di Daniele Gaglianone
«Qui in val di Susa l’abbiamo capito da tempo: la politica dei partiti non ci interessa più. Noi con questa lotta moralmente abbiamo già vinto perché abbiamo costruito qualcosa che nessuno ci potrà mai togliere». Così parlava Marisa nell’estate del 2012 di fronte alla mia telecamera, con la serena determinazione di chi ha capito da che parte stare. Il volto di Marisa si illumina con un sorriso: «Certo che se perdiamo – il sorriso diventa una risata – ci saccagnano di brutto!». La risata è accompagnata dall’eloquente gesto della mano che preannuncia le (ulteriori) mazzate per i riottosi no tav. Marisa chiude il discorso scrollando le spalle come a dire: non c’è problema, io sono e resto qui.
Ho sempre pensato che quella risata sia una di quelle epifanie in cui tonnellate di parole, di azioni, di desideri si condensano in un gesto. Il vecchio adagio contro chi detiene il potere de una risata vi seppellirà espressa in forma pura da una anziana signora valsusina. Ci saccagnano di brutto.
Ho sempre pensato che quella risata sia una di quelle epifanie in cui tonnellate di parole, di azioni, di desideri si condensano in un gesto. Il vecchio adagio contro chi detiene il potere de una risata vi seppellirà espressa in forma pura da una anziana signora valsusina. Ci saccagnano di brutto.
Una risata li seppellirà
Ne vale la pena se alla fine si riesce a ridere immaginandosi le botte che lo Stato darà per farla finita con questo movimento: perché da qui, da dove si è arrivati con questa risata, non si torna più indietro. Ho ripensato a tutto questo quando ho visto la foto di Marisa sorridente con il suo bastone mentre esce dalla caserma dove si doveva recare per l’obbligo di firma, in seguito alle misure cautelari previste dalla procura di Torino. Ho riconosciuto ancora l’irriverente serenità di quel sorriso, ma ho provato amarezza perché quella foto trasmette una consuetudine a cui non ci si deve abituare. Non è affatto normale che una signora di 71 anni debba andare a firmare in una caserma. A meno che il ci-saccagnano-di-brutto non sia arrivato a una nuova fase che non riguarda solo la vicenda di Marisa. Dopo aver dichiarato che si perseguivano solo le illegalità commesse e non il diritto al dissenso, dopo aver agitato lo spettro degli anni di piombo per far scattare nella testa della gente la superficiale ma efficace associazione no tav=terrorismo, ecco la nuova frontiera: i vecchi.
Marisa racconta della perquisizione compiuta a casa sua. «Li ho caricati di miserie! Ma non vi vergognate? A 71 anni ancora questo mi doveva capitare!». Alla domanda se è in possesso di droga e/o armi la risposta è ancora una risata. Sequestrano una bandiera no tav come prova (!) dell’appartenenza al movimento. Sequestrano una felpa del famigerato NPA, Nuclei Pintoni Attivi, una formazione che mangia e beve di fronte alle recinzioni del cantiere e che ironicamente riprende una sigla bellicosa imputata ai no tav qualche anno fa.
A Marisa si contesta di aver garantito copertura e supporto a coloro che parteciparono agli scontri del 28 giugno 2015, quando un gruppo di manifestanti attaccò i jerseys posti per bloccare il percorso verso il cantiere. Marisa era su un furgone dove son stati trovati materiali che sarebbero stati utilizzati negli scontri. «Non riesco a camminare e ho chiesto un passaggio, che cosa c’era o non c’era dentro il furgone non lo sapevo». Un anno dopo arriva la misura cautelare che dovrebbe aver senso se viene predisposta in un arco temporale vicino ai fatti contestati quando ci si può rendere irreperibili e far sparire prove (la bandiera no tav): «Ma a 12 mesi di distanza che senso ha?», si chiede Marisa. «Da anni ci vogliono esasperare sperando che qualcuno perda la testa».
La linea politico/giudiziaria messa in atto dal coagulo di interessi dentro la Torino Lione ricorda una sorta di accanimento terapeutico con finalità però alterate. Qui l’accanimento si manifesta con la volontà di voler ammazzare un malato (da guarire come facevano gli inquisitori con le streghe e gli eretici) che non ha nessuna intenzione né di spegnersi né di abiurare. «Ma dove credono che lei possa andare, in Australia?!?». Marisa racconta che in caserma le han rivolto questa domanda. «Magari!», è stata la risposta. Anche se credo che Marisa non desideri andare né in Australia né altrove.
