La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 21 luglio 2016

Genova e il mondo che non volevamo

di Caterina Amicucci
Ogni 20 luglio non posso fare a meno di tornare a quei giorni del 2001. Oggi però c’è qualcosa di diverso e di definitivo in questo anniversario, la consapevolezza cheil mondo è un luogo peggiore, più barbaro, vuoto, ostile e violento di quindici anni fa. Ripenso spesso con un sorriso al nostro slogan “un altro mondo è possibile”. Eravamo giovani, cresciuti tra le suggestioni di un mondo che non esisteva più. Non avevamo delle guide, ci barcamenavamo in maniera autodidatta. Eravamo un gruppo, ci preparammo per andare a Genova ma avevamo difficoltà a scegliere la nostra piazza. Alla fine optammo per Piazza Manin.
Alcuni di noi erano affascinati dall’insurrezione zapatista ma era difficile tradurla nella nostra realtà. Quale mondo volevamo esattamente? Non lo abbiamo mai declinato né allora né in tutti gli anni successivi. Abbiamo consapevolmente evitato di farlo e quando ci abbiamo provato ci siamo spesso trovati in disaccordo. Eppure quella suggestione, che altro non era che una possibilità, ha messo insiemela coalizione sociale più ampia e variegata che si era mai vista. Ha fatto tanta, tanta, paura ed è stata soffocata nel nostro sangue. Non avevo ancora smacchiato i vestiti che indossavo a Genova quando l’11 settembre è iniziata la guerra permanente. Fino ad oggi l’Europa è riuscita a tenerla a distanza mentre da questa parte della trincea ci inondava di cemento e centri commerciali, ma ora gli argini stanno cedendo.
Poi nel 2011, dieci anni dopo sembrava avessimo vinto, con una coalizione altrettanto ampia e con un altro slogan “si scrive acqua, si legge democrazia”. Avevamo sfidato le istituzioni sul loro piano, quello degli strumenti costituzionali, in una consultazione popolare antiliberista. Quello che è successo dopo ha dimostrato chiaramente che la democrazia è ormai un simulacro e che il re è nudo da tempo, ben prima che Barroso venisse arruolato nell’esercito di Goldman Sachs dopo la vittoria del Brexit (leggi anche Tra Barroso e Bouhlel di Franco Berardi Bifo, ndr).
Quest’anno mi sono trovata un’altra volta in una comunità eterogenea. In assoluto la più diversificata che io abbia mai sperimentato: Lesbo. Centinaia di attivisti, volontari, militanti provenienti da tutto il mondo, dagli anarchici greci a gruppi cattolici statunitensi, passando per tutto quello che c’è in mezzo. Distribuire acqua, cibo, coperte, scarpe e calzini accanto a persone con le quali non avevo nulla a che spartire, sotto tutti i punti di vista (leggi Moria, la collina degli afghani).
Ma che è successo in questi quindici anni? Come sono finita dal lottare per un altro mondo possibile a distribuire calzini a gente traumatizzata che sbarcava in canotto sulle spiagge di un’isola turistica di un paese europeo? Moltissime cose ovviamente, solo tre che per me sono importanti:
STATO. In fondo credevamo ancora nello stato. A Genova ci rivoltavamo contro le istituzioni finanziarie internazionali, gli accordi commerciali multilaterali, la tecnocrazia dell’organizzazione mondiale del commercio, il debito e il divario nord/sud. Contestavamo l’esautorazione degli stati nazionali e lo svuotamento della democrazia. La trappola dell’Euro e del reale progetto Europeo, sarebbe scattata pochi mesi dopo, ma non l’avevamo ancora capita. Non mi sentivo anarchica. Un altro mondo era possibile dentro il solco della lunga marcia della conquista dei diritti delle generazioni precedenti. Percepivo lo stato ancora come un possibile mediatore, magari difettoso ma potenzialmente recuperabile. Avevo sottovalutato il tema della complessità, già evidente all’epoca, ma in rapida ascesa negli anni successivi. Una società globale complessa radicalmente dipendente dalla tecnologia, dalle risorse e da conoscenze altamente specializzate. Lo stato oggi non possiede nessuno di questi tre requisiti che sono invece fortemente concentrati nelle mani di soggetti privati. Di fatto non può garantire nessuna governance reale e il processo è irreversibile perché se da un lato la complessità aumenta ogni giorno, dall’altro non si può insorgere contro un algoritmo o un nemico invisibile. Lo Stato Nazione ha evidentemente esaurito la sua funzione e l’ Europa è il braccio armato del capitale. Che fare? 
