se non in rela­zione alla società cui appar­te­niamo e al ruolo che vi svol­giamo. Sta di fatto che, pro­gres­si­va­mente — e in par­ti­co­lare negli ultimi quarant’anni — abbiamo assi­stito all’accentuarsi della diva­ri­ca­zione tra l’espropriazione del tempo per alcuni e il suo pos­sesso per altri. La pre­ca­rietà del lavoro, eletta a norma con l’abolizione dell’articolo 18 e il Jobs Act, cor­ri­sponde a un pas­sag­gio di pro­prietà in mano di pochi del tempo pre­sente desti­na­bile da ognuno al diritto di orga­niz­zare il pro­prio futuro. Si tratta di un feno­meno in com­pi­mento a livello glo­bale, che coin­volge ovun­que i nuovi pro­prie­tari del tempo in una inces­sante stra­te­gia di colonizzazione.
Ener­gia e scor­rere del tempo fisico, sono coniu­gati indis­so­lu­bil­mente non solo nel mondo della pro­du­zione e delle merci, ma anche in quello della nostra espe­rienza vitale — dato che il loro pro­dotto ha le dimen­sioni fisi­che di una azione. Di con­se­guenza, lo svol­gi­mento di una man­sione lavo­ra­tiva o un pro­cesso pro­dut­tivo pos­sono essere otte­nuti in molti modi: ad esem­pio impie­gando molto tempo e spen­dendo poca ener­gia oppure impie­gando poco tempo e spen­dendo molta energia.
Fin dagli albori della civiltà delle mac­chine il capi­ta­li­sta, per ridurre il costo del tempo di lavoro, si è atti­vato per impie­gare quan­tità sem­pre cre­scenti di ener­gia a prezzi infe­riori. Que­sta con­sta­ta­zione dovrebbe avere per corol­la­rio una libe­ra­zione di tempo di lavoro e una ricon­se­gna agli umani di tempo pro­prio. Oggi, al con­tra­rio, il sistema d’impresa punta soprat­tutto a satu­rare con il mas­simo di ope­ra­zioni il tempo retri­buito; a non pagare il tempo di atten­zione richie­sto tra un’operazione e l’altra e a allun­gare di fatto la pre­sta­zione in base a una repe­ri­bi­lità inces­sante. Addi­rit­tura può riser­varsi il potere, rico­no­sciuto per legge dopo il Job Act, di annul­lare o sospen­dere a comando il tempo di lavoro dei suoi sala­riati. La stra­te­gia dell’impresa si limita a mas­si­miz­zare tempo ed ener­gia sotto il pro­filo eco­no­mico a lei utile, ma non resti­tui­sce né al lavoro né alla natura l’accumulo del loro sfruttamento.
Tut­ta­via, il mutare del sistema di pro­du­zione, delle tec­no­lo­gie e dei rap­porti di classe ha rivo­lu­zio­nato il tempo sog­get­tivo dei sala­riati, creando le con­di­zioni di un irra­zio­nale eccesso di capa­cità tra­sfor­ma­tiva da parte del lavoro dipen­dente e acce­le­rando così il degrado (entro­pia) del mondo natu­rale (ener­gia e mate­rie prime) e quella crisi da sovrap­pro­du­zione che è una delle cause prin­ci­pali della crisi attuale.
Sono in corso due grandi tra­sfor­ma­zioni che riguar­dano da vicino l’organizzazione dei sistemi d’impresa e l’organizzazione del lavoro: in primo luogo la dif­fu­sione di sistemi di intel­li­genza arti­fi­ciale appli­cati alla robo­tica e, in secondo luogo, la con­ferma delle pos­si­bi­lità delle nano­tec­no­lo­gie, che per­met­tono un grande svi­luppo di “assem­bla­tori” pro­gram­mati – le attuali stam­panti 3D — che pro­met­tono evo­lu­zioni fino ad un decen­nio fa impen­sa­bili. Un recente rap­porto, rea­liz­zato da Fon­da­zione “Nord Est” e “Pro­me­teia”, ha sti­mato che già oggi un terzo delle aziende del made in Italy si avvale di robo­tica e stampa 3D.
La mani­fat­tura futura potrebbe com­pri­mere a tal punto lo spa­zio e il tempo della fab­brica, da por­tarlo a dimen­sioni acces­si­bili più agli algo­ritmi e alle ope­ra­zioni degli ela­bo­ra­tori pre-programmati (che viag­giano alla velo­cità della luce) che all’intervento dall’esterno di qual­siasi anta­go­ni­sta che agi­sca in auto­no­mia. Anche la mani­fat­tura, quindi, sta diri­gen­dosi verso la dimen­sione astratta, iper­ve­loce e di dif­fi­cile con­trollo in cui si è già col­lo­cata a van­tag­gio di pochi la finanza.
A que­sto punto c’è tut­ta­via da chie­dersi se sia social­mente e eco­no­mi­ca­mente com­pa­ti­bile una ele­vata sosti­tu­zione del lavoro con intel­li­genza arti­fi­ciale, mac­chine auto­re­pli­canti e robot. Lo spo­sta­mento verso la pro­get­ta­zione e gli auto­ma­ti­smi, lo svi­luppo della robo­tica e dei sistemi esperti che dila­gano anche verso pro­fes­sioni intel­let­tuali (già oggi) sono tutti rispar­mia­tori di forza lavoro. E men­tre per il vec­chio para­digma l’innovazione pro­du­ceva disoc­cu­pa­zione com­pen­sata da nuovi domini pro­dut­tivi, c’è da chie­dersi se que­sto sarà vero in futuro.
Ecco, dun­que, che lot­tare con­tro la satu­ra­zione arti­fi­ciale del tempo di lavoro e riven­di­care una radi­cale ridu­zione dell’orario di lavoro diventa un’occasione in grado di incep­pare i mec­ca­ni­smi di valo­riz­za­zione del capi­tale, e porta con sé la neces­sità di pen­sare alla cosid­detta alter­na­tiva di sistema. Un diverso modello di svi­luppo soste­ni­bile dal punto di vista sociale ed eco­lo­gico, che rimo­delli le nostre vite, il modo in cui ci rela­zio­niamo con gli altri e con l’ambiente che ci circonda.
Che ripensi una cre­scita che non potrà che essere qua­li­ta­tiva, pro­vando ad inno­vare con l’attenzione alla qua­lità di ciò che si pro­duce, alla ripro­du­ci­bi­lità delle risorse e all’ambiente: tutti fat­tori che costi­tui­scono, altri­menti, i limiti di uno svi­luppo solo quan­ti­ta­tivo. Dell’incoerenza di un pro­cesso di mas­si­miz­za­zione della velo­cità in fun­zione della mas­si­miz­za­zione del pro­fitto discute il papa nella sua Enci­clica. Per­ché non farne ter­reno di una seria alter­na­tiva di sini­stra al cata­stro­fico modello di svi­luppo attuale?

Fonte: il manifesto 

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