La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 28 aprile 2016

Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle

di Mario Pianta e Maurizio Franzini
Negli ultimi trent’anni le condizioni economiche delle persone nelle nostre società sono diventate più disuguali: i ricchi sono diventati molto più ricchi, la classe media si è ridotta, i poveri sono ancor più scivolati nella povertà. Nelle economie avanzate la disuguaglianza economica, misurata sia in termini di reddito sia in termini di ricchezza, è drammaticamente aumentata, e le disparità di reddito sono addirittura tornate ai livelli di un secolo fa. La disuguaglianza rimane estremamente alta anche a livello globale, nonostante la rapida crescita dei principali paesi in via di sviluppo, come la Cina e l’India, dove le disuguaglianze interne stanno esplodendo.
Questo rende la disuguaglianza uno dei principali problemi economici e sociali del capitalismo contemporaneo, oggetto di una crescente attenzione. Due libri ad essa dedicati – quello di Joseph Stiglitz “Il prezzo della disuguaglianza” e quello di Thomas Piketty “Il capitale nel XXI secolo” – sono perfino diventati best-seller. Malgrado ciò non disponiamo ancora di una spiegazione convincente e completa dei meccanismi che ne sono alla radice.
Anche per questo la disuguaglianza è ancora lontana dal diventare un motore di mobilitazione sociale, una priorità per le forze politiche e una priorità per l’azione dei governi.
L’opinione pubblica è sconcertata nell’apprendere da un rapporto Oxfam che oggi la ricchezza posseduta dall’1% più ricco della popolazione mondiale è uguale a quella dal resto dell’umanità. I fattori che hanno portato a tale palese ingiustizia sfuggono all’opinione pubblica: che collegamento c’è con le condizioni di vita concrete delle persone? Come si potrebbe evitare un esito così iniquo? Nonostante occasionali manifestazioni “contro l’ 1% dei più ricchi” manca una strategia politica capace di invertire questa tendenza.
Il pensiero dominante ha a lungo sostenuto che la disuguaglianza economica è una condizione necessaria per raggiungere gli obiettivi più generali della crescita economica e dell’efficienza di mercato – o, nel migliore dei casi, è un loro spiacevole effetto collaterale. Perché, allora, dovremmo preoccuparci dell’alta disuguaglianza?
Quando iniziamo a discutere del problema, ci viene detto che la disuguaglianza è in gran parte la conseguenza di forze internazionali o globali che sono fuori dal controllo degli stati nazionali, cioè delle entità che finora hanno messo in atto le politiche di contrasto alla disuguaglianza. In effetti, un secolo fa, le forze delle disuguaglianze avevano le proprie radici all’interno delle economie nazionali, mentre oggi esse tendono a essere soprattutto espressione di processi globali: i grandi flussi internazionali di capitali, beni, lavoratori e conoscenza, l’espansione della finanza, l’ascesa e declino dell’industria e delle specializzazioni produttive, i sistemi di produzione internazionale delle imprese multinazionali, i livelli salariali che sono condizionati dai bassi salari dei paesi emergenti.
La capacità delle politiche nazionali di affrontare questi cambiamenti è fortemente diminuita e gli stati sembrano accettare la propria impotenza, rinunciando a contrastare la disuguaglianza e le sue conseguenze più inaccettabili. Per di più, non è emersa nessuna autorità politica internazionale con il potere di affrontare e regolare gli effetti dell’aumento delle disparità che emergono dai processi globali.
Infine, ci viene detto che le forme assunte dalle disuguaglianze presentano una complessità senza precedenti, sono diverse dal passato, hanno molteplici dimensioni e attraversano diversi gruppi: riguardano reddito e ricchezza, lavoro e classi, genere e origine etnica, istruzione e condizioni sociali, capacità e comportamenti individuali, e così via. Tale complessità è difficile da capire e ancor più da affrontare: come possiamo essere sicuri che le politiche possano migliorare una dimensione della disuguaglianza senza che ne peggiorino allo stesso tempo un’altra?
