La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 20 giugno 2016

Pallante, Latouche e il circo mediatico

di Alessandro Pertosa
Le parole sono importanti. E lo sono anche le definizioni, perché dicono le cose come stanno, o – piuttosto – come si pensa che stiano. Una teoria, un’emozione, un sentimento vengono espressi verbalmente dai parlanti, che talvolta discordano, e talaltra convengono su precise questioni. Dicono di riconoscersi nei medesimi valori, nella stessa cultura. Insomma, dicono la stessa cosa. O quasi. Il punto è che quando si dice quasi la stessa cosa, è proprio in quel «quasi» che si nasconde la specificità espressiva d’ognuno, la sfumatura suadente che caratterizza un pensiero in un certo modo piuttosto che in un altro, la nuancepoetica che rende la realtà poliedrica, complessa e straordinariamente bella. In quel «quasi» si nascondono spesso incomprensioni, dissapori, inimicizie, attriti. Ed è di quel «quasi» applicato alla decrescita ciò di cui vorrei parlare.
Sarà per la crisi irreversibile del capitalismo, sarà per l’aumento esponenziale dell’inquinamento, sarà per una maggiore consapevolezza generale, sta di fatto che in questi ultimi anni sempre più persone si avvicinano con interesse al mondo della decrescita. Purtroppo, però, non tutti hanno pazienza e volontà di approfondire, e così capita spesso di leggere o ascoltare di tutto. Fra i detrattori, c’è chi la considera al pari della recessione, della barbarie, o l’anticamera della povertà. Altri, fra i sostenitori, tendono a confonderla di frequente con una variante politico-economica della sinistra. Tutte questioni che infastidiscono chi tenta di studiare e operare con serietà, proponendo invece una visione alternativa alla società della crescita – entro cui si trovano sia il pensiero liberale, sia quello marxiano.
Ora, sono consapevole del fatto che il caos può anche essere una tecnica usata per sviare l’attenzione. Ma in tutto questo marasma pseudo-culturale, una cosa in particolare mi infastidisce non poco. Alcuni potrebbero dire che si tratti di una piccola cosa. Ma chi – come me – cura ogni minimo dettaglio del pensiero, le sfumature teoretiche non sono derubricabili a piccola cosa.
Veniamo al dunque: è ormai chiaro che la locuzione «decrescita felice» si sia fatta strada nel vocabolario contemporaneo italiano (e non solo). Sia i detrattori, sia i sostenitori quando parlano di decrescita le attribuiscono sempre la qualità «felice» (anzi, i detrattori giocano sui termini spiegando che per loro la decrescita può essere solo in-felice, adducendo una serie di motivazioni sbagliate, che qui non posso discutere). Ma la superficialità che dilaga nel mondo giornalistico e politico, in particolare, fa sì che si attribuisca la paternità della «decrescita felice» all’economista francese Serge Latouche, e non invece – come sarebbe corretto – al suo ideatore Maurizio Pallante.
Per i non addetti ai lavori, questa precisazione potrebbe apparire banale pedanteria. In realtà le cose stanno diversamente. E nel mio Dall’economia all’euteleia (Edizioni per la decrescita felice, Roma 2014) ho anche provato a mostrarne i motivi. La mia storia personale, di inguaribile libertario, m’ha fatto propendere più per l’impostazione di Pallante, anche se riconosco a Latouche di aver sostenuto, con merito e costanza, argomentazioni che sono largamente condivisibili. Tuttavia, non è certo questo il momento di esplicitare le differenze sensibili che intercorrono fra le due opzioni decrescenti.
In queste brevi righe, intendo soltanto denunciare un malcostume presente soprattutto nel mediocre panorama culturale italiano. Quello della superficialità. Della mancanza di rispetto per chi con fatica elabora teorie, idee, e si confronta a viso aperto, così come d’altronde da anni fanno Pallante e Latouche. E chi continua a parlare di decrescita felice, attribuendola all’economista francese, non fa un buon servizio a Pallante, né tanto meno a Latouche.
Proprio in questi giorni, su la Repubblica, di giovedì 16 giugno 2016, nella cronaca di Torino è uscita un’intervista a Maurizio Pallante, dal titolo: La mia città ideale? Quella che ristruttura e non fa grandi opere. Il giornalista, tal Paolo Griseri, nel cappello introduttivo scrive: «La decrescita felice. Maurizio Pallante è indubbiamente il teorico italiano del movimento della decrescita promosso a livello internazionale da Serge Latouche». Dando quindi ad intendere che la decrescita felice sia stata teorizzata dall’economista francese.
Vi chiederete: è un caso? No. L’errore è frequentissimo sui giornali e dilaga sul web. In un articolo del 10 maggio 2015, inserto di Economia&Finanza de la Repubblica (vedi qui), il giornalista Giuliano Balestreri, definisce Latouche «francese, classe 1940, economista-filosofo teorico della decrescita felice».
L’imprecisione si registra anche in un sito di economia (che alle sfumature teoretiche – se si possono chiamare sfumature – dovrebbe prestare attenzione), dove Giuseppe Briganti (vedi qui), dopo aver sproloquiato sostenendo che la decrescita felice «è un concetto, almeno dal punto di vista semantico, contiguo a quello di recessione», aggiunge che per comprendere cosa sia la decrescita felice «è necessario leggere il Breve trattato sulla decrescita serena di Serge Latouche, filosofo ed economista, famoso per i suoi viaggi intorno al globo». Sinceramente non so cosa abbia letto Briganti: quello che è certo è che scorrendo le pagine del Breve trattato di Latouche, la decrescita non viene mai qualificata come felice.
Potrei andare avanti per ore, tanto è vasto il bestiario online. Ma chiudo con una chicca. Perché uno può mettere in conto magari un pizzico di superficialità da parte di chi è restio a sposare la causa decrescente, mentre si aspetta maggiore accortezza e profondità nel campo «amico». Per questo stupisce leggere in un sito sensibile alle tematiche sull’ambiente che Latouche viene definito «il profeta della decrescita felice» (vedi qui).
Ribadisco: alcuni – con buona dose di superficialità – potrebbero pensare che sia una questione di lana caprina. Che in fondo la decrescita è decrescita, e tutti i loro sostenitori vogliono rivoluzionare il mondo nello stesso modo. Faccio sommessamente notare che le cose non stanno così. E che quando si affronta un tema è buona norma attingere alle fonti primarie, e non al web.
In ogni caso, da oggi in poi chi vorrà parlare di decrescita, non avendo il tempo di studiare le varie proposte, sappia almeno questo: Maurizio Pallante, e non Serge Latouche, è il teorico della decrescita felice.

Fonte: comune-info.net 

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