CAPITALISMO ESTRATTIVO. A Genova manifestavamo contro il neoliberismo economico che è ideologicamente morto nel 2008. L’assioma del non intervento dello stato in economia è stato spazzato via da centinaia di miliardi di soldi pubblici riversati nel sistema bancario privato. Siamo in un’altra fase, peggiore della precedente, quella che alcuni definiscono “capitalismo estrattivo” che estremizza la deregolamentazione neoliberista e accumula la ricchezza per espropriazione (leggi anche La geopolitica e le guerre contro i popoli di Raúl Zibechi, ndr). È interessante notare che l’Inghilterra, sempre all’avanguardia del capitalismo avanzato, provi a spingersi fuori dall’Unione Europea proprio ora che il progetto liberista del vecchio continente è compiuto.Ma anche la deregolamentazione estrema e l’accumulazione eccessiva di potere nelle mani di pochi che perseguono interessi individuali talvolta confliggenti,produce empasse nella governance. Il risultato è il caos che stiamo vivendo e che necessariamente produrrà un inasprimento e nuove forme di conflitto di cui è difficile prevedere le conseguenze. È evidente che il capitalismo è entrato in una fase di crisi e di instabilità ma è impossibile uscirne perché non esiste un’alternativa.
ASSORBIMENTO. Siamo stati assorbiti. Salvo alcune eccezioni non siamo riusciti a conservare e moltiplicare degli spazi collettivi realmente fertili e al passo con i tempi. Ci siamo atomizzati in microprogetti, microcomitati, iniziative individuali, stili di vita degni di interesse ma inevitabilmente affetti da un certo grado di complicità e riproduzione delle logiche dominanti. Abbiamo organizzato tantissimi eventi e poche idee. Ci siamo assuefatti alla guerra, alla violenza, alle nostre città gentrificate. Anche noi facciamo gli aperitivi in quei luoghi dove pullula il perbenismo benpensante borghese che bolla qualsiasi fenomeno di dissenso seppur scomposto come populista, con disprezzo e senza nessun argomento. Anche noi abbiamo assorbito quell’inguaribile ottimismo di berlusconiana e renziana maniera, per cui qualsiasi critica o autocritica è classificata come distruttiva e sfigata. L’individualismo e l’autoreferenzialità hanno avuto la meglio. Facciamo di tutto pur di non mettere in discussione il nostro piccolo salvagente alla deriva che ci consente di sopravvivere. Personalmente impiego gran parte delle mie energie nel respingere tale assorbimento incontrando enormi difficoltà.
Quando sono arrivata a Genova il 19 luglio del 2001, tutto era pieno di significato,tutto sembrava possibile e mi sentivo parte di una grande collettività. Oggi sono consapevole che un altro mondo non è possibile e che qualsiasi azione finalizzata al cambiamento sistemico cadrà nel vuoto o verrà anch’essa assorbita. Possiamo solo resistere e provare a recuperare quelle isole nella rete dell’ utopia pirata, operando scelte di radicale e rivendicata autonomia e praticando la solidarietà concreta con “gli espulsi” del sistema. In attesa di trovare una collettività ed il coraggio di affrontare la prima, provo a dedicarmi alla seconda.
Per questo mi sono ritrovata a Lesbo a distribuire calzini e scarpe accanto a centinaia di donne e uomini arrivati li da mezzo mondo, quasi tutti da soli, senza un’organizzazione collettiva. Eravamo “indipendent volunteers”, gruppi che operavano in regime di autogestione in una zona temporaneamente autonoma. E in tanti anni non avevo mai visto un autogestione cosi efficiente.
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Articolo pubblicato anche sul sito dalbasso.net
Fonte: comune-info.net

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