C’è un’altra signora di 71 anni, che sta benissimo dove sta. Per Nicoletta la notizia dell’obbligo di firma è caduta in un momento in cui lei si sentiva fisicamente debilitata. Le misure cautelari, previste per lo stesso episodio, le han fatto passare ogni malessere e le è tornata tutta l’energia necessaria per decidere di rifiutare l’obbligo di firma. «Mi devono portare in galera». Nicoletta lo ha scritto in una dichiarazione che è un manifesto di dignità: «Non accetto di far atto di sudditanza con la firma quotidiana, non accetterò di trasformare i luoghi della mia vita in obbligo di residenza né la mia casa in prigione; non sarò la carceriera di me stessa».
«Io mi rifiuto: non firmo»
Nella dichiarazione si ribadiscono le ragioni di una radicale opposizione a un progetto che è il paradigma del sistema che regola il paese e le nostre vite. «Sete di giustizia sociale che ci fa schierare contro lo spreco di denaro pubblico e ci impegna al fianco delle lotte per la casa, contro le privatizzazioni, per una sanità e una scuola pubblica e gratuita. Indignazione verso un sistema che garantisce libera circolazione alle merci e ai capitali, ma alza barriere invalicabili contro chi fugge dalle guerre e dalla fame».
Qui è maturato qualcosa che trascende le locali e legittime rivendicazioni bollate come nimby. Anche perché questo progetto si realizza su un territorio specifico ma ha una ricaduta enorme su tutto il paese in termini di spesa e perché oggi più che mai ad apparire interessati a difendere il proprio cortiletto non sono i valsusini; un cortiletto angusto, colmo di una retorica che sopravvive a se stessa sempre più a stento, dove una Grande Opera ricorda più la cantierizzazione eterna di quel bancomat statale che è la Salerno/Reggio Calabria e sempre meno l’utopia delle grandi comunicazioni europee di Jacques Delors citate dai fautori del Grande Buco, buco che rischia di tramutarsi in farsa con il rottamante premier che in val di Susa non si reca mai, per il timore forse che qualcuno gli passi la pagina dove scrisse che la Torino Lione era un’opera fuori dal tempo.
Nicoletta sottolinea un salto in quest’ultima tornata di provvedimenti giudiziari: nonostante tutto ciò che si è vissuto in valle, «è la prima volta che si colpisce in modo irrispettoso, come a volersi vendicare di qualcosa. Secondo gli schemi mentali che appartengono a chi fa questi provvedimenti, i vecchi sono i garanti dell’ordine costituito. Ma qui noi vecchi siamo diventati cattivi maestri e se è per cercare un’umanità diversa, io lo rivendico. Quelli che ci accusano mi fan pensare all’ispettore Javert de I Miserabili di Victor Hugo. Un personaggio triste, prigioniero di un senso del dovere privo di umanità che quando si sente schiacciato dalla statura morale del galeotto Jean Valjean decide di gettarsi nella Senna perché il vuoto della propria vita gli risulta insopportabile».
In preghiera alle recinzioni
Di fronte alla vicenda di Paolo, l’immagine dell’ispettore Javert è ancora più inquietante. Paolo ha 74 anni e fa parte di un gruppo di cattolici molto conosciuto da chi sta dentro il cantiere, perché dal 2011, alcuni di loro si recano in preghiera ogni giorno di fronte alle recinzioni. Paolo è accusato di aver ferito 4 poliziotti e aver spaccato due scudi in dotazione quando alcuni europarlamentari erano stati autorizzati a entrare nel cantiere e dei militanti volevano accompagnarli. La polizia ha negato loro l’accesso. Paolo mi mostra il video che documenta il momento di tensione dove i poliziotti dovrebbero essere stati feriti e gli scudi spaccati.
«Europarlamentari e No Tav al cantiere di Chiomonte sul ponte di Clarea 3 ottobre 2015» è disponibile su Youtube. Paolo è quel signore visibile sulla destra con gli occhiali, con il cappello grigio e lo zaino sulla schiena. Ma non voglio descrivere il video. Dico solo che al termine della visione ho chiesto di vederne una seconda parte che mostrasse finalmente il fatto alla base di queste accuse: ci doveva essere per forza qualcos’altro da vedere. Paolo ha scosso la testa. Quello che si vede è ciò che è accaduto.