Tali argomentazioni devono essere prese in considerazione, ma non giustificano l’abbandono di ogni tentativo di ridurre le disuguaglianze. La disuguaglianza del ventesimo secolo ha avuto come principali motori la transizione dalla società agricola a quella industriale, la conseguente struttura di classe e i rapporti di forza che stabilivano la distribuzione funzionale del reddito tra capitale da un lato e lavoro – relativamente omogeneo al proprio interno – dall’altro. Oggi la finanza è una forza dominante nella maggior parte delle economie, ridefinisce il processo di accumulazione di capitale e la dinamica della distribuzione di reddito e ricchezza. Le imprese sono impegnate in produzioni internazionali, subiscono un’intensa concorrenza e sono esposte a maggior incertezza. Il mercato del lavoro è sempre più frammentato e i lavoratori sono divisi in base al genere, tra ‘colletti bianchi’ e ‘colletti blu’, tra lavoratori della conoscenza e lavoratori manuali, tra contratti a tempo indeterminato e precari, tra lavoratori locali e migranti, per non parlare delle varie forme di disoccupazione.
Un secolo fa la struttura di classe della società spiegava gran parte delle disuguaglianze di reddito, status e opportunità. Oggi le identità di classe sono meno precise, le disuguaglianze tra i lavoratori sono più profonde ed emergono nuovi fattori. Le disuguaglianze vissute dalle persone sono una combinazione di fattori che comprendono condizioni di classe, di genere e origine etnica, istruzione e capacità professionali, tipo di contratto di lavoro, accesso ai diritti sociali e ai servizi pubblici, opportunità di mobilità sociale all’interno della propria generazione e tra generazioni diverse. Nel passato l’appartenenza a un gruppo sociale, in particolare alla classe dei lavoratori piuttosto che a quella dei capitalisti, era sufficiente per prevedere in maniera affidabile la posizione di un individuo nella scala sociale. Oggi le posizioni dei vari individui sono il risultato di una varietà di fattori, nuovi meccanismi definiscono le condizioni economiche di gruppi particolari e la disuguaglianza tra individui che fanno parte di categorie sociali relativamente simili può essere molto alta. Questa sovrapposizione di diverse dimensioni della disuguaglianza accresce la complessità del problema, e questo può aver scoraggiato la ricerca accademica, la mobilitazione sociale e l’azione politica.
Questo libro vuole fornire una spiegazione dell’elevata disuguaglianza – con attenzione soprattutto alla dimensione economica – che sia sufficientemente ‘semplice’ da identificarne i principali meccanismi e che sia capace allo stesso tempo di dar conto della sua complessità. La nostra tesi è che quattro forze siano alla radice dell’attuale disuguaglianza economica.
a. Il potere del capitale sul lavoro
Per i paesi avanzati tutti i dati disponibili indicano l’inizio degli anni ottanta come un punto di svolta nella dinamica delle disuguaglianze. Le vittorie elettorali di Margaret Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e di Ronald Reagan negli Stati Uniti nel 1980 ha dato l’avvio all’età del neoliberismo. Al potere sono arrivate forze politiche pronte a rompere con il consenso keynesiano del dopoguerra fondato su una serie di misure che comprendevano il controllo dei movimenti di capitale e restrizioni all’azione della finanza, la contrattazione dei salari con sindacati forti, un ruolo attivo dello stato nel redistribuire il reddito e nel fornire servizi di welfare. Uno dopo l’altro, i paesi più sviluppati si sono allineati su una posizione che vedeva i mercati come strumenti idonei non solo per allocare in modo efficiente le risorse, ma anche per distribuire equamente i compensi. La liberalizzazione e la deregolamentazione sono diventate priorità in tutti i campi dell’economia e della società, economie relativamente chiuse sono state aperte a crescenti scambi commerciali e movimenti di capitale.
L’ascesa della finanza è stato il processo più importante. Gli anni settanta sono stati un decennio di grave crisi dell’ordine mondiale del dopoguerra, caratterizzato dalla produzione di massa nelle industrie “fordiste”, da conflitti con sindacati e movimenti sociali che contestavano il potere del capitale a tutti i livelli. Nei paesi avanzati la risposta del capitale è stata uno spostamento verso la finanza, che offriva nuove possibilità di accumulazione di capitale. La regolamentazione del settore bancario introdotta dopo la Grande Depressione degli anni trenta è stata progressivamente eliminata, sono stati liberalizzati i movimenti di capitale – rendendo così impossibili sistemi di controllo dei tassi di cambio -, la finanza ha trovato nuovi strumenti e nuovi campi di applicazione – i mercati future, la speculazione sui cambi, i derivati, gli hedge funds, le transazioni sui prodotti alimentari, le materie prime, le emissioni di anidride carbonica e così via – con un enorme potenziale per la crescita dei valori finanziari e per la speculazione di breve periodo. Un decennio dopo nei paesi avanzati la globalizzazione e la rapida diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno trasformato i sistemi di produzione, le tecnologia, i flussi d’investimento, riducendo la produzione interna, distruggendo posti di lavoro, rompendo il potere dei sindacati, abbassando i salari.
