La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 5 novembre 2015

Telecom (Italia?)

di Vincenzo Vita 
Tele­com mon amour. Per l’ex mono­po­li­sta è la volta della Fran­cia che, attra­verso il già pre­sente Vin­cent Bol­loré con Vivendi (20%) e la new entry del finan­ziere Xavier Niel con Iliad (15% annun­ciato), potrebbe vir­tual­mente con­trol­lare l’azienda ita­liana. Fino a poco tempo fa il pal­lino stava nelle mani ibe­ri­che di Telefonica.
«O Franza o Spa­gna, pur­ché se magna», recita il motto attri­buito al Guic­ciar­dini. Ma, qui, è la vec­chia potenza del set­tore ad essere man­giata. Ora Con­sob e Mini­stero dell’economia si stanno pre­oc­cu­pando ed è comin­ciato il dibat­tito un po’ logoro e spun­tato sul che fare. Né gol­den power né mar­chin­ge­gni improv­vi­sati pos­sono fre­nare la sca­lata, se non la nor­ma­tiva sull’offerta pub­blica di acqui­sto. Che, però, non sem­bra essere la con­di­zione dell’avanzata d’Oltralpe. Al momento, almeno, i due signori del French capi­ta­lism non paiono alleati, almeno al punto di ingag­giarsi sull’Opa.
La sequenza in corso ora è l’ennesimo capi­tolo di una saga dalle tinte insieme dram­ma­ti­che e grottesche.
I pro­ge­ni­tori di Tele­com (Stet, Sip, e così via) erano for­tis­simi cen­tri di potere, però fun­zio­na­vano e i conti reg­ge­vano. In zona con­ti­gua, ancor­ché diversa, si muo­veva il gio­iello Olivetti.
Tut­ta­via, le scosse pri­va­tiz­za­trici che hanno inve­stito l’ex azienda lea­der della rete e dei ser­vizi ne hanno inde­bo­lito capi­ta­liz­za­zione e resi­stenza, facen­done un con­te­ni­tore debole e per­ciò ancor più appe­ti­bile. Tant’è.
La prima fase della messa sul mer­cato, nel 1997, risentì della mio­pia e dell’angustia del capi­ta­li­smo fami­liare. Men­tre esplo­deva lo tsu­nami delle dot​.com e la tele­fo­nia trai­nava l’era della nuova accu­mu­la­zione pro­prie­ta­ria con i cel­lu­lari delle moderne gene­ra­zioni tec­no­lo­gi­che –nell’acqua digi­tale– lor­si­gnori rima­ne­vano acquat­tati nelle loro cit­ta­delle, guar­dando dagli oblò la corsa futu­ri­sta dell’innovazione. La fase uno si chiuse con un «noc­ciolo duro» azio­na­rio in realtà molle e friabile.
Il secondo tempo, nel 1999, appar­tiene alla sto­ria degli incubi not­turni piut­to­sto che alle tavole del Capi­tale. E, un giorno dopo l’altro, eccoci al contemporaneo.
La vicenda di Tele­com asso­mi­glia all’autobiografia della nazione, dove intri­ghi, cial­tro­ne­rie ed assenza di una decente poli­tica indu­striale hanno dato vita ad una miscela mor­ti­fera. Quelli dell’«italianità» dove sta­vano quando sono state fatte a pezzi l’elettronica di con­sumo, la genia­lità dell’era pio­nie­ri­stica dei com­pu­ter, le ricer­che avan­za­tis­sime della Rai a Torino, le pre­ziose fab­bri­che di com­po­nenti? Al punto, che la società in pole posi­tion per dif­fu­sione di por­ta­tili e smart­phone in rap­porto alla popo­la­zione si ritrova sprov­vi­sta di mani­fat­ture e di gestori. Se Tele­com varca defi­ni­ti­va­mente i con­fini, la par­tita si chiude.
E l’Italia è terra stra­niera. Europa? Sì, ma pure Cina, Corea, Stati Uniti e altro. In tutto ciò, non si sen­tono grida d’allarme sull’occupazione. E sì, le vit­time del Risiko rischiano di essere innan­zi­tutto coloro che pro­du­cono valore e che non sanno dove fini­ranno le catene degli algo­ritmi.
Una voce si è alzata dalle orga­niz­za­zioni sin­da­cali. Ma ser­vono soprani, bari­toni e tenori. Che urlino la verità. Men­tre si naviga agli ultimi posti per la banda larga e ultra­larga, il testo di legge sulla sta­bi­lità (art. 29) ha tagliato del 50% la spesa infor­ma­tica per la Pub­blica ammi­ni­stra­zione. Eppure la Camera dei depu­tati vota che Inter­net è un bene comune. E il governo, forse, non se ne accorge. Esi­ste una linea gene­rale? Sem­bra di no. L’Italia non s’è desta. Di fran­cese ser­vi­rebbe la Rivoluzione.

Fonte: il manifesto 

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