Sette chiodi nella caviglia
A casa sua Paolo mi mostra una radiografia di qualche anno fa: si tratta della sua caviglia sinistra dove si possono vedere 7 chiodi ed un perno, in seguito a un incidente. È veramente difficile immaginare che il vecchio che ho davanti, zoppicante e con qualche chiletto di troppo sia il pericoloso soggetto descritto dall’accusa. Attenzione: a scanso di equivoci non voglio dire che Paolo sia buono, secondo l’accezione ipocrita che di questo termine si tenta di far passare, come non occorre essere cattivi per avere forza e determinazione nel compiere dei reati. Paolo questo lo sa molto bene ed è pronto a correre dei rischi. Ma per ciò che fa, non per ciò che non fa. Il magistrato a capo dell’indagine ha proposto l’arresto, il gip lo ha negato. Nel marasma di ciò che accade giornalmente, che ci sia stato qualcuno che ricoprendo un ruolo istituzionale abbia usato il proprio tempo e le proprie energie per discutere seriamente dell’arresto di Paolo, 74 anni e sette chiodi nella caviglia, come un atto di routine giudiziaria sulla base anche del filmato che ho visto, significa che millimetro dopo millimetro in un lento bradisismo, e non durante una scossa di terremoto, è accaduto qualcosa che fino ad un attimo prima si trovava nella sfera dell’impensabile.
«Quando ho ricevuto la busta con le accuse ho provato scoramento. Ora provo misericordia: se son ridotti a fare queste cose a uno come me deve essere gente molto infelice. Invece io nonostante tutto sono felice. Questa lotta mi ha cambiato tanto. Sono un persona più aperta, accogliente, entusiasta. E penso che la vittoria non sia qualcosa di definitivo ma uno stato d’animo, un cammino di umanizzazione». Paolo sorride ma c’è una parte di lui che prova tristezza, perché è una famiglia intera a sentirsi colpita e trattata come delinquenti in un paese dove la presunzione di innocenza vale solo per certe categorie. Se sei un no tav poi, la presunzione è sempre e solo quella di colpevolezza secondo la prassi del colpirne uno per educarne cento.
In questi anni voci e penne autorevoli, piene di senso di responsabilità, hanno affermato delle cose grottesche come la surreale necessità di fare la Torino Lione per difendere la democrazia da una feroce minoranza che la minaccia. Parole incredibili persino da pensare, in nome dell’ordine costituito. Ma con questo ordine costituito in val di Susa si è consumato uno strappo, devastante soprattutto per coloro che nello Stato ci credevano sul serio. La risposta è la rivolta, intesa come un necessario riposizionamento nei confronti di una realtà che si smette di riconoscere come propria. L’unica risposta possibile di fronte al metro di valutazione utilizzato da parte di chi amministra la giustizia, di chi gestisce l’ordine pubblico, del ceto politico, del mondo della cultura che, tranne rare eccezioni, ha snobbato questa vicenda. Temo che molti di coloro che tentano di gestire questo esistente non avrebbero nessun problema ad adeguarsi a scenari in cui lo stato di diritto retrocedesse, magari a causa dell’acuirsi della crisi economica e sociale.
Nella storia del ’900 molti si sono adeguati senza patemi d’animo ai sistemi totalitari. Sto esagerando? Non lo so. Alla fine, mi conforta la giovinezza in barba all’anagrafe di Marisa, di Nicoletta. Mi conforta l’immagine di un vecchio che da solo guarda in silenzio le forze dell’ordine schierate davanti a lui, appoggiandosi al bastone. Mi conforta la sua fede nell’umanità che non retrocede nemmeno quando gli uomini in divisa gli mollano un colpo, uno dietro l’altro, sulla gamba malferma. Paolo cerca di stare in piedi e di parare i colpi proteggendosi la gamba con il bastone: era un po’ meno anziano una decina d’anni fa. Quando mi racconta questo fatto le lacrime ballano nei suoi occhi. Ma è un attimo di sconforto che passa e deve passare perché la sensazione e la voglia di essere vivi e restare umani deve essere più forte di ogni altra cosa. Anche se l’ispettore Javert ti vuole arrestare, e hai 74 anni e 7 chiodi nella caviglia.
Fonte: il manifesto
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