Il nuovo potere del capitale sul lavoro ha portato dagli anni ottanta a oggi a uno spostamento di almeno dieci punti percentuali di Prodotto interno lordo (Pil) dalla quota dei salari a quella del capitale nei paesi avanzati. Questo spostamento contribuisce a spiegare l’aumento – di entità ancora più grande – della disuguaglianza di ricchezza causata dal crescente valore delle attività finanziarie e immobiliari e l’aumento senza precedenti dei redditi dei ‘super ricchi’ dovuti ai compensi inauditi dei manager e di altre categorie di privilegiati, agli alti profitti, ulteriormente accresciuti dai notevoli incrementi di valore dei beni finanziari e immobiliari. Ad esempio, nelle 350 maggiori imprese statunitensi – secondo uno studio di Mishel e Davis – il rapporto tra i compensi dei manager e il salario medio dei dipendenti è passato da 30 a 1 nel 1978, a 383 a 1 nel 2000, a 296 a 1 nel 2013 e riflette in modo molto evidente il nuovo potere del capitale sul lavoro.
b. Il capitalismo oligarchico
Una disuguaglianza che viene alimentata dal forte aumento dei redditi più elevati presenta caratteristiche che ricordano l’ancien régime precedente alla rivoluzione francese. La nuova ‘aristocrazia del denaro’ concentra la ricchezza in proporzioni che erano state a lungo dimenticate. Il mantenimento e l’estensione della massa di questa ricchezza hanno la priorità sulla crescita dei flussi di reddito. Il risultato – come mostrato dal volume di Piketty è un crescente rapporto capitale/reddito e una maggiore concentrazione dei rendimenti del capitale, soprattutto in economie caratterizzate da una più lenta crescita del Pil. Il modo in cui tale ricchezza viene ottenuta è sempre meno il risultato di processi competitivi, innovazioni schumpeteriane, successi sul mercato. Ha sempre più a che vedere con rendite monopolistiche, protezioni dalla concorrenza, bolle immobiliari e finanziarie. I ‘super ricchi’ hanno sempre più le caratteristiche di ‘oligarchi’ la cui ricchezza proviene dal potere e dal privilegio – protezioni politiche, posizioni monopolistiche, acquisizioni di imprese pubbliche privatizzate – piuttosto che dal successo economico.
In moltissimi casi gli elevatissimi redditi di chi fa parte dell’oligarchia non sono determinati dal merito. Peraltro, una ricchezza così concentrata si trasmette nel tempo all’interno delle famiglie – un altro elemento tipico dell’ancien régime – con la conseguenza che l’importanza della ricchezza acquisita grazie alle eredità aumenta in tutti i paesi avanzati (come mostrato di recente dai lavori di Piketty e Zucman). In questo ‘capitalismo oligarchico’ la trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza diventa più forte, la mobilità sociale svanisce, il legame tra ‘meriti’ e compensi ottenuti si allenta – come mostrato nel volume di Franzini, Granaglia e Raitano “Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?” (Il Mulino, 2014). Alcuni aspetti di questo modello, come l’importanza delle relazioni sociali rispetto al merito per trovare lavoro o per ottenere stipendi più alti, si stanno diffondendo in tutto il sistema, con una pericolosa ricerca del privilegio piuttosto che della competenza. Come già argomentato una disuguaglianza estrema di questo tipo porta a una minor efficienza economica e a una minor crescita. Ancor più preoccupante è la prospettiva che gli oligarchi possano sempre più influenzare i processi politici, condizionando i governi e determinando un drammatico indebolimento dei sistemi democratici.
c. L’individualizzazione delle condizioni economiche
Il crescente potere del capitale e il ‘capitalismo oligarchico’ sono i motori delle disuguaglianze nella parte più alta della distribuzione del reddito: aumentano le distanze tra i più ricchi e tutti gli altri e, ancor più, quelle con i più poveri. Ma le disuguaglianze sono aumentate anche all’interno del ‘99%’. Qui il meccanismo fondamentale è il processo di individualizzazione che ha messo i lavoratori in concorrenza l’uno con l’altro per stipendi e carriera, ha portato ad una polarizzazione delle competenze e delle qualifiche, ha spinto i liberi professionisti e i lavoratori indipendenti in mercati sempre più concorrenziali. Individualizzazione vuol dire che i lavoratori hanno in genere lavori più precari con un’ampia varietà di forme contrattuali – a tempo determinato, part-time, lavori su commessa, con ‘partita Iva’ – mentre le giovani generazioni hanno traiettorie professionali sempre più incerte e diversificate. Oltre agli occupati, anche i pensionati dipendono per i loro redditi da sistemi pensionistici differenziati, spesso legati all’andamento dei mercati finanziari. Complessità ulteriori emergono quando si considerano, come unità di osservazione, le famiglie che comprendono individui che presentano situazioni assai diverse.
Per gli occupati queste dinamiche hanno portato alla polarizzazione dei posti di lavoro sulla base delle qualifiche e delle categorie professionali, accompagnata da una frequente polarizzazione dei salari. La maggior parte della disuguaglianza salariale non viene spiegata dalle capacità e dal livello di istruzione, ma piuttosto dall’origine familiare o dalle reti di relazioni in cui si è inseriti. L’indebolimento dei sindacati e della contrattazione collettiva ha eliminato il meccanismo più importante che faceva convergere tra loro i redditi da lavoro e sosteneva le dinamiche salariali; sono state aperte le porte alla contrattazione a livello di singola impresa e a contratti individuali che hanno aumentato le disparità tra i lavoratori dipendenti. Diverse politiche dei governi, in particolare la generale riduzione della protezione legislativa del lavoro, hanno contribuito a questo risultato.
La complessità delle disuguaglianze che riguardano il ‘99%’ è il risultato di tutti questi fattori. In sistemi produttivi in rapida trasformazione – influenzati dal cambiamento tecnologico, dalla globalizzazione, dall’evoluzione delle tipologia professionali – le disparità salariali sono aumentate. E sono cambiate le istituzioni del mercato del lavoro, che ora offrono un minore grado di protezione ai lavoratori e una frammentazione delle figure contrattuali, aumentando così le disuguaglianze tra chi percepisce redditi da lavoro.
Ma non è solo una questione di redditi. Le identità sociali sono diventate più frammentate, le strutture di classe sono meno definite, nuove divisioni sono emerse. L’enfasi neoliberale sull’individuo, le sue scelte e le sue opportunità, ha influenzato il comportamento sociale anche tra i lavoratori. I meccanismi tradizionali che creavano identità collettive e solidarietà – la sindacalizzazione dei dipendenti di un’impresa o di un settore, l’attivismo locale, le mobilitazioni sociali – sono stati indeboliti da un’individualizzazione che può essere vista come un’ulteriore e più profondo segno del nuovo potere del capitale sul lavoro.
d. L’arretramento della politica
Fino agli anni settanta nei paesi avanzati lo stato, attraverso una vasta gamma di attività e politiche, ha svolto un ruolo fondamentale nella riduzione delle disuguaglianze. La distribuzione del reddito era governata da politiche complessive che riguardavano i redditi, la tassazione, il controllo degli affitti, la regolamentazione della finanza e dei flussi di capitale. Le disparità che emergevano dai meccanismi di mercato erano contenute da un sistema di tassazione fortemente progressivo, da imposte specifiche sui beni di lusso, da elevate imposte di successione che colpivano le eredità, da un’ampia fornitura di servizi pubblici fuori dal mercato; dal sostegno al reddito dei meno fortunati.
Dagli anni ottanta in poi quasi tutte queste politiche sono state cancellate – come nel caso dell’imposta di successione in molti paesi – o sostanzialmente indebolite – come nel caso dell’imposizione progressiva sul reddito. Le politiche hanno preso la strada della liberalizzazione dei mercati e della deregolamentazione. Sono state introdotte politiche per modificare una lista infinita di ‘regole del gioco’ in nome dell’efficienza di mercato e della riduzione degli ‘sprechi pubblici’. L’impresa privata è stata incoraggiata, la finanza privata è stata favorita ancora di più, la regolamentazione è stata ridotta, molte attività pubbliche sono state privatizzate e, a volte, consegnate a ‘capitalisti oligarchi’. Quest’orizzonte neoliberale si è progressivamente affermato in tutti i paesi avanzati.
Fino agli anni settanta l’azione dello stato per ridurre le disuguaglianze ere molto più ampia della semplice fissazione delle regole e della “correzione” degli esiti di mercato. La fornitura su larga scala – soprattutto in Europa – dei servizi pubblici attraverso sistemi non di mercato – tra cui l’istruzione, la sanità, la sicurezza sociale, le pensioni, la tutela dell’ambiente, ricerca e sviluppo pubblici, etc. – ha fatto sì che il funzionamento dei mercati, con la loro spinta verso esiti disuguali, fosse limitato e che le persone potessero accedere a tali servizi sulla base del proprio status di (uguali) cittadini, piuttosto che sulla base della loro (disuguale) capacità di pagare. Questo è stato un potente fattore che ha ridotto le disuguaglianze dagli anni cinquanta fino alla fine degli anni settanta in tutti i paesi avanzati.
In molti paesi europei l’intervento statale riguardava anche le attività economiche, con le imprese pubbliche che gestivano infrastrutture, acqua, energia, comunicazioni, e operavano in una serie di settori chiave, dall’acciaio alla chimica e all’elettronica. Quando le attività economiche vengono svolte da organizzazioni di proprietà pubblica – enti pubblici o imprese – i profitti o non esistono o costituiscono entrate per lo Stato, riducendo la tassazione; la loro attività non porta ad accrescere la quota del capitale nella distribuzione del reddito o l’importanza della finanza. La gestione da parte dello stato deve puntare all’efficienza e all’efficacia, non al massimo profitto e ai lavoratori delle organizzazioni di proprietà pubblica sono di solito concessi salari più elevati, maggiori diritti sindacali con contratti di lavoro che tendono ad avere effetti ugualitari. Nel caso delle imprese pubbliche che operano accanto a imprese private nello stesso settore, questo ha un effetto anche sui salari e sulle condizioni di lavoro delle aziende private, nonché sulla possibilità di evitare pratiche collusive, eccessivo potere di mercato e aumenti dei prezzi.
Dagli anni ottanta, la spinta verso la privatizzazione delle imprese pubbliche e dei servizi pubblici, e verso l’esternalizzazione a organizzazioni private della fornitura di servizi – imprese e organizzazioni non profit – ha collocato gran parte di tali attività in contesti di mercato, rompendo tutte le condizioni che avevano limitato le disuguaglianze in tali settori. E oggi i salari più bassi si trovano spesso nelle attività esternalizzate per la fornitura di servizi pubblici.
Come documentato da molti studi – in particolare dall’ultimo libro di Tony Atkinson “Disuguaglianza. Che cosa di può fare (Raffaello Cortina, 2015) – l’impatto sulla disuguaglianza di tale arretramento della politica è stato enorme. Le disparità sono aumentate sia a causa della ‘corsa in avanti’ dei più ricchi, sia per lo ‘scivolamento indietro’ dei poveri. La rinuncia della politica a contenere le disuguaglianze ha avuto conseguenze molto gravi: l’aumento della povertà, il degrado sociale, fino alla riduzione dell’aspettativa di vita per i più poveri in molti paesi – come argomentato anche da Goran Therborn (“The killing fields of inequality”, 2013).
Occorre osservare che i quattro motori della disuguaglianza operano a livelli diversi, ma interagiscono strettamente tra loro, potenziando i rispettivi effetti. Un rafforzamento del capitale rispetto al lavoro rende possibile l’introduzione di politiche che svantaggiano i lavoratori e i più poveri, e consolidano ulteriormente lo squilibrio nei rapporti di classe. L’individualizzazione delle condizioni dei lavoratori sul mercato del lavoro è strettamente associata a un rafforzamento del potere del capitale sul lavoro. Una società più individualizzata offre meno resistenza alla crescita della ricchezza e del potere degli oligarchi. La concentrazione della ricchezza nelle mani degli oligarchi consente una loro maggior influenza sul processo politico, che a sua volta può portare ad accrescere i loro privilegi. La riduzione della sfera pubblica attraverso privatizzazioni e deregolamentazione allarga lo spazio in cui opera l’effetto polarizzante delle dinamiche di mercato.
Queste molteplici connessioni tra i vari meccanismi riflettono la complessità della disuguaglianza di oggi e sono parte integrante del modello di capitalismo neoliberista che è emerso negli anni ottanta.

Questo testo è un’anticipazione dal capitolo 1 del libro di Maurizio Franzini e Mario Pianta “Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle” (Laterza, 2016).

Fonte: sbilanciamoci.info

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